La figura di Esfir (o Esther) Il’inichna Shub è certamente una delle più trascurate dagli studi sul cinema sovietico. Ingiustamente messa in ombra dalla fama dei colleghi,1 Shub ha ricoperto un ruolo di spicco nell’evoluzione del film di compilazione così come nella catalogazione e nel recupero di materiali di archivio. Inoltre, fu una delle poche donne ad emergere come regista e montatrice in Russia nel corso degli anni ’20. Secondo Vlada Petric, «deve essere considerata, insieme a Dziga Vertov, la cineasta sovietica più avanguardista nel cinema documentario muto».2
Esfir Shub nacque il 3 marzo 1894 (seguendo il calendario odierno, il 16 marzo), a Surazh, che oggi fa parte del distretto di Brjansk e che allora era un’area a sud-ovest dell’Impero zarista. Nonostante fosse figlia di proprietari terrieri ebrei,3 riuscì a trasferirsi a Mosca a metà degli anni ’10 per studiare letteratura all’Istituto per l’Istruzione Superiore Femminile.4 Durante questo periodo, antecedente alla Rivoluzione d’Ottobre, Shub entrò in contatto con la famiglia dello scrittore Alexander Ertel, la cui casa era luogo d’incontro per importanti esponenti del panorama culturale dell’epoca: poeti come Vladimir Majakovskij e Velimir Chlebnikov, scrittori come Andrej Belyj, pittori come Davyd Burljuk. «Appartenevano tutti al movimento avanguardista, che combatteva l’arte tradizionale così come la politica culturale ufficiale imposta dal governo zarista»,5 perciò, grazie alla loro influenza, Shub si avvicinò alle idee anticonformiste e rivoluzionarie, sviluppando un iniziale interesse per il teatro. La sua carriera, infatti, prese avvio nel dipartimento di teatro del Narkompros, dove Shub lavorò fianco a fianco con personalità del calibro di Vsevolod Mejerchol’d.
Esfir Shub. Immagine da https://apatria.org/politica/tu-ja-viste-algum-filme-da-cineasta-esfir-shub-se-nao-sabes-o-porque/
Ben presto scoprì la passione per il cinema; nel 1922 fu assunta da Goskino (la futura Sovkino), compagnia per la quale si occupò di tagliare e montare film importati dall’estero, cambiandone gli intertitoli e adattandone forma e contenuti alle esigenze sovietiche. Il re-editing di più di 200 di film stranieri e di una dozzina di lungometraggi russi consentì a Shub di acquisire una straordinaria abilità nell’arte del montaggio (fu lei stessa ad affermare che quella era stata la sua sola scuola).6 La maggior parte dei film sui quali lavorava erano film a episodi, importati da Paesi fuori dall’URSS dove vigeva l’uso di proiettare un film dividendolo in due o tre serate. L’incarico di Shub era quello di assemblare questi episodi, tagliando, eliminando, ricomponendo le sue parti, per creare un unico lungometraggio, coerente e in linea con i valori promossi dal governo sovietico. Tra i suoi lavori più noti, l’esercizio di montaggio su Il dottor Mabuse [Dr. Mabuse, der Spieler, Fritz Lang, 1922], al quale partecipò anche Sergej Ejzenštejn, che spesso osservava Shub all’opera.7 Shub montò e sottotitolò nuovamente pietre miliari come Carmen [Charlie Chaplin’s Burlesque on Carmen, Charlie Chaplin, 1916] e Intolerance [id., D.W. Griffith, 1916], oltre ad un gran numero di film americani con protagoniste femminili (in particolare, quelli con Ruth Roland e Pearl White), contribuendo così ad accrescere la fama delle attrici in URSS.8
Nel 1925, le fu affidato da Sovkino il suo progetto più noto, La caduta della dinastia Romanov [Padenie Dinastii Romanovykh, 1927]. Fu il primo capitolo di una trilogia dedicata all’ascesa dei Bolscevichi al potere. Nonostante non fosse iscritta al partito, Shub aveva familiarità con la politica, tanto che negli anni dell’università aveva fatto parte di un gruppo di giovani donne marxiste e nel 1917 aveva preso parte alle rivolte di febbraio.9 La caduta della dinastia Romanov doveva essere «la prima ricostruzione storica visiva pubblica della Rivoluzione di Febbraio del 1917»10 e approdato nei cinema in occasione del decennale della Rivoluzione. Grazie a questo lavoro, Shub si affermò come pioniera nel campo dei film di compilazione, detti anche compilation film, ovvero quei film che fanno ampio uso di filmati d’archivio, che sono opportunamente tagliati e riordinati secondo il preciso disegno dell’autore. Quella di Shub fu una vera e propria impresa: visitò svariati archivi e recuperò materiali che si credevano perduti, convinse il governo a ricomprare alcuni filmati venduti agli Stati Uniti, restaurò personalmente negativi deteriorati.11 Lei stessa racconta di aver ispezionato «60000 metri tra negativi e positivi», 1500 dei quali sono confluiti nel suo film.12 Solo 1/6 del documentario è composto da nuovo girato, la maggior parte di ciò che vediamo è materiale d’archivio; per l’occasione, Shub filmò soltanto «vecchi documenti, lettere, fotografie, oggetti e giornali per compensare la mancanza di materiale».13
Un frame da La caduta della dinastia Romanov
