I registi underground Riccardo Vaia e Cristina Pizzamiglio, dell’Endimione Crew, dai primi anni Duemila propongono una precisa idea di cinema, tesa a ribaltare la concezione di ambiente derivato e a trasformare quello filmico in un vero e proprio luogo originario. Alle spalle di questa volontà, una trasformazione dei lasciti del cosiddetto post-moderno che passa attraverso una corposa quanto significativa riflessione sul medium cinematografico.
Anzitutto, una curiosità sul nome della Endimione Crew: come mai avete scelto proprio il mito di Endimione?
Endimione è il mito ‘definitivo’: più di Narciso, egli è il non-essere della Bellezza. Il non-riflesso di ogni sguardo.
In realtà ci sono diverse versioni del mito, ma sostanzialmente si tratta di questo personaggio di cui la Luna, Selene, si invaghisce. Ma il loro idillio è un’estasi senza veglia: amato in sogno, Endimione si fa corpo che può sentire solo l’amore dell’altro; non sa essere senziente che della dea, per intercessione della dea (anch’essa brillante solo di luce riflessa): un essere che sperimenta l’amore in una diafana trasparenza. Senza che niente gli appartenga e niente gli sia estraneo. È la bellezza ‘allontanata’. Sottratta per sempre a quel Narciso, troppo invischiato nella sua proiezione.
Crediamo non si possa chiedere altro al cinema.
Partendo da La lunghezza di Planck [2015], passando per Ludione della Lampada [2016] ed Eden Noon [2017] e arrivando infine al vostro ultimo lavoro, Il paese più vicino [2019], si ha sempre la sensazione che ciò si vede nei vostri film sia tangente a un accadimento che ha luogo altrove, al di fuori dell’immagine. Una sorta di sovversione dell’immagine-azione, se vogliamo.
Se prendiamo Il paese più vicino ad esempio, il film si apre in una catastrofe indefinita che ha portato alla sparizione dell’umanità. Solo un uomo è rimasto a catalogare le rovine di un mondo post-apocalittico. C’è allora questa tragedia: una fine in qualche modo – che tuttavia è già avvenuta, anche se nessuno se n’è accorto -; ma in fondo è proibitivo impossessarsene davvero, farla propria, intimamente. Ci sfugge perché il nostro stesso fallimento ci disprezza. Restano solo delle tracce da raggranellare appunto.Quel non-accadimento è il paese irraggiungibile di cui parla Kafka – Das nächste Dorf (Il paese vicino) –; in tutte le sue declinazioni: la nostalgia, l’altrove illusorio, lo Shangri-La, il ‘castello’ come casa-dell’anima di medievale retaggio. Ma il ‘paese’, la patria, il luogo sono anche la salvezza. E qui s’innesca la fascinazione del femminile. L’amor cortese. Nel film c’è il personaggio della dama che suona l’oud; uno strumento arabo antico, importato in Europa nel Medioevo e ben presto introdotto a corte. La dama vorrebbe sedurci con la sua melodia, far sì che ci abbandoniamo a una prossimità, che in realtà è lontanissima. Un castello con una corte (una dimora appunto), perduti.
Se si vuole, questa è la sovversione – stilnovista, si potrebbe apostrofare – dell’immagine-azione, che citi. Intorno a questo nucleo sono ruotate molte parti dei nostri film.
Rappresentare una catastrofe – come nel caso de Il paese più vicino – o una morte personale – come in Eden Noon -, è di fatto una pretesa arrogante, di cui non possiamo impugnare i diritti. Non può ‘accadere’, in fondo. Quello che ‘accade’ davvero è il film, per la precisione. Con la sua natura pellicolare o digitale che sia (al netto del fatto che tutto è digitale ormai). A rigore il film è l’unica cosa che accade. Una tangenza, come hai detto bene; una traccia rispetto alla vita; che in esso si vorrebbe costringere ad eventuarsi, per plot, per comodità, per ossequio al romanzo dell’800, per assurdo anche. Tutto il processo scolastico (e innamorato, in quanto pieno di desiderio e appassionato) del mettere in piedi un metraggio, dalla scrittura al rendering, non può essere quindi che una tangenza a questo accadere che non accade mai. A questa dimora castellana dell’anima ne Il paese più vicino o alla fuga da se stessi di Planck o Eden Noon.
In tal senso ogni nostro film è, da una parte, una ricerca d’accadimento e d’amore, e dall’altra una miniatura; una banale, se vuoi, mise-en-abîme inconografica.
