Un adattamento cinematografico di Dune sembra possedere l’aura di un fenomeno celeste che si verifica a cadenza decennale. Pubblicato per la prima volta nel 1965 e ambientato tra diversi millenni, il romanzo di Herbert descrive con grande originalità un impero interplanetario in cui l’umanità è guidata da convenzioni e riti sociali quasi completamente diversi dai nostri. Le riduzioni cinematografiche del libro (anche quelle tentate o abbandonate) sono tutte circondate da un alone di leggenda e il franco-canadese Denis Villeneuve, la cui versione era prevista per un’uscita nel 2020 ma è stata ironicamente rinviata a causa di una crisi planetaria, ha meritoriamente realizzato ciò che numerosi registi nell’ultimo mezzo secolo, tra cui Alejandro Jodorowsky, Ridley Scott e Peter Berg, per un motivo o per l’altro non hanno potuto portare a compimento. Tuttavia, ha così contratto un debito con alcune convenzioni estetiche sviluppatesi negli ultimi vent’anni all’interno dello studio system americano, in particolare per quanto riguarda la produzione multimilionaria di quelle che sono essenzialmente sceneggiature da B-movie.
La storia è ambientata nel 24° millennio (secondo il nostro calendario), dove nobili casate feudali si scontrano per il controllo del commercio interplanetario della Spezia, sostanza che funge sia da narcotico che da combustibile per i viaggi nello spazio e si trova in un solo luogo in tutto l’universo, il pianeta desertico Arrakis. Paul Atreides (Timothée Chalamet) è il discendente del duca Leto (Oscar Isaac), nominato nuovo reggente di Arrakis con un decreto emesso dall’imperatore Shaddam IV. Leto prende il posto dei precedenti governanti, ovvero la casata Harkonnen, rivale degli Atreides e guidata dal barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård). La madre di Paul, Jessica (Rebecca Ferguson) è invece stata studentessa di Gaius (Charlotte Rampling) della Sorellanza Bene Gesserit, una scuola che addestra le donne nelle arti dell’ipnosi e dell’osservazione. Jessica vive un conflitto tra la sua lealtà per la Sorellanza e quella per la Casa Atreides. Dopo essersi insediata sul pianeta, la Casa Atreides cade presto vittima degli intrighi degli Harkonnen, che, cospirando con i Sardaukar, la forza militare d’élite dell’Imperatore, sperano di ottenere il pieno controllo della produzione della Spezia eliminando la sempre più popolare famiglia Atreides. I cospiratori uccidono il Duca, mentre Paul e Jessica riescono a fuggire nel deserto. È lì che fanno amicizia con i Fremen, nativi del pianeta.
Jessica in Dune
Come si evince dalla sinossi, il film si basa sulla prima parte del romanzo, Il pianeta delle dune. La saga della famiglia Atreides incorpora molte dalle narrazioni archetipiche dell’antichità, in particolare le storie di Medea, Edipo, Mosè e Maometto. Come nell’Esodo, sebbene Paul sia nato ricco alla fine trova la propria vocazione come capo di un popolo sfollato con alla spalle una lunga storia di esilio, mentre la descrizione delle caratteristiche fisiche di Paul data da Herbert non è dissimile da quelle del Profeta presenti in vari hadith persiani del 9° secolo («…non era né alto né basso, la sua pelle né molto bianca né molto bruna, i suoi capelli né lisci né ricci […] i suoi occhi erano scuri»). Dal momento della pubblicazione del libro, l’arco narrativo che abbraccia le vicende di Paul – ovvero la storia di un individuo che si è allontanato o è stato allontanato con la forza dal mondo “civilizzato” e che si immerge in una cultura più “primitiva” o “elementare”, trovandosi tuttavia più a suo agio in quest’ultima – è stato riutilizzato da così tanti film, da Avatar [id., James Cameron, 2009] a Balla coi lupi [Dances with Wolves, Kevin Costner, 1990] fino a Joe contro il Vulcano [Joe Versus the Volcano, John Patrick Shanley, 1990], che il pubblico lo considera ormai alla stregua di un artificio retorico. Se ne deduce che, insieme alle contemporanee opere di Ursula Krober LeGuin, il romanzo ha avuto un effetto tangibile sulla controcultura americana della fine degli anni ’60 e sulle sue ricadute nel mondo anglofono dei primi anni ’70, paragonabile, se vogliamo, alla contemporanea influenza esercitata da Arcipelago Gulag (1973) di Aleksandr Solženicyn sui giovani di sinistra nell’Europa occidentale. Molti membri della generazione dei baby boomer condividevano infatti la medesima storia sociale di Paul: cresciuti in una cultura di privilegi e, una volta adolescenti, spinti a “rifiutare” quella stessa cultura per qualcosa da loro ritenuto più “autentico”, hanno indirettamente messo in discussione varie strutture del potere politico, anche se solo temporaneamente.
