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L’episodio è dedicato a Everhood [Nordgren, Roca, 2021], videogioco d’avventura ibridato a rythm game che riflette sulla morte (e sulla sua accettazione) con piglio esistenzialista e attraverso un filtro metatestuale.
In Everhood vestiamo i panni di una marionetta di legno che, risvegliatasi in un mondo bizzarro abitato da creature altrettanto bizzarre, intraprende un lungo viaggio per riprendersi un braccio che le è stato rubato da un maiale ciclope prepotente, Gold Pig. Lungo il tragitto il nostro eroe incontra numerosi personaggi che lo affrontano a colpi di ballo e non può fare altro che resistere agli assalti nemici per proseguire, portando l’avversario allo stremo delle forze durante la sua danza. Gli scontri del gioco recuperano in salsa marcatamente rythm game quelli che abbiamo visto in Undertale [Fox, 2015] pur senza riprenderne gli elementi JRPG – e questo non è che il primo di una serie di rimandi all’opera di Toby Fox che, inevitabilmente, mi troverò a fare durante questa analisi. In Undertale, gli scontri coi nemici consistevano nel cercare di schivare numerosi elementi a schermo spostando un cuore rosso. Qua il personaggio è interamente visibile, lo vediamo di spalle su quello che sembra il rigo di una partitura musicale, e deve schivare a tempo di musica i vari attacchi che gli vengono incontro dall’alto, lanciati da avversari di volta in volta diversi. Le vicende della marionetta sono scanzonate e deliranti e passano per numerosi luoghi sconnessi l’uno dall’altro, personaggi irriverenti e svariati minigiochi, nonché un’interessante fase di gioco-nel-gioco in cui si partecipa a una specie di sessione di Dungeons & Dragons.
Le battaglie in Everhood. In basso, il nostro avatar. In alto, gli avversari. Nella prima parte del gioco, ci troviamo per lo più a schivare le ‘note’ che gli avversari ci lanciano contro a colpi di danza.
A livello estetico e narrativo il rimando è di nuovo, più esplicitamente che mai, quello di Undertale: pixel art, estetica, dialoghi, abbondanti sfondamenti della quarta parete, sezioni ipercitazioniste fanno sì che molto spesso ci si chieda, addirittura, se Everhood non sia in qualche modo un seguito del gioco di Fox. Di questo viene recuperato anche lo strenuo tentativo di sorprendere chi gioca, a ogni incontro e a ogni svolta, fino quasi a far diventare il gioco stesso un fatto ‘privato’, in cui si è alle prese con l’evidente mano del designer e non con un mondo virtuale coerente e stabile – fatto che ovviamente farà la gioia di tutti i nostalgici dell’action-rpg del 2015.
Come Undertale, Everhood è un calderone di citazioni e riferimenti a videogiochi passati. Nell’immagine, il mini-gioco automobilistico ispirato ai racing game da cabinato anni ’80.
La parte più affascinante di Everhood però arriva superata la metà del titolo, ovvero quando torniamo in possesso del braccio rubato da Gold Pig. A questo punto, scopriamo che il nostro protagonista grazie al suo braccio può uccidere i personaggi che ha incontrato finora, e che è l’unico in grado di farlo in un mondo invece popolato soltanto da creature immortali. La seconda parte del gioco ci vede quindi fare a ritroso tutto il percorso intrapreso e nel mentre riaffrontare ogni singolo personaggio incontrato con lo scopo non più di schivare i suoi attacchi a colpi di ballo, ma defletterli e ucciderlo. Tramite un oggetto possiamo controllare anche quanti personaggi ancora manchino da far fuori, in modo da assicurarci di uccidere ogni singolo essere vivente in gioco.