Il successo de La caduta della dinastia Romanov permise a Shub di portare avanti la sua trilogia, realizzando The Great Road [Velikyi put, 1927] e Lev Tolstoj e la Russia di Nicola II [Rossiya Nikolaya II i Lev Tolstoy, 1928], entrambi compilation film. The Great Road celebrava i successi sovietici ottenuti tra il 1917 e il 1927; in questo caso, Shub attinse a quei materiali d’archivio reperiti negli USA, dato che contenevano delle preziose immagini inedite di Lenin14 (giunte fino a noi proprio grazie al lavoro della regista). Lev Tolstoj e la Russia di Nicola II, che uscì in concomitanza col centenario della nascita di Tolstoj e che oggi è considerato perduto, copriva invece il periodo che va dai primi anni del cinema alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. La ricerca dei materiali per quest’ultimo documentario fu particolarmente impegnativa. In un articolo del 1929, dal titolo And again the newreel, la stessa Shub racconta di aver avuto a disposizione soltanto 80 metri di girato (da sommare a 100 metri relativi alla residenza di Tolstoj, Jasnaja Poljana, 100 metri su Astapov, città in cui lo scrittore morì, e ben 300 o 400 metri del funerale).15 La convinzione che offrire una rappresentazione di una figura controversa e sfaccettata come Tolstoj tramite l’uso di cinegiornali fosse di primaria importanza, spinse Shub a trovare un modo per portare a termine il lavoro. Scelse di focalizzarsi sulle teorie filosofiche e religiose di Tolstoj, ma le inserì nel contesto sociale in cui visse, ponendo così lo scrittore al centro della Storia. Per raggiungere il suo obiettivo, recuperò vecchi filmati girati in Russia da cameramen stranieri, fece ricerche nell’archivio fotografico zarista, fotografò oggetti vicini a Tolstoj; in seguito, si informò sul background storico del periodo che doveva prendere in considerazione: studiò molto, fece interviste, parlò con amici e collaboratori dello scrittore. Infine, abbozzò una sceneggiatura. Solo allora selezionò le inquadrature.16
Nel 1929, Shub lasciò la Russia e andò in Germania per collaborare con i comunisti a Berlino. Il risultato del viaggio (con tutta probabilità organizzato dalla sezione per l’agitazione e la propaganda del Comitato Centrale) fu Oggi [Segodnya, 1930], un film realizzato unendo spezzoni di cinegiornali e nuovo materiale girato sul momento.17 Con Oggi, Shub abbandonò il documentario storico per concentrarsi sulla contemporaneità, mettendo a confronto il capitalismo occidentale e il comunismo russo. Oggi rientra nel genere dei film cosiddetti pubblicisti, il cui scopo è trattare tematiche d’attualità e di politica sia interna sia estera.18
Un frame da Oggi
Durante la permanenza a Berlino, Shub entrò in contatto col cinema sonoro, invenzione di quegli anni. Ne fu entusiasta, era convinta che il cinema sonoro avrebbe offerto ai film non recitati «una reale opportunità per diventare il perfetto strumento per la comunicazione a livello internazionale»19 e considerava essenziale che i documentaristi imparassero come registrare il suono dal vivo, senza ricorrere alla postsincronizzazione in studio. Dopo la sua visita agli studi cinematografici sonori tedeschi, la regista concluse che i film muti arricchiti solo successivamente con la componente sonora non funzionassero. Il suono, in quel modo, non aveva «alcuna connessione con l’essenza del film» e appariva «morto, metallico, innaturale e soffocato».20
Il primo film sonoro di Shub fu K.S.E. – Komsomol, lo sponsor dell’elettrificazione [KSHE – Komsomolya – shef elektrifikatsii, 1932], che fu anche il suo primo lavoro realizzato interamente con materiale girato da lei. Il film inizia in una fabbrica di lampadine di Mosca, si sposta in un impianto di Leningrado, poi in Armenia; l’evento centrale è l’apertura della centrale idroelettrica di Dneprostoi. Per questo incarico, il compito di Shub era rispondere alle richieste del Komsomol (l’Unione della Gioventù Comunista Leninista di tutta l’Unione): doveva mostrare il coinvolgimento della gioventù comunista nel progetto di costruzione della centrale e far comprendere l’importanza del processo di elettrificazione. I tentativi di sperimentazione col sonoro sono evidenti per tutta la pellicola. Ad esempio, Shub volle inserire dialoghi in più lingue, che non erano tradotti ma potevano essere facilmente capiti dal pubblico, a causa della ricorrenza di parole note (Komsomol, proletariato, Lenin, Stalin…): l’intento era esaltare il cinema come linguaggio universale, indipendentemente dalla sua natura muta o sonora.21
K.S.E. – Komsomol, lo sponsor dell’elettrificazione
In seguito a questo progetto per il Komsomol, Shub non ottenne grossi ingaggi, anzi, si può dire che trascorse anni alla ricerca di un lavoro.22 Non abbandonò la professione di montatrice, continuando, tra il 1933 e il 1935, a insegnare tecniche di montaggio al VGIK, lo stesso Istituto di Cinematografia di Lev Kuleshov e Sergej Ejzenštejn.23 Intanto, tra il 1933 e il 1934, Shub sviluppò idee per un film che avrebbe dovuto intitolarsi Donne e mostrare l’emancipazione delle donne russe avvenuta sotto il governo dei bolscevichi. La regista aveva già in mente lo svolgimento della storia e la mise per iscritto: all’inizio avrebbe messo in scena i classici stereotipi sulle donne nell’arte (svenire tra le braccia di un uomo, ad esempio) e dimostrato come la donna nell’epoca zarista ricoprisse ruoli marginali o fortemente sessualizzati, per poi illustrare tutti i cambiamenti positivi apportati dal bolscevismo (le donne che prendono parte ai lavori nelle fattorie, smettendo di indossare soltanto le vesti di prostitute o di sante).24 Per rafforzare il messaggio, alcune donne comuni avrebbero raccontato di fronte alla macchina da presa le loro vere esperienze e nel film sarebbero stati inseriti personaggi di finzione, come una ex prostituta che, riabilitata, aveva trovato un nuovo lavoro.25 Nonostante Shub tenesse molto alla realizzazione del film, esso non riuscì mai a vedere la luce. Erano anni duri per gli avanguardisti degli anni ’20: Stalin amava il realismo, non le sperimentazioni.
