Enter the Void [id., 2009] rappresenta una vera e propria sfida lanciata dal regista Gaspar Noé nei confronti del cinema del nuovo millennio. Un eccentrico e costoso esperimento filmico dove l’autore di Irréversible [id., 2002], incurante del rischio che tale operazione può comportare, realizza quello che è, a tutti gli effetti, un «kolossal sperimentale». Un film eccessivo, visionario, formalmente vistoso – come lo sono, in fondo, anche le altre opere di Noé. Un’esperienza visiva e uditiva unica: letteralmente «immersiva» per lo spettatore, bombardato per più di due ore da luci al neon, riprese aeree e soluzioni visive tanto originali quanto estreme. Ma bisogna fare attenzione. Sarebbe infatti un errore ridurre la «visionarietà» di un’opera come Enter the Void limitandosi a descrivere la vena psichedelica che lo contraddistingue. Noé piuttosto, con il suo penultimo lungometraggio, ha dimostrato di essere un regista davvero visionario – e qui, più che in ogni altro suo film – perché ha tentato di percorre strade espressive, se non davvero inedite, comunque poco battute. Dar forma all’irrappresentabile attraverso un’opera che trascenda i più classici sistemi di fruizione cinematografica. Il “gesto” noéniano dunque, con tutte le riserve del caso, non è molto distante da quello del grande Francis Ford Coppola. Con Enter the Void, infatti, Noé ha realizzato il proprio personale Sogno lungo un giorno [One from the Heart, 1982], un film “bigger than screen” in cui riversare tutto il suo amore per la settima arte – e non il disprezzo per il pubblico, come molti hanno detto.1 Celebrare il cinema, e al tempo stesso tentare di spingere fino al limite la sua capacità espressiva. O, come specificheremo tra poco, immersiva.
Enter the Void è una sorta di burrascoso e tormentato mélo contemporaneo. «A psychedelic melodrama»2, come lo definisce lo stesso Noé. Una storia d’amore fraterno tra Oscar e Linda in una Tokyo postmoderna tutta luci al neon e insegne luminose. I due, benché fratello e sorella, sono uniti da un profondo amore che trascende il semplice legame di sangue. Il pericoloso lavoro di Oscar – fa lo spacciatore – lo porta, però, presto alla morte. La sua anima inizia così a vagare per la città, osservando dall’alto gli accadimenti successivi (ma anche precedenti!) alla propria morte, per poi reincarnarsi, infine, nel figlio di Linda. Enter The Void prende molto liberamente spunto dal Libro tibetano dei morti – il cosiddetto Bardo Thodol, l’ultimo libro che legge Oscar prima di morire – secondo cui l’anima di chi non è ancora pronto per lasciare il mondo inizia a vagare, tra passato e futuro, alla ricerca di un nuovo corpo da abitare.
Il trapasso di Oscar corrisponde, come vedremo, al passaggio dalla visione soggettiva alla visione astrale.
Come scrive giustamente Matteo Marelli, si tratta di «un cinema post-oculare, che infrange il rapporto di contiguità ontologica con il reale […] l’impiego di neon, di colori acrilici […] fanno di Enter the Void un mondo totalmente artificiale.»3 Con la collaborazione del fedele Benoît Debie, infatti, Noé mette a punto una fotografia figurale4 che bene traduce il senso di finzionalità dell’opera – nonché fungere da ideale corrispettivo dell’allucinato mondo “soggettivizzato” di Oscar. Noé realizza un film metalinguistico che distorce e sforza continuamente l’immagine filmica fino al limite, costringendo lo spettatore ad un vero e proprio tour de force scopico. Un viaggio estremo che si chiude, nichilisticamente, con la parola “Void”, le cui lettere cubitali riempiono lo schermo. Un monito, forse, per dirci che questo viaggio – il cerchio della vita, che ricomincia, come in 2001: Odissea nello spazio [2001: A Space Odissey, Stanley Kubrick, 1968], con un neonato – sia solo un eterno ruotare intorno al nulla.