Anche in questo caso il rimando è quello della Genocide Run di Undertale: nel gioco di Fox alcuni personaggi ci suggerivano di sterminare ogni essere vivente del sottosuolo, il che comportava una progressiva desertificazione degli ambienti, che diventavano silenziosi e lugubri, fino poi a un finale horror in cui Fox metteva esplicitamente in discussione approcci bulimici, meccanici e completisti al videogioco. Malgrado ricalchi in parte la stessa idea, Everhood percorre una strada diversa: fin da subito, la nostra missione di sterminio viene presentata come un onere gravoso, ma al tempo stesso di necessario e benevolo. In altre parole, se nella Genocide Run lo sterminio è qualcosa che chi gioca autonomamente di fare, e che comporta tutta una serie di ripercussioni negative sull’esperienza di gioco, qua è invece la prosecuzione standard della partita. È ciò che i personaggi indicano di fare, ciò che apparentemente si è nati per fare nel mondo di gioco e ciò che, a scanso di route segrete, non si può che fare per raggiungere il finale standard del gioco.
All’incirca a metà partita, alcuni personaggi ci dicono chiaramente che cosa ci attende: ora che siamo tornati in possesso del nostro braccio, siamo gli unici a poter liberare il mondo di gioco dall’immortalità. Il nostro compito è sterminare tutti i suoi abitanti.
La progressiva desertificazione degli spazi esplorabili è quindi conseguenza inevitabile del nostro stare al mondo (di gioco) come utenza e del nostro proseguire con i nostri incarichi. Il motivo è presto detto: se in Everhood i personaggi sono tutti immortali, porre fine alla loro vita è un gesto denso di significato, che molti accolgono con commozione e positività e soltanto altri, più ottusi, cercano di impedire. Il gioco prosegue fino a che non ci spingiamo oltre, uccidendo anche le divinità di Everhood.
Negli scontri finali affrontiamo una manifestazione metafisica dell’universo di Everhood: in altre parole, dopo aver ucciso ogni singolo abitante del mondo di gioco, uccidiamo il gioco stesso.
Raramente, a livello di mood, si è raggiunta l’ambiguità di Everhood. Salvo pochi individui, la maggior parte dei personaggi in gioco ringraziano quando vengono uccisi, quasi ribaltando l’assunto per cui nel videogioco siamo quasi sempre alle prese con mondi da aggiustare, da riparare o da salvare. Anche qua dobbiamo riparare qualcosa che non funziona, ma al tempo stesso portiamo nel mondo ciò che generalmente associamo a valori negativi: la morte. I personaggi non conoscono la morte e dobbiamo portarla di nuovo nel loro mondo. Siamo quindi nei panni di un mietitore, laddove la figura del mietitore raramente viene celebrata in ambito videoludico – viene da pensare al recente caso di Death’s Door [Acid Nerve, 2021], in cui però salvo qualche premessa narrativa il gioco si attesta su toni e atmosfere ben più classici. In Everhood, invece, sorprende l’ambivalenza con cui la morte viene rappresentata: doniamo la morte a tanti personaggi gioiosi, innocenti e non ostili, e farlo è cosa buona e giusta anche secondo loro.
L’ultima sfida ci vede affrontare tutti gli abitanti di Everhood che abbiamo ucciso, con al centro la figura di uno pseudo-buddha. Dopo averli sconfitti, questi potranno lasciare le loro spoglie mortali e incanarsi in nuovi corpi. Anche questo scontro, come molti dei precedenti, è gioioso anziché drammatico: la morte è rappresentata come un momento prezioso e denso di significato.
In questo senso il gioco si presenta come una riflessione esistenziale giocabile, in particolare attorno all’idea dell’essere-per-la-morte (Sein-Zum-Tode)1 di Martin Heidegger: come secondo il filosofo tedesco l’esistenza si realizza soltanto quando prendiamo coscienza della nostra finitudine, intesa come possibilità e non come fatto (quindi quando prendiamo coscienza della nostra morte, non di quella altrui), così in Everhood siamo alle prese con personaggi che anelano di morire per vedere la propria vita acquisire un senso. Talvolta i dialoghi con questi personaggi suonano come vaneggiamenti di una psiche suicida, altre volte invece assumono un tono più lucido, più profondo da un punto di vista filosofico: tramite la morte, i personaggi di Everhood danno un senso alla loro vita anche laddove la loro vita è stata vissuta appieno, goduta. In questo senso ancora di più viene da pensare al vivere-per-la-morte di Heidegger: è nella possibilità ultima di essere uccise che queste creature riescono a gioire del proprio passato e presente. Porre fine all’immortalità è un regalo che facciamo a questi esseri: doniamo loro un senso, una fine, così come desiderano.