Nel 1934 Shub diresse Mosca costruisce la metropolitana [Moskva stroit metro], un lungometraggio sulla costruzione della metro di Mosca. Allora, la sua carriera era in fase di stallo; proprio nel 1934 tentò di pubblicare diversi annunci per cercare lavoro (annunci che non comparvero mai sui giornali).
Ironicamente, nel 1935 fu insignita di un’onorificenza in qualità di Artista della Repubblica.
Negli anni successivi, fu regista e montatrice di un buon numero di film, che però non seppero raggiungere i livelli della sua trilogia. Il Paese dei Soviet [Strana Sovetov, 1937], ad esempio, impiegava gli stessi materiali usati per La caduta della Dinastia Romanov, arricchiti da intertitoli che esaltavano la figura di Stalin come padre della Rivoluzione.26 Il suo operato, in ogni caso, era supervisionato con attenzione e Shub aveva poche libertà; sotto Stalin, la censura colpiva tutti gli artisti. Tra i suoi lavori del periodo si ricorda 20 years of soviet cinema [20 let sovetskogo kino, 1940].
Durante la II Guerra Mondiale, l’abilità di Shub nel manipolare fatti reali per offrire una nuova versione della storia e comunicare un’ideologia, la aiutò a farsi assumere. In Spagna [Ispaniya, 1939], mostrò la violenta guerra civile spagnola, ponendo l’accento sul coinvolgimento dei comunisti a fianco dei cittadini nella lotta. La giustapposizione tra scene riprese durante un corteo religioso e sequenze con protagonista la distruzione di Madrid mette in scena gli orrori della guerra. Ma le competenze straordinarie di Shub nel montaggio emergono maggiormente sul finale: la sconfitta è presentata come il frutto di una cospirazione e, in ogni caso, non sembra proprio una sconfitta. Il film offre l’impressione di una vittoria, poiché, fino all’ultimo, i comunisti marciano per le strade di Madrid con cartelloni antifascisti.27 Ancora una volta, Shub proponeva al pubblico una lettura diversa della realtà, e lo faceva, come suo solito, tramite il documentario (in particolare, combinò cinegiornali che riprendevano fascisti fatti prigionieri con materiale girato al fronte da Roman Karmen e Boris Makaseyev).28
Spagna, sul finale sembra raccontare una vittoria, quando è tutto il contrario.
Riuscirono nel medesimo intento di Spagna anche Il fascismo sarà sconfitto [Fashizm budet razbit, 1941], un lungometraggio riguardante i crimini nazisti, e Terra Madre [Strana rodnaya, 1942], poiché entrambi «fanno apparire vittorie degli eventi disastrosi».29 D’altronde, in un modo o nell’altro, l’Unione Sovietica doveva trionfare.
Negli anni ’40, Esfir Shub proseguì i suoi studi sul documentario; nel 1942 terminò l’esperienza lavorativa con Goskino e divenne responsabile del montaggio del cinegiornale Novosti Dnya presso lo Studio Centrale di cinema documentario di Mosca.30 Trascorse la fine della carriera a scrivere le sue memorie, poi riportate in un libro intitolato Zhizn’ moia – kinematograf. Tra i suoi ultimi film, The trial in Smolensk [Sud v Smolenske, 1946] e On the other side of the Araks [Po tu storonu Araksa, 1947], considerato l’ultimo progetto di Shub ad essere completato. On the other side of the Araks riflette sulle difficili condizioni della popolazione degli Azeri, in Iran, e dimostra che Shub finì per allontanarsi dalla propaganda sovietica per avvicinarsi a tematiche sociali.31 Esfir Shub morì nel 1959.
Il film di compilazione secondo Shub: ricerca, catalogazione, selezione, montaggio
Nonostante sia spesso ritenuta la prima ad essersi cimentata del film di compilazione, Esfir Shub aveva alle spalle qualche esempio che si può ricondurre a questo tipo di cinema. Fin dalla nascita del cinema, c’erano stati film creati dall’unione di inquadrature appartenenti ad altri film. Inoltre, nel periodo della II Guerra Mondiale apparvero vari film non-fiction costituiti da filmati d’attualità preesistenti.32
Tuttavia, Shub fu una pioniera nel campo del compilation film dal momento in cui seppe introdurlo in Unione Sovietica piegandolo alle esigenze politiche del periodo. Come afferma J. Murray-Brown nel tracciare la biografia della regista, «Shub dimostrò come il contenuto del film borghese potesse essere trasformato per servire la causa sovietica».33 L’intenzione di Shub, come dichiarò lei stessa, era rivalutare il materiale controrivoluzionario dal punto di vista del proletariato, ecco che cosa ha reso i suoi film davvero rivoluzionari, d’agitazione.34
Il primo passo per dar vita ai suoi compilation film era, come si è visto, la ricerca. La caccia ai filmati da impiegare in La caduta della dinastia Romanov (e negli altri due capitoli della trilogia) venne portata avanti da Shub con ostinazione e grande passione, nonostante le difficoltà.