Che il desiderio di Noé fosse quello di immergere lo spettatore di Enter the Void nel proprio film è lampante fin dal titolo. Quell’Enter, ovvero “entrare”, è infatti un termine-chiave per ragionare sul capolavoro del cineasta franco-argentino. Un verbo che può rinviare a campi semantici differenti, e che possono spaziare dalla filosofia heideggeriana sull’esistenza – entrare, come essere gettati nel mondo: il celebre concetto di In-der-Welt-sein -, fino alle nuove frontiere della sensorialità interattiva – entrare nel virtuale, magari premendo il tasto Enter della tastiera. Gaspar Noé, con Enter The Void, fa sua la pluralità concettuale del termine, e costruisce un film-saggio iperbolico, in cui dipanare molteplici piani di discorso, relativi a tematiche quali lo sguardo, lo spettatore e il cinema, utilizzando come fil rouge proprio il concetto di “entrare” – sia esso varcare, oltrepassare, penetrare.
La prima immagine di Enter the Void: siamo entrati nel film e nella testa di Oscar.
Il principale escamotage utilizzato da Noé per “gettare” lo spettatore di Enter the Void nel proprio film è quello di utilizzare, in maniera diffusa, varie modalità di soggettive e semi-soggettive. Fu un noir degli anni Quaranta, Una donna nel lago [A Lady in the Lake, Robert Montgomery, 1947], a fargli da ispirazione. Dichiara, infatti, il regista di Carne [id., 1991]: «Quando avevo 23 anni, ho visto Una donna nel lago di Robert Montgomery. È un film interamente girato in soggettiva del personaggio principale: sotto l’effetto della psilocibina sono stato trasportato dentro [corsivo del redattore] la televisione e nella testa di Marlowe, anche se il film era in bianco e nero e sottotitolato. Ho pensato che l’espediente di filmare attraverso gli occhi del protagonista fosse una tecnica cinematografica straordinaria, e che il giorno che avessi fatto un film sull’aldilà lo avrei girato in soggettiva, attraverso gli occhi del protagonista.»5 Noé concepisce dunque il proprio film attraverso una serie di modalità narrative, e di ripresa, molto precise. Egli infatti distingue6 vari tipi di “visione” che andranno a caratterizzare la narrazione della propria opera: “visione soggettiva”, “visione soggettiva alterata”, “visione astrale”, “visione mentale dal futuro”, “visione soggettiva intra-uterina”, etc. In realtà, queste possono essere suddivise in tre categorie principali: la soggettiva vera e propria di Oscar (con tanto di “battito di ciglia”: espediente ripreso anche nel più recente Love [id., 2015]); la semi-soggettiva, che pedina il protagonista di spalle; e infine la più originale, la visione aerea o “astrale”, per riprendere la terminologia del regista. Scrive Manohla Dargis proprio a riguardo delle (semi-)soggettive di Enter the Void: «Nei film dei fratelli Dardenne, questa intimità tra noi e il personaggio (e, per esteso, coi registi) è tanto una posizione etica – ti portano vicino agli innocenti e ai peccatori – quanto una strategia narrativa. Enter the Void è diverso, perché è raccontato attraverso il costante punto di vista di Oscar. Questa posizione del soggetto – in cui la macchina da presa, il personaggio e lo spettatore condividono lo stesso sguardo – può essere molto potente, perché consente di vedere attraverso gli occhi di un personaggio […]»7 Non c’è una distanza etica in Enter the Void: Noé vuole farci entrare negli occhi dei suoi personaggi, senza alcun filtro.
La soggettiva.
La semi-soggettiva.
La visione aerea, o “astrale”, dell’anima di Oscar.
Il film utilizza dunque questi e altri spunti narrativi per costruire un ingegnoso apparato teorico e metalinguistico che coinvolga e conduca lo spettatore dentro il film. Affiancandosi così alle teorie postmoderne del cinema come “bagno sensoriale” a 360 gradi8, Noé col procedere dei minuti «immerge» sempre più lo spettatore nell’universo diegetico del film. Gli esasperati plongée e contre–plongée, i virtuosistici carrelli aerei, la steady-cam, oltreché diverse soluzioni digitali vengono impiegati per creare un’atmosfera unica, a cavallo tra l’esperienza onirica e l’alterazione psicofisica provocata da uno stupefacente. Per farlo, Noé forza al massimo la collocazione extra-umana (o post-umana) della macchina da presa – come accade in fondo anche nel documentario Leviathan [id., 2012] di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel – abbandonando ben presto il punto di vista dell’occhio umano. Come scrive Brincken: «Mentre Vertov opta per un montaggio estensivo, Noé sostituisce questo con piani-sequenza manipolati. Tuttavia, anche lui tende a creare una correlazione tra due immagini distanti (incommensurabili dal punto di vista della percezione umana).»9 E ancora: «Questa forma di assoluta immersione, che crea stretta relazione tra i movimenti di camera e i movimenti interni del vedente, fanno di Enter the Void un evento psico-sensoriale che afferma con forza la sua somiglianza con le esperienze quali la fatica, la morte, o l’essere lapidati: un vero e proprio “viaggio di morte”.» 10
Esempi di posizionamento extra-umano della MdP, da “impossibili” plongée aerei fino a interni vaginali.
