Le riflessioni suscitate dall’ultimo film di Christopher Nolan Oppenheimer, biopic dedicato all’omonimo fisico americano a capo del Progetto Manhattan che attese alla costruzione della prima bomba atomica (e anche l’unica finora usata nella storia dell’umanità), non potevano che – quando non concentrate su aspetti formali dell’opera – indugiare sulla questione del rapporto tra scienza e potere, tra scienza e etica e, a monte, tra scienza e tecnica. In fondo la vicenda raccontata, in purezza, anche senza i vezzi stilistici del regista, si presta automaticamente. Tuttavia mi pare che la questione abbia duplice natura: da un lato è semplice da dipanare, dall’altro è stata affrontata in un modo altrettanto semplice ma improprio. La domanda da porsi è quale idea di scienza emerga dal film e se c’è distinzione tra le concezioni epistemologiche (che coinvolgono anche il rapporto tra sapere scientifico e società) espresse dall’opera e dall’autore e quelle del personaggio principale, figura quantomai ambigua e dimidiata, tanto nella realtà narrativa che nel mondo da cui essa attinge.
J. Robert Oppenheimer, nell’interpretazione mimetica di Cillian Murphy, è prima di tutto un americano, vale a dire un corpo estraneo nella “nuova” fisica del primo Novecento, ostaggio del Vecchio Continente e divampata nelle università tedesche, austriache, inglesi e in minor misura francesi; ma è anche corpo affine, dal momento che è ebreo come gran parte delle menti migliori del campo in quegli anni, e che è più a suo agio con la teoria che con la “pratica”, risultando impacciato durante le lezioni nel laboratorio di Cambridge, ma brillante nel conversare, fin da studente, con un mostro sacro come Niels Bohr. Tuttavia l’America gli resta addosso: una melanconia profonda lo invade durante tutti i suoi soggiorni europei, per quanto si sforzi di integrarsi (addirittura, in Olanda, tenendo seminari nella lingua autoctona), dovuta alla nostalgia per le praterie del New Mexico. Ma non solo: il brillante fisico ha attacchi quasi paranoidi, specie notturni, in cui vede le stelle esplodere (fenomeno del quale si occuperà professionalmente), l’universo dilatarsi e la terra andare a fuoco. Le visioni di morte e distruzione, secondo Nolan, lo accompagnano da ben prima del suo contributo alla dissoluzione del mondo, quando ancora si occupava di chimica quantistica e formalizzava l’approssimazione adiabatica. E cosa c’è di più americano della paranoia? Non c’è bisogno di scomodare Foster Wallace o studi illustri come Suspicious Mind. Why we believe conspiracy theories di Rob Brotherton, per rilevare che l’immaginazione paranoide è il linguaggio prediletto dalla cultura americana (alta o bassa) degli ultimi decenni o anche prima.
Se la melanconia si attenua quando Oppenheimer torna in patria, dove conduce l’avanzata della nuova fisica, la paranoia resta e le visioni pure: immagini creatrici e distruttrici, capaci di ispirare il suo lavoro ma anche di angosciarlo. E nel frattempo l’ansia si concretizza nello sfacelo del mondo che ha appena lasciato, soccombente sotto il tacco nazista, la sua gente deportata e bruciata nei forni. E così, quando da quel mondo in rovina giunge la notizia della scissione dell’atomo, avvenuta bombardando di neutroni il nucleo, a Oppenheimer e colleghi sorge l’idea-principe della paranoia, giustificata, del tempo: costruire una bomba prima che lo facciano i tedeschi, per paura che un tale potere distruttore finisca nelle mani sbagliate. Da quel momento lo scienziato, scelto a capo del progetto top secret, correrà senza tregua verso l’obiettivo prefissato, continuando ad opporre ai dubbiosi l’ansia della fretta: “se non lo facciamo noi, lo faranno i nazisti”.