All’epoca, in Russia, non c’erano archivi ben organizzati dai quali attingere e per ottenere dei risultati era necessario perlustrare cantine e caveau, dove erano nascosti materiali ammucchiati in ordine sparso e dimenticati (è noto che riprese dello zar con la sua famiglia furono scoperte da Shub in uno scantinato a Leningrado). In altri casi, i filmati non si trovavano neanche in patria, perché erano stati venduti a produttori di cinegiornali esteri, allora si dovevano fare pressioni affinché fossero acquistati e riportati in Russia. Shub stessa, nelle sue memorie, raccontò di un’immersione totale nelle ricerche («Ritrovare filmati è diventato una sorta di sport per me»35). Inoltre, lamentò l’assenza di cineteche negli studi cinematografici di Mosca e di Leningrado, asserendo che c’era un gran numero di negativi archiviati senza alcuna catalogazione. Come unico aiuto, a Shub fu consegnata una lista di titoli di vecchi cinegiornali. Spettò a lei il compito non solo di recuperare quanti più materiali poteva, ma anche di restaurarli, organizzarli ed esaminarli. Il suo bottino finale si componeva dei filmati più disparati, dei quali non era noto neanche l’anno. Grazie alla precisione chirurgica di Shub e alla sua immensa opera di catalogazione, interi eventi vennero ricomposti a partire da frammenti di varia origine (è chiaro che la regista doveva farsi guidare dai contenuti dei ritrovamenti per capire su quali temi incentrare le sue opere36).
A Esfir Shub va il merito, riconosciutole fin da subito, di aver creato un enorme archivio dal quale ogni cineasta poteva attingere: non lavorò soltanto per sé stessa, ma in favore di tutta la comunità, spinta dal collettivismo socialista e dal desiderio di contribuire attivamente a cambiare le difficili condizioni produttive del cinema sovietico.37 Shub per prima notò un mutamento nello stato degli archivi sovietici rispetto a quando lei era entrata in attività. In un articolo datato 1928, si rallegra dei miglioramenti avvenuti nelle cineteche di Mosca e di Leningrado, che stavano iniziando a raccogliere attentamente i filmati e a catalogarli in ordine cronologico. Nello stesso scritto, nota che i cinegiornali contemporanei cominciavano ad ampliare i loro orizzonti, concentrandosi non soltanto su cerimonie e manifestazioni pubbliche e restituendo finalmente la varietà del quotidiano.38 «Senza i filmati di oggi», sosteneva la regista, «le generazioni future non saranno in grado di comprendere e interpretare il loro presente».39
L’uso di podlinii material (“materiale autentico”), ovvero di fatti reali, era centrale nella visione di Shub.40 Secondo lei, «il materiale autentico è qualcosa che dà linfa vitale al documentario, indipendentemente dal fatto che esso sia composto da materiale d’archivio o girato da un filmmaker».41 Nei suoi scritti, cercando di spiegare il motivo per cui era tornata spesso sui cinegiornali, sentenziò che «solo il cinegiornale, solo il film non-fiction, solo le riprese dal vivo sono capaci di rappresentare la grande epoca che stiamo attraversando e le persone che ci vivono e vi lavorano».42 Inoltre, si già parlato del sostegno di Shub al sonoro, considerato dalla regista un vero e proprio punto di svolta per il documentario ma soltanto se registrato in presa diretta, evitando quindi il doppiaggio in studio.
Il lavoro del cineasta, nella prospettiva di Shub, doveva essere volto alla presentazione di fatti reali ripresi dall’obiettivo della macchina da presa. È il cosiddetto factualism (“fattualismo”).43 L’autenticità ontologica dell’immagine cinematografica44 era la via migliore per separare il cinema dalle altre arti e dall’estetica tradizionale, che vorrebbe ogni inquadratura nitida, priva di difetti e perciò falsa. Dato che il cinema ha in sé il potere di mostrare la realtà delle cose, ricostruire gli eventi e architettare messe in scena (quello che accade nella fiction) è controproducente.45 Tuttavia, è doveroso ricordare che, a differenza di colleghi impegnati in una simile applicazione del fattualismo (primo tra tutti, Dziga Vertov), Shub credeva che un documentario potesse conservare l’autenticità anche se il materiale in esso era stato girato da qualcuno che aveva seguito una sceneggiatura scritta in precedenza (fu lei stessa ad inventare il termine khudozhestvennyi dokumental’nyi fil’m, traducibile con “documentario artistico”, per riuscire ad etichettare i suoi lavori).46