Inoltre, il libro ha sempre avuto un fascino particolare anche per i giovani delle generazioni successive poiché riecheggia la riflessione di Sabina Spielrein sull’infanzia e sull’adolescenza intese come avventura eroica, dove il bambino si allontana dai genitori e crea un “mondo fantastico” interiore in cui agisce in qualità di esploratore e conquistatore. Tale scenario mentale è al centro anche dell’opera di Herbert: il protagonista fa certamente tesoro degli insegnamenti di genitori e maestri, ma alla fine matura solo dopo aver compreso la propria unicità. Inoltre, attraverso le dinamiche che sovrintendono il rapporto tra Paul e Jessica, lo scrittore ha forse creato uno dei primi esempi di relazione promisuca tra madre e figlio all’interno della narrativa moderna di genere.
Conan il barbaro [Conan the Barbarian, John Milius, 1982]
Terminator 2 – Il giorno del giudizio [Terminator 2: Judgment Day, James Cameron, 1991]
Una critica che lettori e spettatori hanno storicamente mosso sia ai libri che ai loro adattamenti cinematografici è stata che, narrativamente, sembrano poco riusciti nel ritrarre il fattore “umano” – “umano” dal momento che un’opera di finzione presenta soggetti ai quali potersi “relazionare” o situazioni con cui ci si può “identificare”. Eppure la storia si svolge in un futuro molto lontano, radicalmente diverso dal nostro presente. Si tratta di uno scarto importante rispetto alla maggior parte della fantascienza contemporanea, i cui “racconti esemplari” sono spesso ambientati in “un futuro non troppo lontano”. Una cosa da tenere in mente è che i personaggi di Herbert sono esseri umani, sì, ma sono anche il prodotto di migliaia di anni di evoluzione accelerata, quasi steroidea, influenzata dalla manipolazione delle linee di sangue e da pratiche militari di condizionamento mentale. Gli esseri umani nel mondo di Herbert hanno acquisito poteri di telepatia, ipnosi e controllo mentale, ma anche una tecnologia che può proteggere una persona o una cosa dal rilevamento telepatico, notevoli abilità intellettive per eseguire complesse equazioni matematiche senza l’uso di computer, la capacità di manipolazione dei tratti del viso e della mano e anche la possibilità di rianimare i cadaveri. Allo stesso tempo, l’umanità è retrocessa culturalmente a uno stato simile a quello del Giappone feudale, dell’assolutismo monarchico dell’Europa del XVII secolo e del criptofascismo: intrighi di corte, veleno e contraccettivi usati come metodi di assassinio o di sabotaggio, violenze rituali tra eserciti mandati a morte da aristocratici rivali, potere politico clandestino esercitato da organizzazioni religiose, diffusa programmazione eugenetica, estrema liberalità riguardo al delitto d’onore e all’incesto e donne relegate ai ruoli di concubine e indovine.