«Rappresentare una catastrofe – come nel caso de Il paese più vicino – o una morte personale – come in Eden Noon -, è di fatto una pretesa arrogante, di cui non possiamo impugnare i diritti. Non può ‘accadere’, in fondo. Quello che ‘accade’ davvero è il film […]». Nell’immagine, Il paese più vicino.
Verrebbe da concettualizzare i vostri film come entità sonore e visive, oggetti analizzabili a prescindere dalla loro origine, viventi solo attraverso le proprie qualità intrinseche. Una trasposizione in immagini, certo impropria, dell’idea di “oggetto sonoro” di Pierre Schaeffer. Quanto il vostro cinema vive di una simile ricerca di immanenza?
In realtà l’immanenza sta proprio nella Natura. E nella natura del suono-immagine. Le cose hanno/sono suono. Le immagini hanno/sono luce, ecc. C’è inoltre questo glomerulo ibrido che è il cinema-sonoro, per come è stato storicizzato e tecnografato. Oggi peraltro con la tecnologia multipista, si possono tramare autentiche partiture sonore; in contrappunto o meno all’immagine, in cui ogni singolo atomo sonico può avere una separazione, un’equalizzazione, un inviluppo perfetti. Queste entità – intrinseche o sagomate – in realtà ci interessano in quanto ‘massa organica’, insieme alle immagini. Il film sonoro ritaglia un mondo ottico-acustico che è il frame, l’inquadratura (se vogliamo Michel Fano diceva più o meno questo). Tale ‘composto’ è un’istantanea dell’esperienza che il filmmaker edifica. Tutti quei suoni-immagine che compongono il bordone fondamentale del mondo: quella frequenza base delle cose – che ne Il paese più vicino sono appunto il vento, la neve, la caffettiera che gorgoglia (si vedono e si sentono); o in Ludione della lampada possono essere i disturbi ‘drogati’ nella mente del protagonista -. La musica, da parte sua, – quando s’inserisce nel film e in questo bordone – cerca di sgretolarsi nell’atmosfera sonora dei take. Suoni, parole, immagini, musica fluiscono insieme nello spettatore che guarda e ascolta un film: un multi-canale sensoriale che non bisogna mai sottovalutare. Ed è un continuum.
Lo scopo di ‘comporre’ un film è, in breve, abbracciare questo continuum; farlo ‘divenire’, lasciarlo vibrare come ‘oggetto’. Forse questa è l’immanenza che può ‘venire’ dai nostri film. Peraltro parlare di immanenza è piuttosto sfuggente e insidioso oggi, specie per la carica ideologica che questa parola ha assunto storicamente nel contesto del cinema sperimentale. Per noi l’immanenza non può che essere ‘naturalistica’.
In realtà una pressione di rumore minaccia costantemente tutte le immanenze possibili, da ogni parte: esegeticamente, nella critica, nella ricezione, nei Film Studies, nella mutazione mediologica degli stessi supporti. È questo che fa il film in ultima analisi: resiste in una forma a questa minaccia; accogliendo il ‘rumore’ dentro di sé. Se è un buon film, ovviamente. Non si lascia comprimere più di tanto. È un oggetto che s’insedia nel mondo, con la sua refrattarietà. Col suo mistero.
Costruire immagini e suoni – fare film nello specifico – per noi oggi significa esplorare questo rischio.
«Il film sonoro ritaglia un mondo ottico-acustico che è il frame, l’inquadratura (se vogliamo Michel Fano diceva più o meno questo). Tale ‘composto’ è un’istantanea dell’esperienza che il filmmaker edifica. Tutti quei suoni-immagine che compongono il bordone fondamentale del mondo: quella frequenza base delle cose – che ne Il paese più vicino sono appunto il vento, la neve, la caffettiera che gorgoglia […]»
C’è sempre molta amarezza nelle vostre storie, una sorta di pulsione sovversiva che si collega e cristallizza in una serie di riferimenti tra i quali quello ad Andreas Baader in Ludione della lampada, quello a Bagatelle per un massacro di Céline in Eden Noon, la citazione dei Sopralluoghi per un attentato terroristico riguardo ai protagonisti ne Il paese più vicino. Quanto è vitale per voi mantenere il vostro cinema, se vogliamo, “sovversivo”, ai margini?
Non ci interessano i margini né il centro.Ci interessa lo ‘spazio’ del filmmaking. In tutte le sue accezioni. Che è uno ‘spazio’ politico soprattutto. Politica della ‘percezione’; cioè politica tout court.
