“il vero problema dell’immagine oggi è di carattere bioetico:
qualunque immagine è ormai manipolabile, sintetizzabile, sostituibile”
0. Premessa: ritorno a Ronald Laing
Nel dicembre scorso La Nave di Teseo ha pubblicato L’acquario di quello che manca, una raccolta di scritti di Enrico Ghezzi sulla televisione. È l’occasione per riflettere sull’intero percorso teorico del suo autore, tra i più bizzarri, iconoclasti e emblematici della critica italiana contemporanea. Al contempo sarà l’espediente per fare il punto su un tipo di riflessione sull’audiovisivo che sembra discostarsi , fin dallo stile, da quello professato e perseguito sullo Specchio.
Il connubio tra rigore semi-accademico e tendenza alla divulgazione è tanto vicino alle intenzioni di questa rivista quanto lontano dalla vulgata sul lavoro di Ghezzi. I testi del critico lombardo (o “apolide toscano”) da un certo punto in poi hanno abbandonato la precisione teorica e la speculazione analitica per arare il terreno dell’ibridazione, del situazionismo, del lampo intuitivo come strumento di ricerca. Il tutto condito da un uso ardito del linguaggio, vicino alle forme di certo post-strutturalismo francese, o perfino dell’esistenzialismo tedesco. Con la singolarità di avere unito alla prolissità verbale una sempre maggior brevità dei testi: il primo dei tanti paradossi che vedremo all’opera nel laboratorio critico ghezziano.
Quello che mostrerò è che tale strategia meta-teorica, pur non essendo auspicabile in generale a livello metodologico, contiene da un lato spunti proficui per una riflessione sul cinema maggiormente strutturata, dall’altro introduce elementi di natura linguistico-formale che travalicano i confini della critica e spingono la ricerca in direzioni meno prevedibili e apparentemente incidentali, perché sempre “decentrate” rispetto al topic di partenza.
Inizialmente mi concentrerò sul sostrato culturale che soggiace al cambio di paradigma linguistico. Sospenderò il giudizio su cosa influenzi cosa: se l’incontro col situazionismo e il decostruzionismo ispiri il lavoro di sperimentazione in campo televisivo e al contempo una generale sfiducia nel linguaggio critico tradizionale, o se siano queste ricerche linguistiche personali a trovare terreno fertile nelle filosofie post-strutturaliste del periodo. Quello che conta è che tutti questi elementi sono presenti e sorreggono una generale teoria dell’audiovisivo che Ghezzi non ha mai sistematizzato ma che si può dedurre dal contenuto ed ancor più dalla forma dei suoi scritti.
In seguito mi concentrerò proprio sulla forma analizzando nel dettaglio un singolo testo della raccolta e proponendo una definizione generale della modalità di critica e riflessione cinetelevisiva in atto. Infine accennerò a come il lavoro “poetico” sul testo critico sia assolutamente coerente con il lavoro sia divulgativo che dissacrante svolto negli anni in RAI.
L’acquario di quello che manca fornisce una panoramica esaustiva dell’evoluzione critica ghezziana, con scritti che coprono un intervallo di tempo compreso tra la fine degli anni ‘70 e gli anni più recenti. Ma l’esaustività è data maggiormente dalla natura multipla del volume (che rispecchia la natura multipla dei singoli testi), rappresentativo di quello che definirei il percorso “lainghiano” di Ghezzi.
Ronald D. Laing (1927-1989) è stato uno psichiatra americano il cui pensiero si è espresso attraverso modifiche formali radicali: partendo dalla ricerca sperimentale sul campo fino al saggio di teoria psicologica, poi al saggio filosofico (con incursioni nella logica formale) e infine alla poesia, prima “diagrammatica”, ancora connessa alle illustrazioni degli scritti teorici, poi “pura”, inequivocabilmente lirica. Queste trasformazioni erano coerenti con l’impossibilità percepita da Laing di esprimere con un linguaggio rigoroso e istituzionalizzato le complesse dinamiche dell’Io schizofrenico; la scrittura ha quindi preso la forma dell’oggetto del discorso. Mostrerò che lo sviluppo della scrittura ghezziana viaggia su analoghi binari. Il libro inizia quindi con saggi lunghi, se non paratattici quantomeno lineari, dallo stile “accademico”, prosegue con testi fulminei, involuti, poi sempre più criptici e personali, poi interviste, appunti per trasmissioni (quindi testi di supporto a sperimentazioni audiovisive, mappature, in sostanza “parole non autonome”), infine addirittura fax e poesie, chiudendosi con una ironica e angosciante (e profetica) poesia in prosa dal titolo S’io fossi Google. Nonostante sia diviso in 9 sezioni, esse non rispecchiano l’ordine cronologico (e quindi stilistico) dell’autore, mantenendolo solo ciascuna al proprio interno.
Piccola precisazione. Sembrerò non fare molte distinzioni tra cinema e tv come fossero sostanzialmente la stessa cosa, e in molti punti anzi la seconda sembrerà inglobare caratteristiche della prima. È una confusione voluta e che risponde alle esigenze del testo di partenza. Per “televisione” quasi ovunque Ghezzi intende una sineddoche; il vero denotatum è l’intero mondo delle immagini (in parte coincidente con la nozione debordiana di società dello spettacolo) diventato ecosistema “naturale”. Il vero oggetto del discorso è l’audiovisivo e distinguerò tra cinema e tv solo quando mi riferirò a passi di Ghezzi in cui la distinzione è assunta. L’intero apparato teorico è volto proprio ad assottigliare la distinzione tra i mezzi, non per eliminarne le specificità, ma perché a scopo illustrativo esse sono secondarie rispetto alle similitudini: conta il meccanismo che sussume tutte le istanze della cultura audiovisiva.1
1. “Il nostro destino di immagini”
Accorpando le osservazioni di Ghezzi sul “video” così come si delineano nel libro, non si può non notarne la filiazione da una serie di dispositivi teorici e autori che tra gli anni ’80 e ‘90 erano in auge, mentre avviene il passaggio netto da una forma di scrittura a un’altra (sempre per semplificare un percorso che è fatto ovviamente di salti e evoluzioni graduali). Guy Debord e La società dello spettacolo ovviamente, più volte citati e con i quali Ghezzi si confronta direttamente in alcuni testi. Ma anche Baudrillad, Derrida (o meglio alcune conseguenze del suo testualismo), Barthes e gli universi narrativi di Cronenberg e Tsukamoto (specialmente il primo).
Nonostante ciò mi sembra che Ghezzi tragga da ognuno di loro solo degli spunti iniziali per poi condurre una riflessione che si posiziona a metà tra il metafisico e il sociologico, concentrandosi su come l’universo delle immagini abbia modificato la realtà che esperiamo tutti i giorni. Si possono avanzare due obiezioni a tale ipotesi di lettura: la prima è che Ghezzi non pone la questione esattamente in questi termini. In sostanza non dice esplicitamente che l’universo delle immagini (o l’Immagine Collettiva) modifica la vita delle persone; anche se in più di un passaggio dal forte sentore cyberpunk parla quantomeno di modificazione dei corpi. Egli per varie ragioni che approfondiremo rifiuta un linguaggio così viziato di sociologia, ma l’intero discorso sul visivo non è altro che una disamina sulla sparizione del soggetto nelle immagini che lo circondano, vista con occhio tutt’altro che negativo (permane una ambiguità che affronteremo nel paragrafo 3). Mostrerò che questo è quello che si desume dalla semplice analisi dei testi più teoreticamente centrali della raccolta, unendo in un’unica Teoria delle Immagini quelli che paiono lacerti sparsi qua e là.
La seconda obiezione è la più terribile da avanzare a un recensore: non è questo il tema del libro. In effetti, raccogliendo articoli che, come si è detto, coprono un arco temporale consistente, sono innumerevoli i temi trattati, molti dei quali toccano la politica o l’attualità. Tuttavia in ognuno di essi si staglia sullo sfondo il leit-motiv della civiltà delle immagini e degli effetti che l’apparecchio televisivo, col suo statuto estetico “privilegiato”, ha impresso sul mondo del quale pretende di essere la mera “rappresentazione”. Inoltre è proprio la peculiare teoria dell’audiovisivo a giustificare (come argomento nel paragrafo 2) il percorso lainghiano, che è poi il tema centrale di questo saggio.