La paranoia americana è all’origine della bomba. Ma è anche all’origine della fine del suo creatore. Non solo perché egli mai più si riprenderà dalla colpa di Hiroshima e Nagasaki, ma anche perché il resto del film è incentrato sul vero e proprio processo (ma senza le tutele legali del caso) intentato a Oppenheimer da una commissione di inchiesta per le attività anti-americane, stile maccartismo, nata cavalcando la paranoia anti-comunista e le manie di persecuzione tipiche di un governo col quale – se si è illustri – non si può essere in disaccordo, pena il rimestare tra gli scheletri nell’armadio: così le posizioni avverse alla costruzione della bomba H sostenute con forza pubblicamente da Oppenheimer gli costeranno il nulla osta per la sicurezza (cioè la possibilità di accedere ai segreti militari del paese) e la credibilità presso le istituzioni, usate come grimaldello le sue amicizie comuniste giovanili. Ma un’altra paranoia più meschina e, in fondo, ridicola è alla base della caduta di Oppenheimer: quella di Lewis Strauss (Robert Downey Jr), ex-presidente della EAC, vera mente dietro la commissione d’inchiesta, le cui motivazioni sono dettate dalla convinzione che il fisico gli abbia messo contro l’intera comunità degli scienziati, avendolo ridicolizzato in pubblico. Strauss è convinto che Oppenheimer gli abbia inimicato soprattutto Einstein, fraintendendo uno sguardo del grande fisico tedesco in realtà non rivolto a lui; è quindi un uomo narcisista e paranoico e imbastisce un apparato inquisitorio sul nulla, vittima delle proprie manie di persecuzione. Il motivo per cui Oppenheimer subisce in silenzio le umiliazioni, incompreso dalla moglie Kitty (Emily Blunt), ha le sue radici nel pensiero paranoico: così come le sue manie hanno fatto esplodere la bomba, è giusto che le sue colpe – sotto forma di manie simili altrui – gli si ritorcano contro: un percorso di espiazione in realtà illusorio, perché il danno fatto è incancellabile, come la frase finale dolorosamente rivela.
La paranoia è però solo una delle due forze motrici della carriera di Oppenheimer, così come rappresentata nel film. L’altra è un’idea di scienza, alquanto esplicita, che solo in parte coincide con quella autenticamente professata (anche se tra le righe) negli scritti meno tecnici del fisico: 1 una specie di volontà di riscatto dalle sue incapacità “pratiche”.
Dopo averlo scoperto inadeguato a eseguire semplici esperimenti di laboratorio vediamo Oppenheimer diventare un importante teorico, lo vediamo lavorare con Max Born e incontrare Heisenberg, per poi, tornato in America, confrontarsi con i colleghi sperimentali sui risultati raggiunti in fisica nucleare: la frase più spesso ripetutagli, e poi da lui stesso assimilata, è “la teoria arriva fino a un certo punto”: come a dire che le ipotesi, le astrazioni, la semplice matematica (viene descritto, alla pari di Einstein, non a suo agio con essa 2) non possono nulla di fronte ai risultati concreti. In più di una scena la pratica “supera” la teoria e addirittura al momento della scoperta della fissione Oppenheimer dimostra alla lavagna che una cosa avvenuta nella realtà è impossibile in teoria, suscitando l’ilarità dei colleghi. La sua ricerca della verità diventa sempre meno “teorica” e lo porta a diventare l’amministratore di un progetto che più concreto non si può (venendo anche accusato da Rabi di “non essere più uno scienziato”). L’idea della scienza che ne emerge è simile a quella suggerita anche dalla figura di Nikola Tesla in The Prestige [id., 2006], un ingegnere più che uno scienziato, poco avvezzo alle dimostrazioni matematiche e alle teorizzazioni e proprio per questo, nella visione di Nolan, autenticamente geniale, pronto a realizzare davvero la rivoluzione della modernità, il progresso, evitando di cianciare con i numeri. Nolan, grande tecnico con una propensione poco “teorica” (quando ci prova deve ricorrere ai famigerati spiegoni: i deliri di Inception [id., 2010] o la “quarta dimensione dell’amore” di Interstellar [id., 2014]), fornisce un’idea quasi pauperista della conoscenza scientifica: un’idea in cui alle astrazioni vaghe e fumose si sostituisce la capacità tecnica, la vocazione ingegneristica. E trova forse lo scienziato giusto per apparecchiare questa visione: Oppenheimer fu davvero interessato a capire l’impiego della scienza (o della tecnica) per migliorare la società e gran parte dei suoi scritti epistemologici manifesta tale preoccupazione, risultando essere lavori anche e soprattutto di politologia se non di sociologia.