Ne Il paese più vicino il Viandante cataloga campioni di terriccio, di scorza di alberi, di ruggine; si ‘muove’ in lande deserte, viaggia attraverso o è visitato da misteriose figure della mente (quei ‘castelli’, come dicevamo sopra, che dal Medioevo perseguitano appunto l’uomo occidentale); in realtà sono tutti simulacri. In lui rimane l’illusione; ma pure questa fino a un certo punto. Anche l’illusione-allusione del e al terrorismo infatti – alla rivoluzione come concetto: l’assalto al cielo, per intenderci, che fa capolino in tralice -, è un’eco lontanissima. Il problema di molto cinema oggi è il simbolismo. La sur-codificazione. Come dire? I film troppo a tesi. Quello che assolutamente non volevamo. Perché è esattamente nei simboli che si rapprende la potenza delle immagini.
Ne Il paese più vicino sono il paesaggio e lo spazio che incombono. La Natura è ‘aperta’, non-misurabile in fondo, come nei quadri di Gerhard Richter o nei lavori di Luigi Ghirri. Abbiamo cercato per questo di fotografare il film mediante un procedimento complesso: il Colour Carbon Process, applicato alle cineprese digitali; perché con questa tecnica ci è sembrato di poter cogliere meglio quest’idea di spazio, di immagine. Qualcosa di opaco e al contempo di traslucido, che lascia intravedere ciò che narra, ma ovattandolo. Una smerigliatura del visibile che diviene porosa, rugosa. Abbiamo usato inoltre il più possibile adattatori anamorfici sugli obiettivi (non potendoci permettere dei Cooke XTal), per creare quell’impressione ‘tattile’ e rarefatta, che lascia respirare l’immagine in quanto a morbidezza. La partitura coloristica è stata davvero importante: doveva ‘imprimere’ quel naturalismo ‘geologico’ della polvere, del paesaggio – il verde bruciato dei boschi, i relitti industriali reclamati dalla ruggine ma anche gli oggetti degli interni, sdruciti, logori -. E renderlo per quello che è. Colore. Spazio che scorre. Dall’oscillare di una foglia si avverte la spazialità, l’atmosfera che regna. Lo spazio coglie il ‘risuonare’ del mondo: lo stesso tempo che giace in un’inquadratura è contenuto in quello spazio. L’immagine non è un ‘concetto’ sulla vita, sul mondo; è transitiva. In tal senso i tempi, i movimenti, le inquadrature funzionano come una sorta di ‘diradamento’. Sono la dannazione storica o esistenziale, dei personaggi, ma ancor più delle immagini – che ci accompagna, per nessun luogo -.
Vorremmo sempre che i nostri film apparissero fuori da un milieu preciso. Il paese più vicino potrebbe essere un film settecentesco o postmoderno, o medievale a tratti; ma non lo è; e i personaggi, ai quali ci si vorrebbe affezionare, mancano volutamente di trucchetti emotivi; nel protagonista soprattutto agisce una ‘destituzione soggettiva’: cioè una sorta di dissoluzione dell’attaccamento alla realtà; per cui lui scivola via e tutto l’intreccio è vòlto a ‘illudere’, con la sua trappola trasognante e divinatoria. Più in generale i simbolismi dovrebbero sbriciolarsi in suggestioni, in fate morgane, in immagini ma l’immagine è in verità quella zona-morta, quel paese che non si può raggiungere. Uno ‘spazio’, in fin dei conti. Interno o esterno poco importa. È l’incomprensibile. La Cosa. Lo spazio (più ancora che il tempo) dell’oggetto. Che ‘accade’ durante le riprese. Quell’eccesso di ‘Luogo’, in quanto ‘vuoto’ che sostiene il visibile e che si fissa, come materiale concreto, nelle inquadrature. Il tentativo di comprendere l’apocalisse che ci riguarda – storicamente ma anche a-storicamente – per noi è diventato quindi ‘oggetto’, ‘Cosa’ o meglio è diventato l’attraversamento di quel fantasma.