La prima scena del film di Villeneuve — dove Jessica e Paul fanno colazione (un’invenzione della sceneggiatura) — racchiude la visione opprimente che Herbert ha del futuro: «Perché dobbiamo affrontare tutto questo [cerimonia/formalità/ecc. ]», chiede Paul, «quando è già stato deciso?» L’unica risposta di Jessica è: «Il rito». Questa allusione alla struttura istituzionale è quasi negata dall’uso della Voce – la manipolazione delle corde vocali da parte dell’oratore per influenzare immediatamente l’ascoltatore – nella stessa scena. In un momento dalle connotazioni quasi edipiche, la madre così si rivolge al figlio a proposito di un bicchiere d’acqua: «Se lo vuoi, fai che te lo dia». Jessica ha addestrato Paul all’uso della Voce, proibita tra gli uomini secondo l’insegnamento di Bene Gesserit. La scena suggerisce fino a che punto le istituzioni abbiano colpito le popolazioni e che cosa queste potrebbero fare per sovvertirle.
Dune si interroga su quanto gli esseri umani siano allo stesso tempo prodotti e servitori di varie istituzioni – culturali, politiche o di altro tipo – e forse una cosa che spiega la presunta inattendibilità di personaggi ed eventi nell’opera di Villeneuve è il modo in cui questi mantenga le differenze sociali del romanzo: come un melodramma dell’Europa della prima età moderna, nonostante la sua ampiezza il mondo di Dune è profondamente chiuso, ridotto a una manciata di famiglie aristocratiche in competizione tra loro per il potere. Si tratti di disuguaglianze tracciate in gran parte attraverso processi di legittimazione etnico-cultutali, che hanno lo scopo di nascondere le reali differenze sociali basate sull’economia. Il film affronta questo, a suo modo, trasformando la famiglia Harkonnen in uno stuolo di cattivi convenzionali che sembrano il prodotto del tardo capitalismo nordamericano.
L’insediamento della famiglia Atreides in qualità di supervisori apparentemente benevoli delle operazioni di estrazione della spezia su Arrakis – e la cappa di ottimismo che lo accompagna – fa venire in mente Joe Biden quando intende rassicurare i donatori della campagna milionaria nel giugno 2019 dicendo che «[…] nulla cambierà fondamentalmente». Se si dovesse “aggiornare” o “modernizzare” la storia di Herbert, tutte le casate rivali del film sarebbero un monolite malvagio, mentre si farebbe il tifo per i Fremen e i minatori della spezia come fossero eroi della guerriglia sfollati e senza diritti. Cosa avrebbe potuto pensare uno come Pier Paolo Pasolini (che più di chiunque altro amava le versioni contemporanee di narrazioni mitiche ambientate in paesaggi desolati e totalitari) del conflitto implicito tra gli strati sociali della vicenda? Pasolini ed Herbert produssero i loro lavori nello stesso periodo – dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’70 – e le loro opere erano, in varia misura, risposte alle strutture di potere foucaultiane presenti all’epoca in tutto l’Occidente. Pasolini avrebbe voluto che i Fremen e i minatori della spezia formassero una coalizione con l’esercito degli Atreides e i Sardukar in una rivolta contro il regime che li aveva messi gli uni contro gli altri (dato che anche gli esecutori della legge, secondo Pasolini, sono allo stesso tempo vittime di quelle strutture)?
Inoltre, si potrebbe vedere il mondo di Herbert – dove la violenza ritualizzata sembra essere l’unico mezzo per risolvere le controversie – come un universo basato sull’allontanamento del soggetto maschile dal materno, per esempio nella presunta “natura stregonesca” e ambivalenza di Medea e delle Bene Gesserit e nella somiglianza tra i destini di Edipo e Paul.
Il conflitto edipico emerge più nell’adattamento di Herbert operato da Villeneuve che in qualsiasi altro, e in particolar modo in una sequenza dopo l’attacco alla capitale di Arrakis, Arrakeen, in cui Paul e Jessica si rendono conto che Leto è morto: Jessica, avendo perso il proprio partner sessuale, si avvicina psichicamente a suo figlio. Rabbrividisce quando lui la tocca, se non altro per allacciarle la tuta. È a questo punto della narrazione che i due cercano i Fremen nel deserto, e dove la “vicinanza” tra la figura materna e la prole assume gli elementi del transitivo (“più vicino” alla loro destinazione) e dell’intransitivo (“più vicini” l’uno all’altra). Il fatto che il film nelle scene seguenti faccia capire che Jessica è incinta della secondogenita Alia aggiunge un’altra dimensione, dato che Paul prende il posto Leto come figura paterna.