La contrapposizione tra il cinema come “arte postuma”, nella quale meccanicamente si ripete un passato già morto, un dato visivo che arriva sempre dopo, e la tv “maschera della presenza e del presente” (p. 405) mette in rilievo come – a causa del meccanismo della diretta – Ghezzi ritenga il mezzo televisivo una riproduzione incessante del reale, lo zenith del sogno inconsapevolmente contenuto negli ancestrali esperimenti dei Lumière. Riproduzione che annulla quindi la dimensione temporale, mentre il grande contributo del cinema alla storia dell’arte visiva era stato proprio l’inserimento del tempo nella rappresentazione. La tv è la perfetta configurazione dell’eterno presente dentro il quale viviamo, e che è da essa stessa costituito. Un presente che non è semplicemente riprodotto, ma anzi sempre filtrato come in un esperimento d’avanguardia. La tv è sempre sperimentale, fa sempre della “videoarte involontaria” (p. 148).
In una intervista inedita del 1999 a cura di Roberto Costantino, contenuta nella penultima sezione del libro (pp. 608-622), troviamo il manifesto lineare e chiaro della trentennale riflessione del suo autore. La televisione è “il cortocircuito artistico più potente che esista al mondo in questo momento”. Qualunque realizzazione o teoria nel campo delle arti visive è soppiantata dalla presenza piena e tetragona del mezzo televisivo, che l’ha già incanalata e superata senza che ce ne accorgessimo.
D’altronde la televisione sembra il punto di arrivo di quel laboratorio della visione che è stato il Novecento.2 Sia l’arte contemporanea che la pubblicità hanno portato all’estremo l’idea di un linguaggio visivo privo di soggetto, e se da un lato Ghezzi sembra sottolineare come questo sia il frutto spontaneo di una egemonia dell’economia sull’estetica nel sistema dell’arte, egli ritiene – con accento positivo – che tale meccanismo sia ciò che rende il circuito “fragile” e indistinto. Si è raggiunta così una specie di acme formale in cui ogni linguaggio prende a prestito dall’altro (il cinema dal videoclip, la pubblicità dalla tv, l’arte museale dalla pubblicità etc) collocando l’intera esperienza collettiva in un’enorme installazione site-specific dentro la quale il soggetto si muove solo perdendosi e confondendosi con lo sfondo.3 La pubblicità e la televisione sono i linguaggi più astratti dentro i quali si “possono eseguire” tutte le altre arti per cui la contaminazione non è solo un prestito estetico, ma l’obolo da pagare per appartenere a un insieme più grande. In una ideale Scienza della visione la tv sarebbe l’algebra.
Se ne deduce la sostanziale invisibilità di tutto e tutti, dei linguaggi artistici in primis, perché parte dello sfondo, inglobati. Il mondo diventa mastodontico ready-made (p.613): sottratto al suo stato naturale e esposto in un museo perenne, condannato alle infinite interpretazioni e immobile nell’atto di subire un gesto artistico. E, esattamente come per le opere “in piccolo”, anch’esso finisce per oscurare i suoi innumerevoli autori, sopravvivere a essi. Insomma quello che il mondo già faceva prima della tv, esistere indipendentemente da noi, ora lo fa in quanto prodotto televisivo, “decalcomania da staccare da se stessi”.
Prosegue, nell’intervista: “La tv è la riproduzione di un’ipotesi cosmica” (ecco perché a Ghezzi viene più spontaneo immaginarsi l’interattività – lo spatial involvement del videogioco 4 – associata alla tv piuttosto che al cinema); difatti “un solo giorno di televisione è già intramandabile, e nello stesso tempo registrato ma non ricordabile da un soggetto (…) eccede già qualunque, non critico d’arte, qualunque esperto”, caratteristica che ha in comune con la realtà. Invece di essere un modello della realtà, come qualunque altra forma d’arte o d’espressione, la tv risulta più simile ad una inutile mappa 1:1 dell’universo tutto.5 Le opere d’arte, così come le teorie scientifiche, funzionano in quanto modelli. Un oggetto “intramandabile” e quindi non sintetizzabile come la tv non può essere efficace come modello, e quindi identifica il mondo con la mappa. Viene allora spontaneo chiedersi: noi su quale dei due camminiamo? Sulla mappa o sulla terra? E riusciamo a distinguerle? La teoria risulta predittiva, se si considera quanto tale descrizione sia aderente all’era social.
Nella continua esperienza collettiva di videoarte involontaria le immagini perdono il loro valore sacrale, cultuale. Difettando la loro unicità e distinguibilità perdono la loro “aura”. Dato che – classicamente – l’aura definisce l’arte, ecco che l’arte scompare insieme al soggetto. L’intenzionalità artistica certo sopravvive in singoli gesti, singoli prodotti. Ma per Ghezzi sono tutti micro-avvenimenti dentro gesti più grandi, quelli che la rete, il sistema delle immagini produce ogni giorno automaticamente. (E da qui: come riassumere tutto questo nel linguaggio critico, per sua natura micrologico? Non si può, va fatto deflagrare, deve divenire magmatico come la realtà/immagine che tenta inutilmente di catturare).
Dato però che il gesto artistico e non intenzionale del sistema collettivo è passibile, come qualunque gesto, di molteplici interpretazioni, esse fuoriescono come proprietà emergenti, “criptografie potenziali” (pp.614-15), formate dalla giustapposizione involontaria delle immagini, e poi dalla loro rielaborazione da parte di alcuni attori (tutta la cultura memetica è un enorme corollario intenzionale a un teorema che esiste al di fuori di noi). Il collage dell’opera, che enuncia misteri che l’autore non può conoscere,6 diventa il collage dell’esistente, con i medesimi effetti di spaesamento ma su larghissima scala e vissuti da tutti, nessuno escluso.
Tra i testi più sofferti e sentiti della raccolta, Scusi dov’è il fronte? (pp. 410-16), descrive la guerra attraverso le “immagini/minaccia” che la materializzano incessantemente sugli schermi televisivi, quasi ad esorcizzare il timore che abiurando tale compito la tragedia scompaia dalla memoria collettiva. Curiosamente lamenta l’assenza di parole, chiacchiere, slogan, che possano sostituire l’assillante presenza delle azioni. E si chiede se il voyeurismo dei telegiornali non sia alla fine la corretta reazione agli eventi, reazione ambigua ma proprio per questo inconsciamente morale, a dispetto di “noi virtuosi che ce lo domandiamo” e che subito dopo voltiamo pagina dimenticandoci che la guerra è “infinita”.
La persistenza e la pervasività delle immagini, il continuo spettacolo che sostituisce la vita, rendendo i singoli individui parte dell’esperimento video a cielo aperto, implicano inevitabilmente la necessità di assicurarsi che niente rimanga dietro le quinte, perché l’apparizione, la visione, fanno esistere le cose (un estremo idealismo berkeleyano), e senza le cose non può darsi discorso morale sulle stesse. Ghezzi ha entrambe le scarpe dentro, ma butta un occhio fuori per non rinunciare completamente alla causticità del moralista secentesco (o francofortese), salvo poi inibirla perché dati (visivi) alla mano, non solo la morale è cambiata, così come i suoi oggetti, ma è cambiato anche il modo in cui si stendono i pamphlets.
Nella teoria delle immagini la tv occupa il trono poiché è il canale attraverso il quale tutto il passato (cinema) e buona parte del futuro (web) viene inglobato, modificato, stressato e talvolta preconizzato. L’attualità di questa visione è evidente nell’epoca delle piattaforme, che certo sono diverse dalle reti televisive come “oggetti” ma hanno preservato (se non spesso amplificato) le caratteristiche che Ghezzi considera fondamentali nel definire lo statuto estetico del mezzo: specie la modificazione operata sui film e l’illusione di parziale interattività.
In Cinemalinconie (p. 534), articolo per “Rolling Stone” del 2008, ecco emergere una delle molte riflessioni sulla morte nell’Immagine Collettiva. Si istituisce un parallelismo tra l’icona di Paul Newman, morto da poco (del quale delinea con precisione millimetrica una fenomenologia in contrasto alla icona Marlon Brando), e il fenomeno di iconicizzazione collettiva dell’era web. Una delle conseguenze dell’effetto che il “video” (in senso largo) ha sempre incentivato: la potente e paradossale identificazione narcisistica con un occhio impersonale.
Il prosieguo su Melancholia [L. Diaz, 2008] (presentato a Venezia quell’anno) e la paura che ha il piccolo Adelchi (il suo ultimo figlio) delle “tracce sonore” della violenza, aggiungono elementi ad una riflessione sulla spettralità del cinema e della tv, caratterizzati dal mantenere in vita ciò che è già morto da tempo, 7 perché è passato o perché effettivamente prossimo alla putrefazione (gran parte degli attori della storia del cinema è ovviamente morta).