I materiali, in ogni caso, andavano montati: i fatti dovevano essere ordinati. Nelle mani di Shub, «il fatto viene incastonato come un gioiello nel film»47, come sottolinea Esther Leslie. Quel che esso deve fare è attirare lo sguardo degli spettatori e lasciarsi studiare. Per questo motivo, le inquadrature di Shub sono lunghe, concedono molto tempo all’esame del fatto e consentono così di immagazzinarlo nella mente. L’obiettivo della regista-montatrice non era restituire una cronologia degli eventi, ma favorire dei collegamenti mentali e una più ampia comprensione del mondo da parte dello spettatore.48 Shub prestava attenzione non alla continuità narrativa, ma al significato che poteva emergere da un’azzeccata contrapposizione tra inquadrature (per esempio, è ricorrente la dicotomia tra proprietari terrieri benestanti e contadini logorati dal lavoro), pensava all’impatto che essa avrebbe avuto sul pubblico (era una possibile applicazione del montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn, che aveva simili mezzi e scopi).49 Quello di Shub non era un montaggio schematico, come fa notare Vlada Petric, ma intuitivo: la regista-montatrice procedeva per associazioni, percepiva il ritmo in modo naturale e sapeva tagliare nel punto giusto.50 È Shub stessa a confessare, a chi le chiedeva come facesse ad essere così brava nell’editing, che non c’è una regola fissa per ottenere un buon montaggio, si tratta di capire ogni volta «il senso della parte nell’insieme»51 (il significato del singolo fatto in mezzo a tutti gli altri) e di fare molta pratica, così da sviluppare abilità manuale e buona memoria visiva. «Il montaggio è un’abilità chiave per i lavoratori del cinema», scriveva, «una persona che non è capace di montare, non dovrebbe fare affatto cinema».52
Esfir Shub
D’altronde, la carriera di Shub era iniziata, come si è visto, come re-editor e editor, gli unici lavori che all’epoca erano concessi ad una donna che voleva addentrarsi nel dietro le quinte del mondo del cinema. Il montaggio era sempre stato considerato adeguato al sesso femminile «a causa della somiglianza con il cucito, la tessitura e altre forme di lavoro manuale».53 Le donne al montaggio svolgevano quelle attività considerate noiose, monotone, ripetitive e non appena il lavoro si faceva più complesso o richiedeva una maggiore capacità decisionale erano sostituite da un uomo: le donne pulivano e coloravano la celluloide, ma gli sviluppatori nei laboratori cinematografici erano principalmente uomini.54 Un poco noto articolo di Shub getta luce sul mestiere delle montazhnitsy (“montatrici”, si noti che il nome era declinato, in quegli anni, sempre al femminile, singolare o plurale, e molto di rado al maschile).55 Shub era entusiasta di quello che facevano le donne nel reparto di editing: erano altamente specializzate, molto qualificate e precise nel loro incessante lavoro. Nell’articolo, la regista-montatrice ricorda che la montazhnitsa che la aiutava nel periodo in cui si occupava di re-editing di pellicole straniere non aveva mai commesso un errore; ugualmente preparata era T. Kuvshinchikova, assistente di Shub nella realizzazione de La caduta della dinastia Romanov e di The Great Road (era lei che l’aveva aiutata nella catalogazione e nel restauro di tutti i materiali). Tuttavia, nonostante l’operosità e la competenza tecnica, le montazhnitsy restavano subordinate ai loro supervisori e ai registi e seguivano indicazioni dettate dall’alto, godendo di scarsissima libertà creativa.56
Per questi motivi, era strano che una donna passasse dalla sala di montaggio alla regia, ed ecco perché, all’uscita de La caduta della dinastia Romanov, a Shub non furono riconosciuti i meriti che le sarebbero stati dati se fosse stata un uomo.57 Sul poster de La caduta della dinastia Romanov ottenne soltanto un piccolo credito: «Un lavoro di E.I. Shub».58 Il suo ruolo venne percepito dai più come quello di editor di vecchi filmati, persino il capo di Goskino asserì che quello era un lavoro che «chiunque poteva fare».59 Shub ottenne i diritti d’autore de La caduta della dinastia Romanov (e il compenso adeguato) soltanto in seguito ad una controversia con la casa di produzione (la Sovkino) e grazie all’interessamento dei colleghi del sesso opposto, che si schierarono dalla parte della regista.60
Esfir Shub, Dziga Vertov e Sergej Ejzenštejn
Per avere una visione d’insieme di ciò che è stata la figura di Esfir Shub, è utile confrontare il suo lavoro con quello di alcuni colleghi e riportare ciò scrivevano di lei sulle riviste culturali dell’epoca.