Chiunque sa cosa sia una teoria in ambito scientifico sa bene quanto questa concezione sia erronea: nulla è più concreto di una teoria; le teorie sono oggetti formali (o linguistici) con capacità predittiva, che spiegano fenomeni e li interpretano, le cui conclusioni derivano dalle premesse. E non c’è modo di osservare un fenomeno o comprenderlo senza il filtro dell’apparato teorico. Nel senso comune la teoria è distante dalla realtà, nella riflessione scientifica la teoria è un oggetto della realtà, l’oggetto principale senza il quale di realtà non si può proprio discorrere. 3
L’Oppenheimer del film sembra vedere la scienza come uno strumento, sembra ridurre le verità e i concetti scientifici alla capacità o meno di “operarci”: la sua filosofia assomiglia all’operazionalismo di Bridgman, 4 una posizione epistemologica che vede i concetti come operazioni nel senso etimologico della parola, nozioni operative utili per eseguire dei compiti. E difatti lui stesso in quanto scienziato diventa uno strumento del potere politico: una volta eseguito il suo compito la bomba passa nelle mani di chi prende davvero le decisioni e lui e i suoi colleghi ne sono estromessi. Per questo continuerà a ripetere che nessuno di loro aveva capacità decisionale sufficiente per evitare la tragedia, sono tutti solo utensili. Ma questa magra consolazione non basta per pulirgli la coscienza.
In fondo in Oppenheimer non c’è pensiero scientifico e razionale, quanto pensiero paranoico, così come non c’è davvero una riflessione su etica e scienza perché la scienza è misinterpretata come strumento, c’è poco rispetto per la dimensione teorica, e le perplessità morali sono più affidate all’uomo che al “sapiente”, un uomo che infatti è poco più di un capo-ingegnere, un amministratore, il quale non può che sentire anche e soprattutto il peso politico delle sue scelte. Ecco perché è dedicato molto più spazio alle visioni apocalittiche di quanto ne venga offerto alle riflessioni teoriche (come invece tentava di fare Interstellar).
L’ingenuità della concezione nolaniana in merito al rapporto tra teoria e prassi non tiene conto di risultati come la tesi di Duhem-Quine, ma anche posizioni più “popolari” come quelle del primo Popper, tutte questioni di cui i fisici e i filosofi del tempo erano più che consapevoli. In breve quella che in filosofia della scienza è chiamata la dipendenza del linguaggio osservativo dalla teoria: l’impossibilità di guardare ai fatti del mondo scevri da apparati concettuali e teorici già ben definiti. Come ebbe a dire Duhem “tutta l’osservazione in fisica è carica di teoria”. E difatti si è soliti parlare non di fatti/osservazioni e di teorie quanto di gerarchia dei linguaggi, alla base della quale c’è il linguaggio osservativo e in cima costruzioni deduttive più elaborate (con tutte le sfumature dei casi). L’idolatria per la prassi come sede della verità è ben lontana, e lo è ancor più al tempo dei Quanti.
Il vedere la “possibilità teorica” come qualcosa di non-concreto è un’ulteriore ingenuità dovuta a una concezione di senso comune, quel senso comune che la Meccanica Quantistica aveva contribuito a distruggere, innanzitutto nelle menti dei suoi primi fautori. È tuttavia plausibile che all’atto pratico queste stesse concezioni venissero naturalmente accantonate di fronte a problemi ingegneristici da affrontare: la visione di Nolan è quindi pragmatica più che “fattualistico-empirica”. 5 Il rischio che passi un messaggio anti-teorico e poco incline a guardare alla profondità del pensiero logico-scientifico c’è (il secondo grande rischio della “scienza al cinema” dopo quello della semplificazione eccessiva); ma dal punto di vista dell’economia narrativa può essere funzionale a mettere in scena un gruppo di geni usato come strumento dal potere militare.
Nei lavori politico-epistemologici del fisico c’è però altro oltre a una scissione teoretica riflesso di una scissione interiore.