Questa diffusa e onnipresente immagine di noi ci rende spettrali, già morti, eppure vivi della presenza che “scoprire il nostro destino di immagini” (p. 414) ci conferisce come unica possibile. Ecco perché smettiamo di essere soggetti, seppur dotati di una visione panottica. Ghezzi – ultimo di una piccola schiera – configura una “soggettività senza soggetto” e la identifica con la visione perenne che siamo e in cui siamo immersi.
L’esibizione narcisistica e ectoplasmatica di sé stessi sembra un’ulteriore ampliamento della necessità troppo umana di “lasciar tracce”, eziologia della iniziativa estetica e artistica.8 Le tracce ci ricordano le cose, ci ricordano noi, e possono quindi spaventarci (anche se in chiusura di brano emerge piuttosto il timore di non trovar traccia di sé nel riflesso). Essere diventati tracce aumenta la nostra concretezza testimoniale, documentale, ma impedisce la fuga da noi stessi, ci condanna alla eterna presenza. Nei due testi finora citati si può già notare il passaggio dalla riflessione teorica allo slancio lirico (con elementi perfino autobiografici in quello che dovrebbe essere un reportage sulla Mostra di Venezia).
La nozione di mondo come ready-made, le osservazioni sulla onnipresenza dell’immagine di sé e su come l’apparato mediale sia così diffuso e onnipervasivo da eliminare il soggetto, si accompagnano a concezioni dell’oggetto artistico o estetico molto affini al dibattito critico della scuola strutturalista fin dagli anni ‘60. La differenza è che Ghezzi espunge ogni connotazione negativa e poggia l’intero discorso sulle potenzialità del mezzo televisivo per come le vediamo quotidianamente, da Un giorno in pretura al Costanzo Show fino a, chiaramente, le sue stesse creazioni. L’esperimento è la norma in tv.
Il brano Dal grande al piccolo schermo (p. 147) è paradigmatico: in esso è condotta una riflessione sul vhs come feticcio ma anche come episodio della storia della cultura. La cassetta è un’ulteriore possibilità di fare videoarte involontaria modificando il tessuto e l’esoscheletro del testo filmico di partenza. 9 Un’operazione che è però già in nuce nell’apparato televisivo.
Lo scanning, ad esempio, vale a dire ridurre un film al formato consono allo schermo casalingo. Esso è equivalente al “rifilmare”, tradurre da pellicola a video e quindi creare un’opera altra: egli ne scrive con malcelato entusiasmo e un discreta dose di realismo: “lo stato attuale dominante del cinema è proprio la “cosa-video”, la cui attitudine alla manipolazione dei testi filmici può far ricordare quanto essi siano stati da sempre (…) incerti, mutanti, affidati a una serie successiva di last cut (…) da quello del produttore a quello davvero decisivo (come sostiene Friedkin) del proiezionista”. L’ossessione sempre maggiore per il restauro cinematografico è anch’esso sintomo della manipolazione. Il restauro è un’altra forma della mutazione; e d’altronde il concetto di restauro perfino nell’arte tradizionale è un’idea relativamente moderna (e occidentale). Un’idea votata ad una ideologia della “purezza” e della sacralità dell’opera che non appartiene minimamente al pensiero di Ghezzi.
L’espansione dell’universo video ci impedisce di vivere “al di fuori delle immagini”, vale a dire al di fuori di un linguaggio che filtra la realtà, deformandola, ammesso che essa esista fuori dal video e non sia invece il video una realtà in senso kantiano, unico fenomeno esperibile. In Il set della natura. Trascrizione, fuori sincrono, di un discorso oracolare (p. 107), scritto nel 2007,10 si può addirittura trovare una specie di giustificazione ontologica di questa visione: il cinema ha ridefinito la nozione di natura. Ciò che è naturale è, per definizione, il “filmabile”, in una ideale radicalizzazione delle aspettative dell’empirismo; la filmicità riscrive il concetto di realtà come metro esperienziale. Google Earth dimostra che la terra non è piatta senza bisogno di rivolgersi a un astratto modello matematico.
Il breve articolo del 1985 Ascolta alla radio Hitchcock in TV (p. 448), pubblicato originariamente sul “Manifesto”, descrive un curioso esperimento radio-televisivo: To Catch a Thief [A. Hitchcock, 1955] trasmesso in contemporanea sui RAI Radio e RAI TV. Ghezzi ne parla come esempio delle potenzialità sperimentali del mezzo, così come si dimostra perplesso dalle polemiche che accompagnarono una storica messa in onda della Trilogia della vita pasoliniana nel 1994 su Rai3 (p. 304), amputata nell’insieme di 45 minuti. Quella della censura Rai è una involontaria operazione avanguardistica, peraltro condotta senza rivendicare una versione integrale (“i film non sono mai integrali”, ribadisce) che si accompagna alla sperimentazione automatica che sempre risulta essere la messa in onda di un film in Tv. Addirittura Il fiore delle Mille e una notte [P.P. Pasolini, 1974] risultò sia censurato che integrato di una scena inedita che era stata eliminata in sede di montaggio e ritrovata negli archivi Rai, consegnando al fruitore un film mai visto prima.
Il “mito dell’emittenza centrale” che gli esperimenti su Hitchcock e Pasolini mettono in discussione non è altro che un parente del mito della sacralità del testo (o dell’autore, a seconda delle posizioni) che una filologia “dall’alto” (appannaggio del critico e dello studioso), con metodi analitici, decodifica e consegna come inamovibile cimelio alle generazioni future.
Il testo è sempre un politesto, o perlomeno l’ambiente audiovisivo contemporaneo lo rende inevitabilmente tale. Siamo davanti ad una concezione totalmente aperta dell’opera, senza autore e non costituita da immagini fisse e definitive cristallizzate per sempre dall’atto intenzionale originario, perché in fondo è anch’essa parte del flusso visivo che ci avvolge. Ghezzi è contro ogni purezza, privo di ingenuità semiologica, anti-essenzialista. L’intervento esterno sul cammino interpretativo e materiale dell’opera non solo è inevitabile ma nella gran parte dei casi ampliativo, accrescitivo.
Nel confrontarsi con i Commentaires debordiani in una recensione (p. 45) il creatore di Fuori Orario rileva l’ottimismo del fondatore del situazionismo rispetto alla prima versione dello storico saggio del 1967. Debord non nomina mai la tv perché siamo già al punto terminale del viaggio che ci ha portati ad essere immagini, spettacolo. Ormai non si può più far nulla, a parte guardare al panorama (un “incubo verosimile”) distaccati e ironici, bonari. L’oggetto analizzato e l’analista misurano uguale, il modello è in scala 1:1. È perciò impossibile descriverlo oggettivamente, con occhio laboratoriale. Ma non stiamo invocando le solite analogie improprie con l’indeterminazione di Heisenberg: non siamo gli osservatori che influenzano direzione e velocità delle particelle. È saltato il banco: le particelle non ci sono nemmeno, o se ci sono sono loro a osservarci.
L’operazione debordiana è infatti quella di scavare nei significati letterali delle parole, scrutare i reconditi recessi del linguaggio, con vigile la consapevolezza che esso sia “mutato o almeno mutante, tutto rivoltato o in codice”. Ghezzi al contrario da lì in poi inizierà ad arrendersi ai significanti (come disse Carmelo Bene a proposito di Joyce); la recensione è del 1989 quindi ai confini della trasformazione del testo critico. Lascerà che sia la lingua a parlare per lui, a manovrare il testo, forzando a volte le parole, assemblandole in modo che sia impossibile risalire alla definizione da dizionario. Da qui i giochi linguistici, le spezzature sintattiche, le tmesi, i vari espedienti ironici e metacomunicativi, il personale che si mischia alla teoria e alla riflessione critica, l’impressione che tutto il lavoro di scrittura sia un commento al lavoro televisivo e non possa quindi essere autarchico rispetto a un video preesistente.
Provo a riassumere quanto detto finora proponendo un’etichetta alternativa per la filosofia deducibile da L’acquario di quello che manca. Quella che ci si presenta è una “teoria della visione” (più che dell’audiovisivo) perché le immagini sono sempre considerate nel loro rapporto coi soggetti, (ma non è mai una una teoria dei soggetti e su come essi si trovino a navigare in un ambiente modellato dalle immagini). Esse non sono quasi mai strutture astratte, non c’è semiotica. E tuttavia la conclusione a cui giunge, la sparizione del soggetto, o il tentativo di neutralizzarlo sotto il velo del linguaggio, ci autorizzano a parlare – più chirurgicamente – di una “teoria del dato visivo (o dell’atto visivo)”. Atto che è innanzitutto atto linguistico, con qualche affinità con dottrine della filosofia analitica del linguaggio ordinario di area anglosassone (Austin, Searle). E non si potrebbe immaginare nulla di apparentemente più lontano dall’esegeta italiano di Deleuze e Debord.