Da un punto di vista narrativo e tematico, tutta questa riflessione punta a far familiarizzare l’utenza con l’idea della morte, molto spesso fantasmizzata o obliterata da un punto di vista procedurale – ma saldamente, quasi ossessivamente presente da un punto di vista tematico, narrativo e rappresentazionale, dal videogioco di guerra al filone walking simulator, costellato di esplorazioni funeree come in What Remains of Edith Finch [Giant Sparrow, 2017]2. L’apparizione finale di un buddha mette tutto in prospettiva, riconfigurando l’essere-per-la-morte heideggeriano nella prospettiva di una rinascita in altre forme, spazi e tempi – una visione quindi fondamentalmente spirituale, che si slancia verso nuovi inizi dopo aver dato senso al passato attraverso una fine.
La figura che ci affronta per ultima è un buddha.
Nel gioco è però evidente anche un altro livello di lettura, quello metatestuale. Everhood recupera anche questa dimensione da Undertale, forse uno dei videogiochi “meta” più importanti di sempre. Anche qua, la quarta parete diventa protagonista fin dalle primissime sezioni del gioco,3 con un riferimento costante alla distinzione tra entità giocata e umanità giocante, posta al di fuori del mondo di finzione. Anche qua, man mano che si avanza durante la partita ci si trova dinnanzi a glitch ed espedienti grafici che consegnano il mondo di gioco come un mondo consapevolmente limitato, artefatto, e in particolare ben conscio della propria digitalità (che diventa protagonista intere sequenze giocabili). Anche Everhood, quindi, può essere interpretato come riflessione, prima ancora che sul senso della vita e sulla morte, sull’atto del giocare e sul rapporto che abbiamo coi mondi di finzione interattivi.
Come Undertale, anche Everhood è ricolmo di sfondamenti della quarta parete e di dialoghi che si riferiscono direttamente all’utenza, evidenziando l’artificialità del mondo di gioco.
In Undertale incontravamo una figura, tra le altre, che era consapevole di essere all’interno di un videogioco e di non poter morire. Questa figura manteneva la propria coscienza a ogni ciclo (di riavvio del gioco) e aveva per questo già esplorato ogni possibilità che il mondo finzionale in cui si trovava poteva offrirle quando la incontravamo. Tramite quel personaggio in particolare, Undertale rendeva più che mai esplicita la sua dimensione metatestuale. Qua sembra che la riflessione su vita e morte segua una direzione simile: i personaggi immortali di Everhood sono tali, anzitutto, in quanto entità finzionali che abitano un mondo non reale.
Flowey, in Undertale, è un personaggio metatestuale imprigionato nel mondo di gioco e consapevole della sua artificialità.
In quanto artefatto, il videogioco è popolato come ben sappiamo da entità programmate, che per quanto possano comportarsi in modo variabile sono pur sempre vincolate a un codice di partenza che ammette solo un numero limitato di possibilità. Essendo poi ripetibile, in quanto artefatto digitale, il videogioco potrà sì raccontare di mondi che si evolvono, cambiano, vengono salvati o distrutti, ma inevitabilmente dopo i titoli di coda potrà anche essere riavviato, riaccadere da capo come se nulla fosse accaduto. Come in un film, i personaggi di un videogioco sono allora entità immortali, in quanto all’interno di un ciclo infinito di pattern, comportamenti, scelte e quant’altro.