Ma l’immersività di Enter the Void non coinvolge unicamente l’occhio dello spettatore. Il film vuole proporsi come un’esperienza sensoriale tout court: non limitarsi alla mera stimolazione oculare ma sollecitare l’epidermide del proprio pubblico. «Questo film esiste non esclusivamente per essere visto, ma per essere esperito con l’intero corpo umano.»11 Enter the Void è infatti un film che bene si presta (anche) a una lettura tattile del cinema come dispositivo che coinvolge tutti i sensi dello spettatore. «Ricollegandosi alla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty, Vivian Sobchack ha delineato una teoria filmica che integra comprensione intellettuale e le capacità cognitive con una componente corporea. Il film è sempre espressione di un’esperienza e tale espressione viene a sua volta esperita, così riconvertendosi in esperienza di un’esperienza.»12 E ancora: «Noi assimiliamo i film somaticamente, con tutto il nostro corpo, e ne contaminiamo le immagini prima che l’elaborazione cognitiva dei dati o l’identificazione inconscia ci interpelli a un altro livello.»13 Ecco allora che Enter the Void, con il suo continuo, ossessivo attraversamento non solo di spazi ma anche di corpi – Oscar trapassato da una pallottola; la sua anima che entra nel corpo dell’amico mentre fa sesso con la sorella; il suo stesso reincarnarsi finale – diventa una vera esperienza extra (o intra-)corporea, che pur rifacendosi all’esperienza (fenomenica) dello spettatore, cerca di trascenderla. D’altronde, «la visione della macchina da presa di Noé abbatte efficacemente le distinzioni tra interiorità ed esteriorità».14 Lo spettatore viene dunque catapultato in altri corpi, con una capacità osmotica esclusiva del cinema, e che trova, proprio in Enter the Void, una delle sue espressioni più riuscite.
Il cinema “tattile” di Noé, a stretto contatto coi corpi e fra i corpi.
Ma l’immagine, in Enter The Void, è, in fondo, un’immagine debole. Tutto il prorompente virtuosismo che caratterizza il film non può (o non vuole) nasconderne il proprio statuto debole, tipicamente postmoderno. È un’immagine fantasmatica, quella di Enter the Void, che si scioglie, o che si fonde, confondendosi con la luce stessa. Tutta la sequenza finale al Love Hotel ne è un chiaro esempio. Quei corpi che fanno sesso non sono altro che semplici bagliori di luce che si muovono meccanicamente: fuochi fatui in un mondo finzionale. «Noé dimostra [così] come l’immagine cinematografica altro non è che un’impronta di luce.»15
Corpi che diventano luce al Love Hotel.
Ma è un’immagine debole e postmoderna anche perché, seppur proiettata nel “futuro” (poco sopra avevamo parlato di un regista “visionario”), non può fare a meno di guardare anche al passato. Enter the Void è infatti un film che si rivolge al cinema e alla sua storia – una tendenza che troverà la sua definitiva espressione nel già citato, ultra-citazionista e intertestuale Love. Questo caratterizza ulteriormente lo statuto ontologico dell’immagine noéniana, tesa fra passato e futuro, fra un tentativo di lasciarsi alle spalle il cinema che lo precede e, al contempo, rievocarlo, omaggiarlo. I richiami, in Enter the Void, sono molteplici: dalla psichedelia astratta di 2001: Odissea nello spazio ai virtuosismi del primo Lars von Trier – in particolare L’elemento del crimine [Forbrydelsens element, 1984]; dalla mobilità della macchina da presa di Sam Raimi e Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino [Der himmel uber Berlin, 1987]), alle fascinazioni surreali di Eraserhead – La mente che cancella [Eraserhead, 1977 ] di David Lynch (soprattutto per quanto riguarda il continuo “penetrare” luci accecanti o buchi di ogni tipo, in bilico tra l’onirico e il sessuale).
La macchina da presa che, come nel cinema di Lynch, viene attirata – o, per meglio dire, risucchiata – nella luce.