In fondo quello che interessa al lavoro di Ghezzi è l’impatto che hanno le immagini sulla vita, non cosa esse siano in astratto. La stessa distinzione astratto/concreto – come risulta chiaro dal discorso sul mondo come ready-made e quindi sostanzialmente come oggetto linguistico – è malposta, o si è comunque depauperizzata al volgere del secolo. Sia che il soggetto sia effettivamente libero oppure, com’è più probabile, burattino meccanico governato da forze esterne. Attraversa sottile l’intero volume quella che a tutti gli effetti è una lunga requisitoria contro l’esistenza del libero arbitrio, logica conseguenza della abolizione del soggetto, inerme recluso nell’Immagine Collettiva. Unico modo per porvi rimedio è la “rinuncia a qualunque rivalsa sull’uso della propria immagine” (p. 544). Applicare a se stessi l’idea radicale che certe frange anarchiche delle forum chat degli albori applicherebbero alle immagini stesse e alle opere: l’abolizione del copyright. In un breve pezzo per “Il Sole 24 Ore” del 2009 paventa una liberatoria contro se stessi. Trionfare sulla condizione desoggettivante è possibile solo desoggettivandosi. Fin dal titolo citando Buñuel, per riconoscere che – come il cinema, come le immagini, come i soggetti – anche la libertà è sempre stata un fantasma.
2. Il testo decentrato
2.1 Case study: due coccodrilli
La tv per definizione rimastica, fa il “Blob” appunto, rende manifesto e intelligibile a chiunque ciò che ogni arte ha sempre fatto. Non è la pratica ad essere nuova, e nemmeno la consapevolezza teorica di essa, caratteristica dell’epoca postmoderna. La novità ghezziana è soprattutto l’abbandono ad essa perfino del linguaggio della critica: l’istituzione che “inventa” l’arte (o presume di farlo), che la norma, si fa infine governare.
Infatti ad una concezione aperta dell’opera, sorta non tanto per necessità estetica (la formulazione di una teoria compiuta dell’arte) quanto metafisica (la conseguenza logica di un dato di fatto sulla realtà intorno), si sposa una concezione totale del testo, di matrice derridiana/post-strutturalista. Con la differenza che Ghezzi non sembra condividere il dogma testualista per cui “nulla esiste al di fuori del testo”, in senso forte; quest’ultimo sarebbe solo uno dei molti sintomi di una radicale indistinguibilità tra testo e vita, tra mondo dei fenomeni e mondo-video.
L’apparato teorico fin qui delineato ha influito notevolmente sulla struttura della scrittura di Ghezzi nel corso del tempo. Esporrò un’ipotesi di morfologia del testo deducibile dalla lettura d’insieme di tutto il libro. Poi procederò a applicarla a un brano nello specifico per mostrare i molteplici livelli di discorso, contenuti anche in brevi articoli.
Ogni livello è contraddistinto da una tipologia di retorica o di figura del discorso. Può accadere che queste retoriche si accavallino, e finiscano per confondersi una nell’altra, e vedremo che a ciò contribuisce l’uso particolare di alcuni strumenti della sintassi, in particolare le parentesi. Ognuna di queste figure, a sua volta, concorre a spostare il topic dell’articolo (tranne, banalmente, la figura che lo rappresenta), permettendo al testo di parlare d’altro, col duplice scopo di allargare la visuale e di conseguenza lo spettro delle osservazioni utili a comunicare impressioni e intuizioni, nonché di esibire in un gesto l’impossibile tentativo (direi, televisivo) di “abbracciare” tutto lo scibile. Ogni breve brano ghezziano sembra avere l’ambizione di essere un’Opera-mondo, nell’accezione di Franco Moretti: enciclopedica, completa e efficace panoramica sul proprio tempo. L’autoreferenzialità insita in ogni testo finisce poi per esibire al contempo il proprio fallimento (e qui sta la modernità), e ri-filtrare tutto attraverso la lente dell’ironia, ironia sui tempi, su lui stesso e perfino sul suo stile.
Divido le retoriche in due macrogruppi: figure di stile e figure di contenuto.
Figure di Stile:
“R”: riflessioni varie espresse in un linguaggio involuto, fatto di molte subordinate.
“P”: stile poetico e enigmistico; comprende gli afflati lirici di alcuni passaggi e i numerosissimi giochi di parole (da volute storpiature di nomi a parole composte o spezzate, rebus, fino all’uso arbitrario delle maiuscole e delle minuscole).
“C”: più conforme alla critica cinematografica standard (perlopiù sono brevi recensioni parentetiche in un discorso che non riguarda un particolare film).
“A”: frammenti autobiografici. La considero figura di stile perché, anche se spesso rientra in P, talvolta è un elemento simil-sintattico del testo, una specie di “rima”.
Figure di Contenuto:
“T”: topic dell’articolo. Il gioco sta nel trovarlo.
“IM”: frammenti della Teoria delle Immagini di cui si è parlato nel paragrafo 1.
“L”: riflessioni sul linguaggio, anche metatestuali, o sulla forma dell’articolo e modus operandi dell’autore.
“PO”: digressioni politiche.
“AT”: riferimenti all’attualità, non strettamente politici, talvolta presenti anche solo per analogia o labile associazione con altre parti del discorso.
Nella parte 3 del volume, intitolata Farsi/disfarsi. Storie e archivi dalla televisione, sono raccolti testi d’occasione su eventi o personaggi televisivi. Uno dei pezzi è intitolato Immagini di ostaggi. Ostaggi di immagini. Il titolo ci rimanda alle teorie delle quali si è parlato nel paragrafo 1, eppure il testo si rivelerà avere tutt’altro topic; il titolo è perciò uno strumento retorico utilizzato per decentrare il discorso.
Il primo capoverso, dopo aver ripetuto il gioco di parole del titolo, prosegue: “Immagini, pietre che rotolano. Pietre, immagini rotolanti fino a che la valanga si infanga e devasta”. Affibbiamo a questo passaggio l’etichetta P: è puramente lirico, ci sono giochi di parole, rime (“valanga”/”infanga”) e non è chiaro di cosa si parli. Il secondo capoverso si lancia in un lungo periodo che parte in A (“Nei tranquilli primi dieci giorni di giugno in cui scrivo…”) e intervalla tra parentesi passaggi in R: “la prigione inevadibile in cui è (in)scritto chi crede di scrivere” (la prigione del linguaggio?) oppure “le immagini – ferme o finte in moto – hanno sempre della catastrofe, dicono sempre di un intemperanza…”. I passaggi tra parentesi sono fortemente connessi alla descrizione dell’autore che scrive in un caldo giorno di giugno, fino a che i due piani si confondono e ciò che è tra parentesi diventa essenziale, mentre le parti al di fuori sono di semplice raccordo. Nell’ultimo passaggio il discorso tra fuori e dentro la parentesi rimane invariato dal punto di vista retorico e quindi la presenza di “)” è puro segno scritto.
Il terzo capoverso introduce T: “Muore Nino Manfredi”. Quindi è di questo che parla l’articolo? Subito attacca una riflessione sull’immagine del divo: “soggetto parziale mascherato ambiguo”, approfondita più avanti. Seguono due lunghi frammenti di considerazioni generali sulle morti iconiche: “Il fluire e rifluire a forza del gran calderone della memoria nazionalpopolare…” etc (R). Poi l’attacco alla “parodia della “comunione di tutti i santi”” (PO) fotografa vizi ideologici della società dello spettacolo, riempiendosi ancora di giochi di parole e spezzature semantiche (l’uso ripetuto di “già” parentetico), riferimenti a Gozzano, slogan come “dominio digitale economico istantaneo”. Chiude con un parallelo ironico: solo “una assoluta fede nonviolenta (della quale non si vede poi gran traccia in giro)“, (ulteriore ironia nell’ironia), potrebbe farci preferire questo persistente album delle figurine, formato dai personaggi santificati post-mortem dall’apparato mediatico, “all’album palestinese con le figure dei kamikaze” (AT).
Ripete che è morto Nino Manfredi, per riprendere le fila e per qualche riga si produce in un sincero coccodrillo su come questa particolare morte sia la convocazione finale di una intera stagione del cinema italiano. Dopo una fulminea battuta sui coccodrilli contenuta all’interno di un coccodrillo (in cui “coccodrillizzata” è posto accanto a “imbalsamata”) l’autore osserva che le esequie tv sostituiscono il “rito della visione al cinema” (IM).