Ecco allora che ‘liberarle’ da questa immortalità significa anche, paradossalmente, liberarle dalla loro natura artefattuale, digitale o finzionale che dir si voglia. È opportuno specificare “paradossalmente” perché, nel mentre che le liberiamo, siamo pur sempre ben consapevoli che non saranno mai al di fuori del gioco ‘per sempre’. Questo cortocircuito di senso era presente anche in Undertale, in cui le principali svolte narrative ruotavano tutte attorno al sospendere il giudizio (e l’incredulità) sulle possibilità stesse del videogioco – convincendoci che le entità in gioco potessero davvero essere ‘prigioniere’ nel gioco solo momentaneamente, che provenissero da un altrove non digitale, o che potessero essere liberate dalla loro prigionia dopo i titoli di coda.
Sempre sulla scia di Undertale, anche OneShot [Little Cat Feet, 2014] presenta un protagonista che è ospite del mondo di gioco solo momentaneamente e che proviene da un altrove non digitale.
Anche Everhood eredita questa ambiguità nel momento in cui si carica di implicazioni auto-riflessive e metatestuali: per quanto siamo ben consapevoli che non ci sia alcuna via di fuga per queste entità, questi ammassi di pixel, codice, scritte e musiche (questi prompt per giochi di finzione, come direbbe Kendall Walton),4 accettiamo l’illusione che li stiamo effettivamente liberando dal mondo in cui sono prigioniere – ben consapevoli che, per definizione, la liberazione viene loro legata proprio nel momento in cui si rende possibile all’interno di un artefatto giocabile e digitale.
We shall venture beyond the horizon!
Il taglio ‘spirituale’ del finale di Everhood prova forse a rimediare a questa ambiguità: se è vero che il videogioco, in quanto artefatto ripetibile e reversibile, non può simulare la morte, tenta allora di simulare un ciclo di reincarnazioni. Il buddha che appare alla fine del gioco sembra allora risolvere l’ambiguità e il cortocircuito di Undertale: stiamo liberando queste entità dall’immortalità, ma non perché saranno libere e mortali in un altrove indefinito fuori-gioco e a posteriori dei titoli di coda. Doniamo loro la morte perché possano tornare nella ruota e tornare a vivere, a incarnarsi in altri mondi.
Il genocidio che compiamo in gioco è un letterale ‘far finire’ il mondo di Everhood affinché possa ricominciare daccapo – ma anche affinché noi, con soddisfazione, possiamo volgere lo sguardo altrove. In questo senso, se la riflessione del gioco sul tema della morte è senza dubbio affascinante e inconsueta, essa è anche l’ennesima iterazione di un filone tanatologico che intreccia, da sempre, narrazioni videoludiche e ideologia capitalista. Come molti altri titoli, attraverso l’auto-riflessione Everhood si auto-definisce anzitutto come un’esperienza consumabile, finita e limitata, all’interno di un sistema di consumazione di testi e segni spesso ipertrofico. In altre parole, Everhood ci si consegna non solo come mondo auto-consapevolmente artificiale, ma anche e soprattutto piccolo, meccanico, esauribile, per giunta ideato con lo scopo di essere esaurito, affinché si trovino la forza e il coraggio di passare ad altro nel breve tempo di una partita. Ma di queste implicazioni e della connessione tra tanatologia, ideologia e mondi videoludici torneremo a parlare più compiutamente nei prossimi episodi del podcast.
NOTE
1. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927.
2. Vedi S. Caselli, What Remains of Edith Finch. Fantasmi e spazi digitali nell’arte videoludica, Lo Specchio Scuro, 2017.
3 Per quanto il concetto stesso di quarta parete non possa essere adattato al videogioco così come preso dagli studi sul cinema, vedi A. Waszkiewicz, “Together They Are Twofold”: Player-Avatar Relationship Beyond the Fourth Wall, Journal of Game Criticism, 2020.
4. K. Walton, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of the Representational Arts, Cambridge: Harvard University Press, 1990.