In uno scritto del 1953 dal titolo La scienza come azione: il mondo di Rutherford, 6 Oppenheimer ricostruisce la storia degli esperimenti con la particella alfa, un importante “strumento di esperienza” per poter “penetrare nel mondo atomico”, mettendo in risalto l’importanza di alcuni nuovi apparati tecnici per le scoperte eseguite, ma anche l’eziologia dei concetti impiegati per comprendere ciò che veniva osservato. Afferma: “È troppo semplicistico dire che le tecnologie basate sui fenomeni naturali scoperti di recente siano considerate assolutamente sicure e perfettamente conosciute; ma, in sostanza, questa è la verità. Sono già parte dello sperimentatore, come un buon utensile è parte dell’artigiano; come la matita nella mano dello scrittore cessa di essere una cosa a sé stante e diventa parte integrante dello scrittore; o come un cavallo, quando è cavalcato da un buon cavaliere, diventa un animale […] e si concepisce solo come una parte integrante dell’entità ‘cavaliere’. Allo stesso modo, ciò che si è imparato e inventato nella scienza diventa una parte dello scienziato, una nuova forma di percezione, una nuova possibilità di azione” (p. 132, corsivo mio). Pur non essendo particolarmente propenso a guardare alle teorie come avrebbe fatto un neopositivista, come apparati formali “concreti”, il fisico americano si mostra ben consapevole delle inestricabili interrelazioni tra teoria e esperimento, e anzi guarda agli strumenti del ricercatore come un allargamento della propria percezione in accordo con l’evoluzione concettuale, e ricostruisce un episodio storico senza catechizzare quella dicotomia à la Tesla così innestata nel cinema di Nolan. L’epistemologia dell’azione è quindi cosa diversa dall’appiattimento della scienza sulla tecnica che rappresenta il regista inglese, in parte per convinzione “autoriale”, in parte stavolta per necessità storica. E possiamo così apprezzare come sempre l’importanza del corsivo: l’epistemologia di Oppenheimer non è l’epistemologia di Oppenheimer.
NOTE
1. Mi riferisco in particolare a quelli raccolti nel celebre J. Robert Oppenheimer, Scienza e pensiero comune (che riunisce The Open Mind e Science and Common Understanding, rispettivamente 1954 e 1955; trad. it. di L. Bianchi e L. Terzi, Bollati Boringhieri 1965). In questo sono contenute varie riflessioni connesse all’impiego dell’energia atomica per scopi militari, del quale segnalo in particolare la conferenza del 1947 L’energia atomica come problema contemporaneo, in particolare le pp. 26-27 per la loro affinità con le analisi politiche accennate dal personaggio di Murphy nelle scene davanti alla commissione.
2. Solito mostruoso cliché anti-storico sul quale è poco proficuo soffermarsi.
3. Riassumo e semplifico un campo di studi molto complesso e variegato. Rimando, in italiano, a un compendio esaustivo sulla definizione di “teoria” come M. Giunti, G. Sergioli, A. Ledda, I modelli nelle teorie scientifiche (Carocci, 2016). Tra i molti studi (Patrick Suppes su tutti) dedicati nello specifico alla nozione di “teoria fisica” vorrei citare l’esempio storico, per quanto datato, più rigoroso prodotto in Italia: M. L. Dalla Chiara, G. Toraldo di Francia, Le teorie fisiche. Un’analisi formale (Boringhieri, 1981).
4. Principalmente espressa in P. W. Bridgman, La logica della fisica moderna (Boringhieri, 1997; trad. it. di The logic of modern physics, Macmillan 1927). Per una infarinatura breve ma formalmente precisa si veda J. Losee, A Historical Introduction to the Philosophy of Science, Oxford University Press 1993, cap. 12 par. 1-2.
5.Viene in mente un aneddoto su Robbe-Grillet: una volta sopravvisse a un naufragio e al giornalista che lo intervistò in proposito raccontò cosa fosse successo utilizzando uno stile narrativo lineare, “tradizionale”, ben lontano dallo sperimentalismo dei suoi romanzi, e ci fu chi ironizzò notando che lo scrittore francese quando doveva davvero raccontare qualcosa impiegava le stesse tecniche della narrativa classica rifiutata. Su queste ironie ironizzò a sua volta Umberto Eco, sottolineandone l’inconsistenza con un’analogia, in Opera aperta (Bompiani, 1962): sarebbe come chiedere a Riemann, tornando a casa, di percorrere uno spazio non euclideo.
6. In J. R. Oppenheimer 1965, op. cit. pp. 129 e sgg.