Appena dopo ricorda due film poco citati, entrambi di Dino Risi, vale a dire Venezia la luna e tu [1958] e Straziami ma di baci saziami [1968] e in tre righe “improvvisa” una recensione (C). Poi di nuovo R, questa volta sul potere della pubblicità (collegandosi ai caroselli di Manfredi, peraltro analizzati in un altro articolo presente nella parte quarta); tornando su T istituisce un parallelismo tra Manfredi e Sordi, parlando – a proposito del primo – di una “maschera della passività”. Senza nessuno stacco di capoverso ecco che viene introdotto un nuovo topic: è morto pure il “(non)attore Ronald Reagan”, anch’egli simbolo di un’epoca; senza punteggiatura riassume in un flusso di coscienza la figura dell’ex presidente, “il più paradossale e warholiano esempio del paradosso dell’attore (…) egli stesso è (in) memoria, stratificazione iconica a disposizione di interventi mutanti”. Non spiega ulteriormente, cita, gioca, fa calembours, lascia al lettore la decisione sul senso, come farebbe un poeta. Una critica alle facili sentenze sulla figura di Reagan (R) è intervallata da una parentesi nella quale Ghezzi in quattro righe confuta le “metafisiche del potere” che si fermano al primo livello dell’analisi dei rapporti tra potere e capitale, con una stoccata “frenologica” a Bush jr (PO).
Le osservazioni proseguono citando Ballard e in generale il modo in cui la letteratura americana ha trattato la Reaganomics e il tipo di maschera del potere che rappresentava, immagine summa della società dello spettacolo (IM). Di nuovo una parentesi poetica ma anche meta-linguistica (P & L): “E già che non ci siamo. [gioco di parole che riassume tutto il discorso sul soggetto del paragrafo 1, confermando che ogni testo è un politesto che assume significato all’interno del politesto-libro] Ho iniziato con un chiasmo [quello del titolo] (…) cinismo della (mia?) “chiosa barocca” di una religiosità irrisoria [ecco che parla della sua scrittura]” e prosegue fino a interrompere l’illuminante sproloquio, pieno di ulteriori rebus linguistici, perché confessa che “lo spazio si trasforma in deadline”; si tratta dello spazio concesso dalla rivista “Rolling Stone” che ospitava la sua rubrica (L). Conclude spiegando il titolo e perché l’immagine stessa è ostaggio, così come le immagini di questi divi defunti: nessuno è più proprietario di sé (IM). Dai massimi sistemi si arriva al proprio vissuto e così “il bambino di nove settimane che mi guarda e piagnucola (…) è il corpo e il segno di un’immagine che non so cosa sia e che spero non mi tenga in ostaggio né che sia mio ostaggio” (A). Il bambino è presumibilmente il piccolo Adelchi, il suo ultimo figlio, e introduce una nota di mesta speranza: l’Immagine Collettiva ci tiene prigionieri e ci annulla in quanto esseri umani, cerchiamo almeno di non imprigionarci e possederci a vicenda.
2.2 Per una poesia della teoria
Come ogni sperimentatore linguistico Ghezzi ha una certa sfiducia nel linguaggio (evidente nei confronti su Debord sparsi tra le sezioni) o almeno ritiene che sia mutato e mutevole in modo irreversibile, sia “sfuggito” di mano: è spiritualmente un situazionista fino al midollo, inconsapevolmente wittgensteiniano, e ci sguazza come si sguazza in acque putride ma familiari.
Per cui quella che si prefigura è una lotta costante tra linguaggio e concetti: cosa deve passare? È forse nella illusione che passino i concetti che vive la critica “analitica” che a noi piace. L’eventualità che non possa accadere è un dubbio, una ipotesi-limite, che non si può davvero definitivamente confutare ma nondimeno si può dimenticare (come il dubbio scettico sulla esistenza del mondo esterno quando si affronta qualunque problema teorico/disciplinare). Il lavoro del critico pare esser quello di riprendere in mano il dubbio scettico sul linguaggio e porlo in primo piano in ogni produzione testuale, come un pittore che ad ogni quadro dipinga insieme al soggetto la sua stessa mano e il pennello, e sullo sfondo ponga sempre un altro quadro a ricordarci la natura fittizia della rappresentazione. Ghezzi similmente impiega tutta la varietà del verbale per comunicare il visivo. Così noi vediamo in scena costantemente molte riflessioni differenti, appartenenti a soggetti o campi dissimili, o leggermente connessi da analogie, e a far da cornice l’iperbolico dubbio scettico sul linguaggio.
Nondimeno questa sfiducia nel linguaggio – o meglio nella capacità del linguaggio di veicolare concetti – predispone la puntuale vittoria del primo sui secondi, con l’ausilio di alcuni espedienti formali degni di un’avanguardia poetica del primo ‘900. Il più evidente è l’uso duplice delle parentesi: innanzitutto la loro frequenza è tale da risultare un modo per porre in rilievo il contenuto piuttosto che marginalizzarlo nell’economia del testo; come si è visto nella breve analisi in 2.1 larghe porzioni di testo finiscono per essere la stampella dei temi posti tra parentesi, fino a farsi influenzare da essi e trasformare l’intero pezzo in una digressione da un topic sempre meno centrale. In secondo luogo le parentesi hanno una funzione tonica, come potrebbero averlo nella lirica: talvolta infatti si aprono senza chiudersi, a indicare che si sta cambiando argomento o retorica ma si proseguirà su quella linea; altre volte invece si chiudono senza essersi aperte prima, avvisando il lettore che si è appena concluso un discorso che pareva rilevante (non era stata segnalata la cesura dal discorso principale) ma che può essere letto come secondario, o ancora come un semplice cambio di registro. Ovviamente ci sono numerosi casi di parentesi dentro le parentesi, segnali di una struttura politestuale, nonché – e questo è mutuato da altri autori “postmoderni” o postheideggeriani – molti casi di singole parole messe tra parentesi a spezzare una frase, o introdurre un gioco ironico, o ancora dotare di un sovrappiù di senso passaggi che rischiavano di avere “solo” un paio di interpretazioni possibili. Talvolta non sono singole parole ma singole interiezioni tipo “?” ad esser poste tra parentesi, lasciando aperta la possibilità del dubbio su una parte della frase (esempio: “la sinistra più ferma e nobilmente (?) convenzionale”). Fino ad arrivare a testi che, ritenuti interamente “centrali”, dovrebbero esser interamente parentetici, come Il senso dell’angelo (altro gioco di parole peraltro) a pagina 340 che inizia con: “Non metterò parentesi, qui, perché è tutta una parentesi”. Esse hanno, quindi, la funzione di “far sentire il testo” come quei registi che – formalmente consapevoli – si prodigano nel “far sentire la macchina”.
Frequente anche l’uso di parole composte o decomposte: o di nuovo attraverso l’espediente parentetico (“(f)lotta”, “pretesa d’essere alt(r)o che fonda il trash” …), o con altri segni come “/” e soprattutto “-” (“dis-ordine”). In terza posizione, a voler abbozzare una analisi stilometrica, ci sono modi di dire o modi di dire modificati (“La borsa è la vita?”) e in quarta onomatopee, figure di suono molto distanti dal linguaggio critico standard.
Dal punto di vista contenutistico sottolineo ancora la presenza sempre maggiore, da metà anni ‘90 ad oggi, di riferimenti autobiografici (la figura A): non solo l’immissione dell’io dell’autore nelle riflessioni, ma squarci molto intimi (la morte del padre, la crescita dei figli); per non dire dei richiami al suo stesso stile di scrittura: talvolta non appartengono alla figura L perché sono auto-ironie sul suo stesso personaggio, ormai identificato con una scrittura barocca. Infine ci sono alcuni articoli che parlano della loro forma in senso fisico: ne La pagina accanto (p. 464) il discorso si posiziona nello spazio, parte e si sviluppa commentando la collocazione nel paratesto in cui si trova (il giornale), facendo riferimento anche al coabitante trafiletto a firma di un altro autore.