In Planck o ne Il paese più vicino c’è questo sapore nostalgico che si insinua, ma non si tratta di revisionismo e in fondo nemmeno di disperazione esistenziale; questo infatti porterebbe a una capricciosa secessione infantile del medium dal suo stesso struggimento: è piuttosto una nostalgia incarnata; il ‘vuoto’ della nostalgia. Chiamalo come vuoi: Baader o gli anni ’70 o Céline o Burroughs. Certo, che siamo incazzati è sicuro: questi sono riferimenti molto importanti per noi, ma magari non per chi ‘guarda’ i nostri film. Ciò che dovrebbe emergere al contrario è il senso dell’irraggiungibile: che è tale poiché è proprio ‘lì’. Rifiuta il simbolismo e rifiuta l’interpretazione. È completamente ‘vicino’ e irrefutabilmente ‘lontano’. La faccenda è solo quella di sviare dalla terribile castrazione della rappresentazione, del raggiungere una meta, del consegnarsi perfino a un sacrificio, a un’illusione o a un’apocalisse; e non obbedire a nulla, tranne che a quel ‘vuoto’ centrale.
Non c’è avanguardia né mainstream; non c’è sovversione o adattamento: è questo che non hanno capito molti cineasti ‘sperimentali’ che si trincerano nella turris eburnea della loro presunta ‘rabbia’, ‘estraneità, ‘non-allineamento’, da cui scherniscono il mondo, con il galateo schizzinoso dell’intangibilità.
«[…] i simbolismi dovrebbero sbriciolarsi in suggestioni, in fate morgane, in immagini ma l’immagine è in verità quella zona-morta, quel paese che non si può raggiungere. Uno ‘spazio’, in fin dei conti. Interno o esterno poco importa. È l’incomprensibile. La Cosa. Lo spazio (più ancora che il tempo) dell’oggetto. Che ‘accade’ durante le riprese. Quell’eccesso di ‘Luogo’, in quanto ‘vuoto’ che sostiene il visibile e che si fissa, come materiale concreto, nelle inquadrature.»
Un altro aspetto importante nel vostro cinema, che si evince soprattutto in La lunghezza di Planck, ma anche ne Il paese più vicino attraverso la differenza tra i due attori protagonisti, è l’uso della parola. In questo senso sembrate recuperare la migliore tradizione del cinema underground europeo, si pensi all’uso della parola e delle equazioni in sovrimpressione in A mosca cieca [1966] di Scavolini, ma anche ad altri tipi di cinema come quello di F.J Ossang in Francia. Insomma, se la parola non si propone né di caratterizzare i personaggi né di portare avanti una qualche narrazione, qual è il suo ruolo nei vostri lavori, ammesso che ne abbia uno?
In qualche modo la risposta qui si collega alla domanda precedente sull’oggetto-sonoro. Ne Il paese più vicino c’è un personaggio che predica in continuazione – che si aggrappa disperatamente alla sua retorica (ed è la retorica del dire ma anche del cinema) -, che denuncia il marcio e che cerca il dialogo; ma in realtà è il silenzio dell’altro personaggio – quello che cataloga la polvere -, ciò che si fissa davvero. Lì si ritorna: attraverso il silenzio, che è poi il suono torbido delle cose che si raggrumano intorno, del vento e della neve che soffiano, del balbettare impercettibile dei propri ricordi come fantasmi, del frastuono del proprio vivere nudo. In questa prospettiva il sound design ne Il paese più vicino è stato molto importante insieme alle musiche. Il mix doveva ingoiare quest’ambiguità della tragedia, questo mondo morto per l’uomo.
Se in Planck o in Eden Noon ancora la ‘parola’ riscattava arcigna il suo lignaggio – che fondamentalmente è uno dei percorsi che tu hai sottolineato; l’underground europeo o la didascalìa ‘mallarméana’ di un Godard -; col nostro ultimo lavoro la ‘parola’ continua invece a contestarsi; e non è più una voce-off o narrante; stavolta è ‘in-campo’ ma è come se non lo fosse. Non fa presa. Inizia con un balbettìo e monta in tutta la sua collera frustrata ma non perviene a nulla. Il Predicatore de Il paese più vicino è solo l’ombra, il simulacro dell’altro personaggio, il Viandante appunto. È quest’ultimo che se ne va, senza parlare. Può semmai cantare (una vecchia canzone di protesta operaia). Dove il canto è esattamente il ‘buco’ di ogni ‘dire’. La sua risonanza armonica che si frantuma in significanti.
Se la ‘parola’ ha una possibilità è quella di svanire.
Ludione della lampada.