Tra le influenze principali su Shub, Vlada Petric segnala Dziga Vertov e Sergej Ejzenštejn, due colossi del cinema sovietico, che a loro volta hanno subito l’influenza di Shub.61 Per riassumere, si potrebbe dire che la poetica di Shub si ponesse a metà strada tra quelle dei due autori. La regista fu una delle critiche più oggettive di entrambi, giudicava film e metodi senza curarsi degli antagonismi esistenti tra i gruppi di cineasti. Neanche il matrimonio con Alexei Gan, editore della rivista Kino-Fot, che attaccava spesso Ejzenštejn, fece vacillare il profondo senso di rispetto che Shub nutriva nei confronti del regista.62
Sergej Ejzenštejn
Per quanto riguarda Vertov, è chiaro che il punto in comune con Shub risiedesse nell’importanza data ai fatti reali e al cinema non-fiction. Entrambi «ardenti avvocati del fattualismo»,63 come li definisce Petric, credevano tutti e due nell’autenticità ontologica dell’immagine cinematografica; Shub parlava di “materiale autentico”, Vertov di Kinopravda (“Cineverità”) che solo il cine-occhio della macchina da presa poteva mostrare, ma il punto era sempre lo stesso. Il fattualismo di Vertov si era evoluto nel concetto di “vita colta sul fatto”, ovvero catturare la vita così com’è, senza che i soggetti ripresi se ne accorgano. L’ideale, per lui, era un cinema che non aveva bisogno di intertitoli e che viveva di frammenti di realtà assemblati con un montaggio rapido. Shub si distaccava da questo tipo di editing, preferendo un’etichettatura dei fatti più immediata e forse meno libera (attraverso il mantenimento degli intertitoli) e scegliendo una durata maggiore per le inquadrature, per far sì che i fatti potessero essere studiati con calma dallo spettatore. Secondo Shub e altri, Vertov interveniva in modo sbagliato ed eccessivo sul materiale, era troppo concentrato sul ritmo e sulla forma.64 Shub si opponeva alla visione limitata del collega, che accettava, in sostanza, una sola tipologia di film (i suoi, fatti secondo le sue regole). In un articolo del 1926, criticò il monopolio di Vertov e dei suoi cine-occhi nel settore non-fiction. Riteneva che «diversi fatti» dovessero «raggiungere lo studio cinematografico».65 Ciascun cineasta, secondo Shub, doveva essere libero di montare i cinegiornali e di realizzare documentari scientifici e culturali di vario tipo, al di là delle convinzioni di Vertov.66 Un’altra differenza fondamentale tra i due registi d’avanguardia era nell’uso della sceneggiatura: Shub non gradiva il dogmatismo di Vertov, il quale ripudiava in toto la possibilità di appoggiarsi ad uno script, ed era solita abbozzare una sceneggiatura di base per organizzare al meglio il lavoro.
Nonostante dal punto di vista ideologico condividesse forse molto di più con Vertov, Shub fu collega e ammiratrice in egual misura di Ejzenštejn, un regista che si muoveva su un territorio totalmente diverso dal suo, ovvero il cinema recitato. I due erano amici stretti e intrattenevano spesso interessanti conversazioni sulle tecniche di montaggio (alcune di esse sono ricordate nelle memorie di Shub). Nel 1927, quando Ejzenštejn stava lavorando su Ottobre [Oktjabr’, Sergej Ejzenštejn, 1928] a Leningrado, Shub alloggiava nel suo stesso hotel. Trascorsero quindi molto tempo insieme, discutendo della struttura di specifiche sequenze da inserire nel film. Shub assisteva personalmente alle riprese, che avevano luogo nel Palazzo d’Inverno.67 Se Ejzenštejn arricchì molto la formazione professionale di Shub, è vero anche il contrario. Il regista, infatti, oltre a ricevere da lei consulenza per Ottobre, era solito assisterla durante la visione e la selezione dei pezzi di cinegiornali usati in La caduta della Dinastia Romanov. Lei stessa scrisse, più tardi, di essere certa del fatto che la rivolta di luglio presente nel film fosse stata ricostruita da Ejzenštejn direttamente tramite ciò che lui aveva osservato durante le loro sedute di visione.68
Nonostante la collaborazione, all’uscita di Ottobre Shub non approvò l’operato del collega, perché riteneva inefficacie che il film si basasse del tutto sulla ricostruzione di eventi storici (d’altra parte, ciò che affascinava Ejzenštejn era la struttura del film, non la rappresentazione della realtà nel senso inteso da Shub).69 La cosa più inconcepibile per Shub era che fosse stato assunto un attore per impersonare Lenin. A tal proposito, si espresse in un breve articolo oggi diffuso sotto il titolo We Do Not Deny the Element of Mastery.70 Qui sottolineava che, se si voleva fare un film su Lenin, non era rilevante se egli recitasse bene o male di fronte alla macchina da presa, se quello fosse un momento davvero spontaneo o una messa in scena, l’importante era che il soggetto fosse Lenin in persona. La sua idea era che un film non recitato, che aveva protagonisti reali, potesse sopravvivere nel tempo e preservare il passato; al contrario, il cinema narrativo non aveva speranze: in pochi anni, sarebbe diventato obsoleto e «indigesto».71 Nel 1928, in un altro articolo (tradotto col titolo This Work Cries Out), Shub rimarcò le sue parole asserendo che «non si deve ricostruire un fatto storico, perché la ricostruzione distorce il fatto» e che «non si deve sostituire a Vladimir Ilynich [Lenin] un attore con il volto che somiglia a Vladimir Ilynich».72 Nondimeno, rinnovò anche questo scritto la sua stima per Ejzenštejn, definendolo talentuoso e mostrando apprezzamento per le soluzioni formali da lui adottate. Lo invitava, però, a lavorare con i cinegiornali, con i fatti e con persone reali.73
Un frame di Ottobre, che mostra Vasilii Nikandrov nei panni di Lenin
È curioso notare come sia Vertov sia Ejzenštejn siano stati criticati sulle pagine di Novyi Lef per i rispettivi progetti realizzati in occasione dell’anniversario della Rivoluzione, mentre Shub fu elogiata. Per le celebrazioni, infatti, Vertov girò L’undicesimo [Odinnadcatyj, Dziga Vertov, 1928], Ejzenštejn il succitato Ottobre e Shub, com’è ormai noto, La caduta della dinastia Romanov. Osip Brik e i suoi colleghi, che erano soliti confrontarsi ed esprimere con forza le proprie opinioni sulla rivista d’arte Novyi Lef, non mancarono di discutere sul modo migliore per commemorare un evento storico come la Rivoluzione e per mostrare la nuova realtà sovietica.