Ghezzi usa (e avverte) le parole come sempre e subito cariche di connotazioni; il suo è un linguaggio fortemente potentemente (ed esclusivamente) connotativo. Il calembour, la forzatura sintattica, la parentesi insistita, le virgolette all’apparenza superflue, intervengono a smorzare questa carica più che a sottolinearla (un esempio chiaro è a p. 415 nel testo Scusi dov’è il fronte, già citato). Queste osservazioni ci conducono a rivendicare per Ghezzi un percorso “lainghiano”, come anticipato nella premessa: quella che propongo di chiamare una Poesia della teoria, invertendo i termini in modo da chiarire che la teoria è oggetto del discorso e non sua forma. 11
L’assioma fondamentale della sua metodologia è la centralità della digressione, ovvia conseguenza del costante decentramento del topic. Le digressioni concorrono a sbilanciare ogni testo, privarlo di un nucleo intorno al quale ruotare, facendosi ricettacolo di elementi che mantengono il punto durante la lettura, tramite figure perlopiù “poetiche” (P, L, A). Solo mettendo insieme tutti i testi, che è quello che fa il libro, si può azzardare l’ipotesi di una architettura centrale sparsa per le periferie: la teoria della onnipervasività delle immagini di cui si è trattato in 1. Essa è il macrotesto presente in ogni frammento locale e autonomo dell’opera, che potremmo a sua volta definire un immenso acrostico della teoria delle immagini.
Tra i pochi esempi del primo periodo ghezziano qui contenuti (uno su tutti: Sezione TV: frammenti di mercato a pag. 442, per dire un testo difficile ma non ancora “poetico”) possiamo notare che C e IM prevalgono sul resto (e L addirittura non appare mai) con T centrato. Nei testi del “periodo maggiore” le varie retoriche convivono: interviene sempre più P a invadere interstizi (con A e L, mentre IM diventa digressiva) fino a precipitare nell’abbandono a un linguaggio demolito e reso paradossale. R si considera figura a sé perché i testi non sono più riflessioni in senso ovvio (nel senso in cui lo è qualunque testo saggistico) ma sono un “Blob” verbale e quindi la riflessione vera e propria, che non sia C, entra come digressione (quindi centrale) e va segnalata con etichetta apposita. Spesso è lì che avviene il collegamento col contemporaneo o tra campi e osservazioni apparentemente lontani. In R c’è la sostanza del laboratorio ghezziano, che ha ricadute verbali in IM, C e PO, e necessita della congiunzione P & A & L per manifestare la propria radicale estraneità. In questo modo si struttura il “discorso sul discorso e sul visivo” di Ghezzi. Il momento in cui scriv(ev)o (p. 427) è un testo paradigmatico: la resa alla scrittura vince sulla commissione dell’articolo, e T si inserisce sul finire quasi in esergo, casuale. Il testo è inserito nella sezione dal titolo Catastrofette pur non parlando di Twin Towers o eventi consimili come i suoi coinquilini. La catastrofe, in questo caso, pare essere la catastrofe della scrittura.
Ulteriore esempio: (la memoria sterminata) (p. 236). Il titolo è già tra parentesi e quindi – come si è visto – “centrale”. L’articolo porta avanti due topic: quello pretestuoso è la ricorrenza della Giornata della Memoria, quello sostanziale riguarda il rapporto tra memoria e immagini. In particolare come la produzione di immagini documentali sia una delle chiavi della memoria e come sia possibile usare il cinema, similmente alla poesia (a sentire Heidegger), per nominare, dare nomi non alle cose ma alle persone: “riusciremo, prima di lasciare il pianeta o che esso ci lasci, a dare un nome a tutti quelli che ci hanno preceduto?”. Rebus rivelatori (“il monitor della speranza”), lampi di analisi critica (su Europa ‘51 di Rossellini), osservazioni autobiografiche, progetti di performance artistica, contornano l’ennesima riflessione politica sulle immagini e il potere che esercitano su di noi. Sembrerebbe che non ci sia altro modo per comunicare questi concetti se non sovrapponendo nel testo elementi eterogenei, riproducendo il funzionamento della nostra memoria, disordinata ma illuminata.
Prendiamo il prototipo di una frase a effetto del libro (p. 298): “Blob non esiste. [paradosso] Blob resiste, [gioco di parole] a se stesso prima di tutto [rarefazione]”. L’autore “tende” le frasi fino a farle perdere di consistenza. Il vezzo diventa un morbo che si espande e contagia l’intero testo fino a farlo sfumare e impedire che topic e nucleo concettuale siano facilmente scovabili. L’uso di fulminanti digressioni parentetiche ha lo scopo economico di lasciare traccia scritta di alcuni concetti rilevanti; fermo restando che gran parte di essi, essendo off topic, non contribuiscono a centrare il testo ma formano sacche isolate di “teoria” (di “verità”) a mo’ di aforisma brillante. Ghezzi costruisce quindi una scrittura che è sia prolissa e “gaddiana” che aforismatica, e un tale curioso paradosso forza il linguaggio fino a renderlo (in una operazione di assimilazione del contenuto nella forma) il vero topic dell’atto scritturale.
In conclusione: “Poesia della teoria” significa un discorso condotto coi mezzi della poesia12 che ha per oggetto la teoria. Come abbiamo notato non è detto che sia una teoria sul cinema o sulla tv ma può essere direttamente una teoria ostensiva sul linguaggio. E lo è perché la forma tracima; cosa che non avviene limitandosi a un linguaggio teoretico che abbia l’intenzione di risultare cogente, ragion per cui Ghezzi lo abbandona. D’altronde la presa di coscienza di un cambiamento storico, una vera svolta anti-soggettivistica, necessitava di parole “nuove”, tecniche discorsi e retoriche inusuali.
Per rimarcare il parallelismo col percorso filosofico di Ronald Laing: l’approdo finale a un linguaggio ambiguo e non rigoroso è la rara – ma possibile – deriva logicamente conseguente di una riflessione teoretica compiuta. Ne L’acquario di quello che manca salta la dicotomia tra poesia e teoria, non programmaticamente ma “sulla pelle” dell’autore, nel suo singolare percorso in cui immagine, realtà e vita privata si mescolano e a tentoni scrutano il mondo in cerca del bandolo della matassa, beandosi quando capita di non trovarlo. La resa ai significanti è innanzitutto espressa con joie de vivre.
3. Il critico come videoartista
Consapevole di aver solo lambito la complessità del libro, che ha molti temi stili riferimenti teorie rispetto a quelli messi in risalto qui, ritengo di aver mostrato due elementi, la teoria delle immagini e la poesia della teoria, summa di tutta la carriera di Ghezzi.13 Ma come si sposano col suo lavoro televisivo, quello per il quale è maggiormente conosciuto?
La nona sezione del libro raccoglie, oltre a fax e poesie, degli appunti programmatici sulla trasmissione La Magnifica Ossessione, tour de force di dieci mesi sulla storia del cinema. Il testo è presumibilmente inedito e “interno” all’azienda ma Ghezzi lo redige con un piglio visionario, e il suo inserimento nel libro prevede che il lettore si immagini visivamente l’intero esperimento messo in atto (in realtà più povero rispetto a quello elaborato in origine), durante il quale si usano concetti come “enciclopedia filmica” o “cineteca ideale” (dichiarata non esistente). Si immagina forme, impatto, reazioni del suo progetto e il testo pare del tutto simile allo schizzo di un artista sperimentale che progetta la sua installazione e dà le direttive agli artigiani che lo aiuteranno. Una “completezza di sguardo” sul cinema, rielaborata dai tempi televisivi, e che prevede anche intere trasmissioni di soli spezzoni, esperimenti sugli orari, dispiegamento dell’archivio RAI. Segue un altro prospetto in cui è stilata una lista14 di film e spezzoni e frammenti, le cui vicinanze sono calcolate nel dettaglio, con tanto di giorni e orari di programmazione. Il tutto condito da osservazioni sul senso delle analogie e dei singoli film.
Questa sezione suggerisce due ultime considerazioni sulla attività critica dell’autore. Il suo lavoro di sperimentatore televisivo sembra una palinodia delle invettive sulla società delle immagini. In realtà come abbiamo visto l’atteggiamento è più rassegnato e divertito che apocalittico: Ghezzi – per riprendere la storica dicotomia echiana – è un integrato nel sistema. In un articolo della settima sezione a pag. 462 respinge interpretazioni canonicamente postmoderne del suo lavoro televisivo. Mischiare sacro e profano, detournizzare, detonare e ampliare le immagini già esistenti lo si fa perché c’è ancora tanto di nuovo da dire (innanzitutto sull’immagine stessa; e da qui molte sue illuminanti profezie), e non certo perché – come credeva Lyotard che definì la condizione postmoderna – tutto è già stato detto e sono tramontate le grandi narrazioni. È un mondo work in progress quello che descrive e che ci invita ad abbracciare, perché tanto abbiamo già “perso” (le virgolette indicano l’assenza di connotazioni negative. Forse ci abbiamo guadagnato).