In una precedente conversazione hai detto che quello che ti auguri nei vostri film è che “ogni volta la significazione si spezzi in qualche punto, in qualche bizzarro modo, non importa come”. Questa frase ci riporta a una citazione di Eden Noon:«tutti hanno un immaginario già colonizzato, perché ora è il quotidiano che si è impadronito dell’assurdo». Questa credo sia l’idea più interessante di tutta la vostra produzione, cioè la coesistenza di una pars destruens necessaria e di una radicale pars costruens, che sfocia nel tentativo di rimettere in scena un immaginario imprevedibile, che si muova verso un’altra direzione. Qual è questa direzione? È importante averne una?
Un film muove dall’immagine e dal suono. L’una è componente dell’altro e viceversa. Anche sinesteticamente. La qualità di questi risiede nella loro cesellata craftsmanship, direbbero gli anglosassoni; una parola impossibile da tradurre; che sta per ‘artigianato’, ‘arte’, ‘lavorazione’, ‘tentare’ la luce e il suono con lenti, sensori, microfoni, equalizzatori, oscillatori, post-produzione e tutto il resto. Scavarli. Intagliarli certosinamente. Disperatamente. La ‘tecnica’ sta al centro perché dipende dalla percezione. Dall’apprendere e indagare minuziosamente la condizione dell’immagine e del suono, nonché le modalità con le quali essi si registrano, si manipolano, si trasmettono.
La qualità, oltre che dall’umiltà e dalla tenerezza della tecnica, dipende allora dall’etica di questa ‘tecnica’ e dal suo scopo, infine.
Tutti hanno un immaginario già colonizzato; anche noi. Non si sfugge al postmoderno. Eppure in un’immagine ben ‘intagliata’ c’è una bellezza differente; che sta al di qua di questa palude. Occorre saperla ‘incidere’. Così è per il suono. Tutta la ‘tecnica dell’’audio-visione’ conduce laggiù. Lo si può sentire fisicamente. Perché il cinema è anche e soprattutto qualcosa di ‘fisico’; un mezzo per espandere la coscienza o la percezione o l’esperienza – anche stavolta possiamo denominarla come ci aggrada, a seconda dei nostri hobby horses culturali, per citare Sterne -. L’imprimatur dei nostri riferimenti, presso questa o quella parrocchietta di pensiero, non ci salverà. È evocare l’espansione che punge. È ‘pervenire al non-stratificato’ che conta; parafrasando anche noi Deleuze, per quanto ormai abusato possa essere. Cioè, nel nostro modo di vedere la faccenda, si tratta di indurre un ‘trasalimento’ – attraverso tutti gli artifici del linguaggio possibile (i colori, le composizioni, il montaggio; tutta la grammatica del cinema insomma) -, senza intenzione predeterminata, alla maniera di un purposeless purposeness cageano, in cui lo ‘scarto’ del linguaggio si ritorca appunto in non-linguaggio, in un fuori della significazione, se così si può dire. Un punto. Uno strappo e una demarcazione. Dove si possa consumare un brillamento. Come una sorta di equivalenza estatica, lontana da ogni misticismo o da ogni scoria macchinica. Semplicemente un immaginario che si produce, giocandosi la posta in palio fino in fondo. Con tutti i suoi corollari, per inciso: un precipitato di memoria, dolore, desiderio, epifania, furore, biologia, crudeltà, una flocculazione indefinita di aderenza al mondo, veicolata da immagini e suoni su uno schermo.
La transitività dell’immagine fa sì che essa arrivi sempre; onda dopo onda (in questo La Nouvelle Vague non suggeriva niente di nuovo). Il trucco cinematografico consiste in ultima analisi solamente nel ‘metterla-in-scena’. Controllarla, sagomarla nella maîtrise più kubrickianamente saturnina e maniacale. Senza illudersi però che essa non congiuri al nostro riguardo. Anzi: è una benedizione che l’immagine ‘parli-da-sé’ tutto sommato; come si suol dire. Perché è lì il suo limes. Lo spazio della sua contro/a-dizione. Bisogna spingerla lì, col montaggio, con gli angoli, con o senza la continuità metrica del cinema classico o grazie o meno alla frastagliatura del flickering cinema; come si crede, non importa. Scagliarla tuttavia senza la presunzione gesuitica del voler sprigionare una rivelazione – questo per contro è un opportunismo bieco e colpevole, una posizione di rincalzo; tipica di chi non sa guardare e non si mette in ascolto -. Scagliarla con il massimo controllo possibile e basta. E infine abbandonare quest’inarcatura alla sua traiettoria. La direzione è imprevedibile ed è la bellezza e l’orrore del mondo.