Per quanto riguardava L’undicesimo, Brik apprezzava le riprese di Vertov, ma si lamentava della disomogeneità del film nel suo complesso. Il risultato, secondo lui, finiva con l’essere poco comprensibile dal pubblico. Brik individuava la causa del problema nella mancanza di una linea tematica sulla quale basare tutto il film (in sostanza, serviva una sceneggiatura).74
Per quanto riguarda Ottobre, le critiche furono più sofisticate e vanno contestualizzate. Ejzenštejn era stato considerato fino a poco tempo prima un vero e proprio genio, la cui originalità veniva riconosciuta e apprezzata, ma alla fine degli anni ‘20 sull’Unione Sovietica soffiava ormai il vento dello stalinismo e della Rivoluzione Culturale. Ora l’artista doveva rispondere a nuove esigenze. In questo caso, doveva adempiere al compito di mostrare la Rivoluzione e la grandezza dell’URSS seguendo la linea stalinista. All’unicità di Ejzenštejn era dunque preferibile l’impersonalità dei lavori di Shub. I critici di Novyi Lef erano entusiasti di La caduta della dinastia Romanov, perché esso, essendo frutto dell’assemblaggio di più filmati d’archivio, dava allo spettatore accesso diretto agli eventi storici e alla “verità della Rivoluzione”. Il pubblico, così, non correva il rischio di essere distratto dalla bellezza visiva delle inquadrature o dall’artisticità del montaggio.75 Inoltre, la figura di Shub era la perfetta alternativa a Ejzenštejn perché rigettava il concetto romantico di artista come genio solitario, abbracciando gli ideali del socialismo: Shub elogiava a parole il cameratismo dei lavoratori nell’industria cinematografica76 e lo metteva in pratica sul lavoro, ad esempio tramite la costruzione del suo archivio cinematografico, consultabile da tutti i cineasti russi. Per questi motivi, la critica dell’epoca considerava Shub un modello da seguire e una vera rivoluzionaria.77
NOTE
1. Sessismo e antisemitismo hanno contribuito a far cadere nel dimenticatoio l’opera di Esfir Shub, i cui film sono proiettati assai raramente. Il tipo di realismo evocato dai suoi lavori, inoltre, non era asservito alla propaganda più spietata ma era difficile da ricondurre ad uno stile personale. Per una breve riflessione su quanto e perché Shub sia stata dimenticata cfr A. Osipova, Difficult Facts. Esfir Shub and the problem of realism, in «The Brooklyn Rail», 5 settembre 2011, https://brooklynrail.org/2011/09/film/difficult-factsesfir-shub-and-the-problem-of-realism
2. V. Petric, Esther Shub: film as a historical discourse in Thomas Waugh (a cura di), Show Us Life: Toward a History and Aesthetics of the Committed Documentary, Scarecrow press, Metuchen (N.J.), 1984, pp. 21-22
3. Fu il padre di Esfir a convincere il direttore dell’Istituto affinché la figlia potesse frequentare la scuola, poiché gli ebrei che vivevano nell’Impero zarista erano fortemente discriminati a San Pietroburgo e a Mosca e addirittura perseguitati nelle campagne. Cfr J. Murray-Brown, https://jwa.org/encyclopedia/article/shub-esfir
4. D. Dogo, Esfir Shub, in Jane Gaines, Radha Vatsal, Monica Dall’Asta (a cura di), Women Film Pioneers Project, Columbia University Libraries, New York, 2013, p. 1
5. V. Petric, Op. cit., p. 22
6. Esfir Shub, The First Work, in Liubov Dyshlyuk, Anastasia Kostina (a cura di), Esfir Shub. Selected Writings, Feminist Media Histories, Vol. 2, 1 luglio 2016, p. 19
7. Ivi, pp. 25-26
8. L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 13
9. D. Dogo, The Image of a Revolutionist: Vera Figner in The Fall of the Romanov Dynasty, in Monica Dall’Asta, Victoria Duckett, Lucia Tralli (a cura di), Researching Women in Silent Cinema. New Findings and Perspectives, Dipartimento delle Arti – DAR, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Bologna, 2013, p. 83
10. Idem.
11. Ivi., p. 85
12. Esfir Shub, From my experience, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 18
13. V. Petric, Op. cit., p. 25
14. D. Dogo, Esfir Shub, Op. cit., p. 2
15. Esfir Shub, And again the newsreel, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 22
16. V. Petric, Op. cit., p. 35.
17. J. Murray-Brown, Op. cit.
18. L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 16
19. Esfir Shub, Esfir Shub: The Advent of Sound Cinema, in Richard Taylor, Ian Christie (a cura di), The film factory: Russian and Soviet cinema in documents, 1896-1939, Routledge, Londra, 1994, p. 271
20. Cit. in V. Petric, Op. cit., p. 34
21. Natalie Ryabchikova, Speaking in the Voice of the Workers: Komsomol: Leader of Electrification (Esfir Shub, 1932), in «Senses of Cinema», dicembre 2017, https://www.sensesofcinema.com/2017/soviet-cinema/komsomol-leader-of-electrification/
22. R. Graham, Forward Soviet! History and Non-Fiction Film in the USSR, I.B. Tauris, Londra, 1999, p. 123
23. D. Dogo, Esfir Shub, Op. cit., p. 3
24. Esther Leslie, Strawberries and Cream: On Esfir Shub and the Revolutionary Object, in «Historical Materialism», Vol. 27, N. 3, 24 ottobre 2019, pp. 18-19