L’apparente ambiguità sta proprio nella contrapposizione tra le sentenze misoneiste di ispirazione francofortese, i parziali e compromessi anatemi alla Debord, e il lasciarsi travolgere e “sporcare” dalla sperimentazione audio e video senza scrupoli teorici o ideologici. A riprova la polemica con gli apocalittici semiologi Fabbri e Calabrese (pp. 45 e 50): egli è sempre stato in linea, dichiara, con gli studiosi modernisti che – come i due interlocutori – hanno salutato con favore l’avvento di una tecnologia che deformasse l’arte fino a renderla interattiva, ludica, totalmente manipolabile dal fruitore, e auspicato spesso una desacralizzazione delle opere; da qui l’importanza nel suo stesso lavoro di concetti analoghi a quelli di “ipertesto” e “opera aperta”. A differenza di gran parte di loro Ghezzi non nasconde la mano una volta lanciato il sasso, e recrimina le turbe elitariste che spingono ad arretrare nel momento in cui il sogno della completa democratizzazione delle forme si avvera; in sostanza rivelando come alcuni agnostici dell’estetica siano diventati più papisti di Adorno.15 Ricordando ciò che già sappiamo: il mezzo audiovisivo, in particolare la tv, ha sempre contenuto dal principio la possibilità di uno sconfinamento nell’arte pura. Infatti “non esiste la visione passiva in televisione” e ancora “la televisione è sempre, in qualche modo, videoarte, almeno rispetto a tutto quello che produce e trasmette”.
E così il suo lavoro diventa da subito quello di un videoartista/dirigente TV che manipola le trasmissioni in modo da renderle esperimenti situazionisti; si sporca le mani direttamente, non si chiude a riflettere nella torre d’avorio. Anche perché non c’è nulla su cui riflettere: il linguaggio della teoria si è arreso alla potenza del linguaggio poetico, e quindi dell’arte.
Unendo la critica “tradizionale” alla sperimentazione audiovisiva, attua una riflessione sul mezzo visivo e specialmente sul mezzo video che finisce per confondersi con lo stesso. Rinuncia alla distinzione tarskiana – implicita nella critica – tra linguaggio oggetto e metalinguaggio perché crede che sia ormai impossibile uscire dal linguaggio delle immagini, siano un tutt’uno con la nostra carne (il suo sostrato “politico” cyberpunk gli fa citare spesso Gibson, Cronenberg e Tsukamoto), perciò una riflessione “pura”, “innocente” sul mezzo video è impraticabile. Quando deve limitarsi alla scrittura essa diventa quindi “velazqueziana”, esibisce la mano dell’autore, lo scacco linguistico, il paradosso della incomunicabilità. Quando invece può “gettare il proprio corpo nella lotta” ecco che fa egli stesso sperimentazione videoartistica e – se non interviene direttamente sul materiale (come in Blob o nei montaggi organizzati per La Magnifica Ossessione) – trasforma il paratesto, cioè l’introduzione critica, in un testo filtrato, virato o rallentato o desincronizzato etc (i celebri incipit di Fuori Orario). L’intero lavoro televisivo di Ghezzi è in qualche maniera comprensibile e giustificabile attraverso uno studio dell’uso del linguaggio nei suoi testi scritti. Lungi dall’essere un vezzo di chi se lo può permettere è la resa incondizionata di un “pensatore di immagini” alla prigione della lingua.
La seconda considerazione riguarda direttamente i testi di questa sezione: essi si configurano come parole non autonome, che forse necessitano di un supporto visivo fuori dal testo. Dico forse perché li si può benissimo pensare come ekfrasi, vale a dire descrizioni verbali di oggetti non verbali, godibili proprio immaginandosi quegli oggetti (e quindi differentemente da una lettura monografica, come ad esempio lo stesso Castoro di Ghezzi su Kubrick). Poco importa se i prodotti visivi di riferimento siano reali o no,16 anche perché il progetto della Magnifica Ossessione è così mastodontico che solo la descrizione completa del suo demiurgo può assicurarci che ne coglieremmo la visione d’insieme; il testo scritto pare essere un supporto visivo migliore del visivo stesso. Forse perché in fondo quello di cui si parla pertiene più l’ambito dell’arte concettuale che quello del cinema puro.
È vero però che i testi in quanto dipendenti dal prodotto che descrivono potrebbero risultare in qualche modo monchi. Per questo credo siano stati messi nella sezione più artistica del libro: la loro incompletezza è un tratto distintivo che ne risalta i pregi estetici. A proposito della sceneggiatura Pasolini in Empirismo eretico parlava di “struttura-che-vuol-essere-altra-struttura” e in questo stava la sua poeticità: a fronte di uno statuto ontologico dipendente dal film realizzato, le donava un dignitoso statuto estetico autonomo, ben esemplificato dalla pubblicazione di alcuni suoi script, pieni di didascalie “poetiche” destinate altrimenti a rimanere su carta privata. Con la pubblicazione in questo volume anche Ghezzi compie un atto di indipendenza del progetto di un programma tv dal programma stesso. E se è facile rispondere alla domanda “il progetto di un’opera è l’opera stessa?”, lo è molto di meno rispondere a “il progetto di un’opera è a sua volta un’opera?”. Il gesto dell’autore è una parziale soluzione.
La deriva sperimentale non si ferma al fuori sync o agli spezzoni di tv montati in modo da farne emergere significati inaspettati, in puro spirito situazionista. Il saggio, come abbiamo visto in paragrafo 2, è diventato una forma estetica, o meglio è diventato primariamente tale poiché il saggio è stato sempre anche un prodotto estetico, da Montaigne in poi. E così anche il video-essay o l’intervista diventano videoarte, o video di una performance. Uno degli esempi più bizzarri, presente su YouTube (QUI), è l’intervista a Tsukamoto. Il critico non imbastisce solo una approfondita discussione filosofica ma invita il regista giapponese nel suo ufficio e gli mostra una “video-cosa”, montaggi di operazioni chirurgiche, cadaveri e altre amenità; si limita poi a osservare Tsukamoto che osserva. È difficile comprendere appieno il gesto ghezziano: è la formulazione di un’ipotesi sui gusti del cineasta e quindi un’analisi dei suoi riferimenti visivi? Oppure è un tentativo di coinvolgerlo nella disamina di quel video attraverso le sue reazioni, come un giudice affidabile, e non nel ruolo di imputato? Oppure ancora è una riflessione personale sulle associazioni che lui in quanto critico fa tra i due prodotti visivi e il desiderio di vederli accomunati in un’altra “video-cosa” vale a dire l’intervista stessa? L’ambiguità delle possibili risposte ci possono fornire come unica soluzione chiara che quello di Ghezzi è a tutti gli effetti un gesto artistico, performativo. Il saggio come forma estetica, il video come performance teorica, e i testi non autonomi come progetti, “struttura-che-vuol-essere-altra-struttura”. Se formuliamo una nozione analoga a quella di “spazio letterario”17 e la nominiamo “spazio critico” possiamo affermare che Ghezzi allarghi parecchio l’insieme delle opere che per un critico ha senso scrivere (o non scrivere, filmare etc) in quest’epoca.
Il metodo ghezziano è utile non a derivare conclusioni precise o analisi che siano il più corrette possibile (anche se capita di ottenerne, ma appartiene al genio del singolo e non all’apparato formale) bensì a mappare un territorio e descriverne i paradossi, le traverse, i vicoli ciechi, le fuoriuscite inaspettate, le viuzze appartate, gli anfratti più sospetti e nondimeno utilmente percorribili, talvolta le scorciatoie – quando testo e sintesi lo richiedono – talvolta i percorsi tortuosi e i rettilinei di collegamento, magari solo accennati o indicati, quando l’ostensione sostituisce la dimostrazione e non riesce a produrre teoria o critica ma indica lo stesso una conoscenza possibile, e non preclude nessuno strumento che possa giungervi. Ghezzi è un anarchico epistemologico nel senso di Feyerabend, “qualunque metodo va bene” purché il percorso sia intellettualmente stimolante e a prescindere dall’approdare o meno a delle conclusioni. Un metametodo non consigliabile diffusamente, ma da interrogare quando, per accidente o per progetto, si è smarrito il quadro generale.
Appendice. La funzione saggistica del cinema
Faccio un piccolo e pleonastico tentativo di inserire l’opera di Ghezzi, per come l’ha descritta l’analisi qui compiuta, in un dibattito più ampio di tradizione analitica, principalmente anglosassone. Il dibattito è quello che coinvolge i rapporti tra cinema e filosofia, ma io intenderò con questo secondo termine “teoria”; non ritengo di far danno alla sostanza del dibattito, tranne che per alcune prospettive metafilosofiche molto ristrette le quali però si inscrivono di default fuori da esso.