Eppure, questo grande spettacolo post-cinematografico che è Enter the Void, non può far altro che dissolversi davanti ai nostri occhi, per svelare ciò che nasconde dietro il proprio velo. Quel “Void” con cui si chiude il film assume quindi un ruolo davvero esplicativo. Non solo il monito nichilista di cui parlavamo più sopra. L’immagine di Noé – come quella di Paolo Sorrentino, d’altronde – si nutre di nulla. È pura illusione. Semplici (o complessi: ma poco cambia) giochi di luci e di contrasti, come accade sullo schermo cinematografico illuminato dal fascio di luce del proiettore. Eppure noi non possiamo far altro che entrarci, ancora una volta, in questo vuoto.
NOTE
1. «Uno dei film più stupidi narcisisitici vuoti che mi sia mai capitato di vedere. […]». Bruno Fornara, Visioni, 9 dicembre 2011.
«Un buon sceneggiatore avrebbe impiegato al massimo dieci minuti, Noé va avanti per più di due ore, tra piani sequenza per niente virtuosistici, dove l’ unico obiettivo sembra essere il compiacimento del regista nel raccontare la corruzione e l’immoralità dei suoi protagonisti.» Paolo Mereghetti, «Il Corriere della Sera», 23 maggio 2009.
«Sempre risoluto a scandalizzare noi ingenui borghesi, sempre più certo dell’onnipotenza della cinepresa, il regista argentino ci rifila, prima, tre quarti d’ ora di “soggettiva” (non se ne vede la faccia) di un certo Oscar, junkie residente a Tokyo con la sorella Linda, appena arrivata ma già go-go girl in un locale notturno.[…]» Roberto Nepoti, «La Repubblica», 23 maggio 2009.
«Ieri sono passati Enter the Void di Gaspar Noé e Il tempo che resta di Elia Suleiman. Il primo è un provocatore di professione: il regista di Irreversible, uno dei film più brutti e sconci della storia. […]» Alberto Crespi, «L’Unità», 23 maggio 2009.
2. Intervista a Gaspar Noé a cura di Nicolas Schmerkin.
3. M. Marelli, Enter the Void, http://www.uzak.it/cose-mai-viste/94-enter-the-void.html .
4. Riguardo alla fotografia “figurale” di Debie, cfr. con la recensione dedicata a Lost River [id., Ryan Gosling, 2014] presente sul sito.
5. Intervista a Gaspar Noé a cura di Nicolas Schmerkin.
6. Cfr. G. Noé, Enter the Void, Scenario DEF de tournage, 2006.
7. «In the Dardenne films, this intimacy between you and the character (and, by extension, the filmmakers) is as much an ethical stance — they bring you close to the blessed and the damned — as it is a narrative strategy. Enter the Void is a different kind of beast, partly because it’s told through Oscar’s sustained point of view. This subject position — in which the camera, a character and the audience share the same look — can be very powerful, allowing you to see through a character’s eyes […]». Manohla Dargis, «The New York Times», 23 settembre 2010.
8. Cfr. J. Laurent, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino, 2006.
9. «Whereas Vertov employs montage extensively, Noé replaces this with manipulated sequence shots. However, he, too, tends to create “a correlation of two images which are distant (and incommensurable from the viewpoint of our human perception)» J. von Brincken, Phanton-Drug-Death Ride: The Psycho-sensory Dynamic of Immersion in Gaspar Noé’s Enter the Void, in (a cura di) F. Liptay, B. Dogramaci, Immersion in the Visual Arts and Media, University of Zurich, 2015, p. 127.
10. «This form of absolute immersion, which creates close relationships between the movement of the camera and the internal movement of the viewer, maker Enter the Void a psycho-sensory event that powerfully asserts its similarity to the experiences of fatigue, death, and being stoned: a real death trip.» Idem, p. 128.
11. «This film does not exist to merely be seen, but to be experienced with the whole human body.» K. L. Huddle, Enter the Void: An Investigation in Tactility. p. 2.
12. T. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film: un’introduzione, Einaudi, Torino, p. 129.
13. T. Elsaesser, M. Hagener, Op. cit., p. 130
14. «Noé’s camera-eye vision effectively deconstructs the distinctions between interiority and exteriority». Quendler, Subjective Cameras Locked-in and Out-of-Body, in Image & Narrative, Vol. 15, No. 1 (2014), p.84.
15. M. Marelli, Op. cit.