25. D. Dogo, Esfir Shub, Op. cit., p. 3
26. L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 16
27. R. Graham, Op. cit., pp. 136-137
28. D. Dogo, Esfir Shub, Op. cit., p. 3
29. Ivi., p. 137
30. D. Dogo, Esfir Shub, Op. cit., p. 3
31. Idem.
32. Cfr J. Murray-Brown, Op. cit.
33. Idem.
34. E. Leslie, Op. cit., p. 11
35. Esfir Shub, The First Work, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 19
36. Idem.
37. Martin Stollery, Eisenstein, Shub and the Gender of the Author as Producer, in «Film History», Vol. 14, 2002, pp. 93-94
38. Esfir Shub, The First Work, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 20
39. Esfir Shub, From my experience, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 19
40. Cit. in V. Petric, Op. cit., p. 32
41. Idem.
42. Esfir Shub, And again the newsreel, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 21
43. V. Petric, Op. cit., p. 30. Nella seconda metà degli anni ’20, in Unione Sovietica prese piede il movimento fattografico. Nacque sulle pagine della rivista culturale Novyi Lef; tra i suoi leader principali c’era Sergej Tret’jakov. L’esistenza di un simile gruppo, che voleva che la realtà di ogni giorno venisse rappresentata dalle varie arti attraverso i fatti, da raccogliere, catalogare ordinatamente e in seguito esporre secondo gli ideali bolscevichi della rivoluzione e del collettivismo, è significativa perché dimostra l’estremo interesse che si sviluppò attorno al fattualismo. In particolare, l’idea di Tret’jakov era quella di inviare a caccia di fatti un gruppo di dilettanti, perché, a causa dell’inesperienza, avrebbero prodotto documenti più oggettivi e senza distorsioni. In ogni caso, in un secondo momento gli archivisti si sarebbero occupati di ripulire i documenti, restituendo loro l’autenticità e aumentando la probabilità che essi fossero compresi dalla maggioranza del pubblico, il quale si sarebbe sentito ispirato ad agire in nome della rivoluzione. Il movimento fattografico ammirava il lavoro compiuto da Shub con i film di compilazione. Per approfondire, cfr Joshua Malitsky, Post-Revolution Nonfiction Film: Building the Soviet and the Cuban Nations, Indiana University Press, Bloomington (USA), 2013, pp. 155-188
44. Per un approfondimento sul tema, cfr André Bazin, Ontologia dell’immagine cinematografica, in André Bazin, Adriano Aprà (a cura di), Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 2018, pp. 3- 10
45. V. Petric, Op. cit., p. 30
46. Ivi., pp. 30-31
47. E. Leslie, Op. cit., p. 14
48. Idem.
49. L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), Op. cit., p. 15
50. V. Petric, Op. cit., p. 33
51. Cit. in V. Petric, Op. cit., p. 33
52. Esfir Shub, And again the newsreel, in L. Dyshlyuk, A. Kostina (a cura di), op. cit., p. 22
53. Cit. in Lilya Kaganovsky, Film Editing as Women’s Work: Ėsfir’ Shub, Elizaveta Svilova, and the Culture of Soviet Montage, in «Women at the Editing Table: Revising Soviet Film History of the 1920s and 1930s» (speciale di «Apparatus. Film, Media and Digital Cultures in Central and Eastern Europe»), fasc. 6, 2018
54. Alla Gadassik, Ėsfir’ Shub on Women in the Editing Room: ‘The Work of Montazhnitsy’ (1927), in «Women at the Editing Table: Revising Soviet Film History of the 1920s and 1930s» (speciale di «Apparatus. Film, Media and Digital Cultures in Central and Eastern Europe»), fasc. 6, 2018
55. Idem.
56. Idem.
57. È vero anche che Shub stava sperimentando un nuovo genere cinematografico, quello del film di compilazione, perciò qua la questione di genere si somma alla diffidenza nei confronti della novità. Ridurre il tutto al fatto che Shub fosse donna sarebbe sbagliato, ma lo sarebbe ancora di più non presentare i fatti nella loro interezza.
58. M. Stollery, Op. cit., p. 96
59. L. Kaganovsky, Op. cit.
60. M. Stollery, Op. cit., p. 96
61. V. Petric, Op. cit., pp. 27-28
62. Idem
63. Ivi., p. 30
64. E. Leslie, Op. cit., p. 14
65. Esfir Shub, Esfir Shub: The Manufacture of Facts, in Richard Taylor, Ian Christie (a cura di), The film factory: Russian and Soviet cinema in documents, 1896-1939, Routledge, Londra, 1994, p. 152
66. Idem.
67. V. Petric, Op. cit., p. 28
68. Ivi., p. 29
69. E. Leslie, Op. cit., p. 15
70. Esfir Shub, We do not deny the element of mastery, in Richard Taylor, Ian Christie (a cura di), The film factory: Russian and Soviet cinema in documents, 1896-1939, Routledge, Londra, 1994, pp. 185-186
71. Idem.
72. Esfir Shub, This Work Cries Out, in Richard Taylor, Ian Christie (a cura di), The film factory: Russian and Soviet cinema in documents, 1896-1939, Routledge, Londra, 1994, p. 217
73. Idem.
74. R. Graham, Op. cit., pp. 78-79
75. Martin Stollery, Op. cit., pp. 91-95
76. Ad esempio, non mancò di lodare il senso di cameratismo che percepiva così vivo tra le donne addette al montaggio. Cfr A. Gadassik, Op. cit.
77. Martin Stollery, Op. cit., p. 94