Che il cinema possa avere una funzione filosofica, o saggistica, appare chiaro da alcune operazioni intertestuali che si sono codificate nel corso del tempo. Prima fra tutte quel particolare tipo di traduzione intersemiotica che chiamiamo “adattamento”.18 Opere come Un Amleto di meno [C. Bene, 1973] o L’età dell’innocenza [M. Scorsese, 1993] risultano essere, volontariamente o meno, riflessioni sul testo di partenza che prendono posizione su alcune sue possibili interpretazioni; ma gli esempi sono davvero innumerevoli e meriterebbero un saggio apposito. Stessa cosa può valere per testi che posseggono la stessa semiotica, da remake come Psycho [G. Van Sant, 1998], a “commenti” filmici come Steps [Z. Rybczynski, 1987] (peraltro citato anche da Ghezzi). Per non parlare delle parodie, dei calchi etc.
Quello però che una recente tradizione filosofica si chiede è se e come sia possibile fare filosofia (teoria) col cinema. La questione è sottile e complessa e per una panoramica dettagliata in italiano rimando a Filosofia del film di Enrico Terrone (Carocci 2014). Per rispondere, dopo aver definito cosa significhi “cinema” e cosa “filosofia” nelle varie prospettive (e dipenderà sia dalla propria teoria estetica che da quella ontologica), i vari autori cercano di trovare all’interno dei film, a livello strutturale, elementi che possano essere ricondotti a una costruzione teorica ben definibile, priva di eccessive ambiguità, compito che sembra incompatibile proprio con la vaghezza concettuale insita nel linguaggio artistico. Ci sono però vari argomenti che possono far propendere per una risposta affermativa. Coloro che rispondono negativamente sono gli scettici (come Bruce Russell), mentre i positivi possono essere iperbolici (Stanley Cavell) oppure dialettici (Thomas Wartenberg). Senza scendere nel dettaglio vorrei accomunare le risposte affermative sotto l’etichetta di standard view: questo per sottolineare che loro obiettivo è mostrare come il cinema in quanto forma d’arte possa contenere elementi genuinamente filosofici (teorici), o in totale autonomia oppure in dialogo con testi filosofici esistenti.
Anche Ghezzi risponde in maniera affermativa alla domanda ma si discosta nettamente dai fautori della standard view. Chiameremo Acquarium view la sua posizione (o di chiunque ne condivida gli assunti) così riassumibile: sì, col cinema si può fare teoria; ma non perché esso contenga in sé elementi che appartengono anche alla riflessione teorica e razionale, ma perché non è più davvero possibile fare saggistica. La teoria è tramontata e al massimo ciò che si può fare è sperimentare col linguaggio, grossomodo quello che fa la poesia, facendo quindi “arte” sempre, in ogni contesto. La soluzione radicale di Ghezzi annulla una delle due direzioni del bicondizionale che va da “teoria” a “cinema”, rendendo sterile la domanda: si può fare teoria solo col cinema, o comunque con l’arte in generale. L’audiovisivo è tra le arti la più adatta, perché ha prodotto la società di spettri in cui siamo nostro malgrado immersi.
NOTE
1 Ritengo che Ghezzi sottoscriverebbe una nozione molto larga di “video” che – partendo dal classico Expanded Cinema (G. Youngblood, Dutton, 1970) e superandolo – è ben descritta in una conversazione con Tommaso Giacomin al Salotto Monogatari (QUI)
2 Idea che è fondativa della videoarte, ad esempio. Non a caso l’intervista inizia parlando di Nam June Paik.
3 A questo proposito vi sono molte analogie con la fase terminale della produzione letteraria pasoliniana, “profetizzata” dalle riflessioni di Barthes sul “grado zero della scrittura”. Mi permetto di rinviare al mio saggio in proposito, dove ho parlato proprio di “letteratura site-specific”.
4 G. Calleja, In-Game. From immersion to incorporation, The MIT Press, 2011.
5 In un simpatico brano del Secondo diario minimo (Bompiani, 1992) Umberto Eco descriveva la costruzione di una mappa 1:1 di una città, la più precisa possibile ma, perciò stesso, la più inutilizzabile.
6 Si pensi all’iper-teorico finale di Opera senza autore [F. H. von Donnersmarck, 2018].
7 Cfr. M. Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino, 2010, cap. 1, p. 22. L’illusione temporale è il modo in cui si manifesta nell’arte audiovisiva quella illusione referenziale che Antoine Compagnon ascrive alla letteratura (Il demone della teoria, ed. it. Einaudi, 1998).
8 Il riferimento è a M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza 2009. Le ricadute estetiche sono ne La fidanzata automatica, Bompiani 2007.
9 In realtà Ghezzi ritiene che la tv sia più efficace del vhs ma sembra dimenticare (se ne ricorderà in seguito nel brano) quello che tutti abbiamo fatto da un certo punto in poi: registrare film dalla tv su cassetta. Così facendo si imprimevano per sempre tutte le modifiche testuali e paratestuali previste dal mezzo (formato del film e pubblicità che interrompe), interferenze che entravano poi nel nostro immaginario. Io non riesco ancora a vedere il Robin Hood della Disney senza pensare che nel punto in cui rubano le ruote della carrozza del principe Giovanni il film sfuma nella pubblicità della Moka, così come mi aspetto che la scena postcredits della Spada nella roccia sia un cartone di Paperino e Pluto.
10 Il titolo pasoliniano rimanda all’opera come progetto vivente e incompiuto, in cui il testo è sempre un appunto, un abbozzo, impossibile da incasellare in un linguaggio unico (quella di PPP altra esperienza traumatica: la scrittura demolita dal mezzo video, inteso come prosecuzione della realtà con altri mezzi. Vedi nota 3 e l’introduzione di Walter Siti all’Opera Omnia dello scrittore).
11 Se l’espressione “poesia” dovesse risultare esagerata e non bastassero le considerazioni fin qui svolte, faccio appello a una definizione larga del termine (meglio non infilarsi nel ginepraio che le definizioni di poesia sollevano da secoli). L’espressione poetica è costituita da “tensori”, e possiamo trovarla anche fuori dalla poesia lirica pura (anche se ovviamente essa ne è l’esemplificazione perfetta), e i tensori in questo caso sono quelle che ho chiamato le figure di stile, che allontanano senza dubbio gli articoli di Ghezzi dalla critica tradizionale, così come dalla filosofia più enigmatica di derivazione d’Oltralpe; c’è un genuino slancio lirico assente in Foucault o Deleuze. Su struttura della poesia e tensori rimando a un testo classico: J. Lotman, La struttura del testo poetico, ed. it. Mursia 1972. Per una sinossi chiara, concisa, in molti punti ineccepibile rimando al (purtroppo pressoché introvabile) A. Plebe, Logica della poesia, Ila Palma 1982.
12 Si potrebbe parlare di “Ultrafilosofia”, vale a dire la “prosecuzione della filosofia coi mezzi della poesia”. Il termine è stato coniato da Remo Bodei in riferimento all’opera di Leopardi.
13 Se ne possono trovare altri commentati nello Special del Salotto Monogatari interamente dedicato (QUI).
14 Sullo statuto estetico delle liste, tra le quali quella di Ghezzi si inscrive appieno, cfr. U. Eco, Vertigine della lista, Bompiani 2009.
15 Un buon esempio di atteggiamento ghezziano, non così fuori tempo massimo, è quello di Baricco in The Game (Einaudi 2018), che descrive le derive della società massmediatica contemporanea con partecipe curiosità e senza chiamare alle armi gli intellettuali. Sono atteggiamenti sempre più rari, seppur così forti in una personalità stimata e spesso male imitata come Ghezzi.
16 Due esempi. In Punto Omega di Don DeLillo ci è chiesto di immaginare una videoinstallazione esistente (24 Hour Psycho) ma è proprio la descrizione concettuale che ne fa l’autore a renderne superflua la visione. Analogamente nello splendido racconto di Bolaño Prefigurazione di Lalo Cura, l’intera filmografia porno estrema di un autore è fittizia, ma le descrizioni intessono la narrazione, la quale acquista godibilità proprio per il suo essere una ekfrasi.
17 “L’insieme delle opere che gli autori di una certa epoca giudicano ragionevole scrivere e ritengono (…) all’altezza dei tempi” (G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Il Mulino 2005).
18 Rimando a N. Dusi, Il cinema come traduzione, UTET 2003. Mi permetto anche di rimandare a una mia analisi del Diabolik di Bava condotta con questi strumenti teorici.