Edipo re (1967) di Pier Paolo Pasolini
Dune
Si consideri anche uno scambio all’inizio del film tra madre e figlio, in cui Jessica confessa a Paul gli obiettivi dell’organizzazione Bene Gesserit, esplicitando il divario tra i suoi obblighi verso le sua famiglia biologica e quella “istituzionale”. La scena si svolge in una fitta nebbia, non dissimile da quella di una sequenza nel Deserto rosso di Michelangelo Antonioni (1964).
Il deserto rosso
Dune
Un film che affrontasse i temi politici o sessuali di Herbert alla maniera di Pasolini o Antonioni sarebbe però come un remake di Lo squalo [Jaws, Steven Spielberg, 1975] raccontato dal punto di vista dello squalo. Pertanto, Villeneuve deve attenersi a codici narrativi mercificabili. Il pubblico deve pertanto privilegiare la casa aristocratica “buona” rispetto a quella “cattiva”. Per i lettori più esperti dei libri di Herbert, tuttavia, questo è discutibile, considerando ciò che alla fine accadrà alla famiglia Atreides; e se Warner Brothers e Legendary Pictures sperano di realizzare un blockbuster con il film di Villeneuve, avranno una sorpresa con l’adattamento del secondo libro de Il Ciclo di Dune, dal titolo Messia di Dune, ambientato dopo una crociata di dodici anni guidata da Paul attraverso centinaia di pianeti in cui perdono la vita diversi miliardi di persone e che termina con il protagonista che abbandona la sua prole. Paul non è il tipico “eroe”.
Tuttavia, il Dune di Villeneuve si distingue per come affronti il tema del colonialismo. Proprio come Pasolini aveva tentato di combinare testi antichi con l’etnografia nelle opere girate in Africa, India e nella penisola arabica, Villeneuve si avvicina all’immaginario Arrakis con una sensibilità simile, girando in gran parte ad Abu Dhabi e in Giordania. Si pensi anche al cortometraggio di Villeneuve Terre des hommes del 1990, episodio del programma televisivo del Quebec La course destination monde, che aveva inviato registi in erba all’estero per effettuare filmati etnografici e la cui premessa era quella di sensibilizzare il mondo sulle persone povere e sulle popolazioni di sfollati (l’episodio di Villeneuve utilizza per inciso la musica di Dune [id., 1984] di David Lynch come colonna sonora). Il film del 2021 ricrea anche un’inquadratura di Terre des hommes.
Terre des hommes
Dune
Il casting per i Fremen è significativo, poiché quasi tutti i ruoli parlanti sono occupati da attori di origine nera africana o ispanofona. Il film di Villeneuve evita le questioni legate alla “rappresentazione” per riconoscere tutte le popolazioni sfollate come una forza di base da non sottovalutare, essendo i Fremen un analogo degli oppressi dimenticati dalle forze sociopolitiche (cioè capitaliste, imperialiste, colonialiste, ecc.); un mondo al quale, dopo aver esaurito tutti i canali diplomatici “appropriati”, non resta che una rivoluzione violenta. Nella visione di Herbert, la colonizzazione e le sue conseguenze non sono basate sulla capacità degli umani di mobilitare macchine e armi, ma di armare la religione e distruggere le economie. Potrebbe non sorprendere, quindi, che Dune fosse il libro preferito da Osama bin Laden quando era studente universitario. Sulla scia dell’attacco al World Trade Center nel 2001, Bin Laden era stato citato quando aveva detto che l’obiettivo di al-Qaeda con l’attacco era di esaurire lentamente l’economia degli Stati Uniti, che sprona il governo a incanalare sempre più denaro, oltre $8 trilioni negli ultimi due decenni, nelle guerre all’estero.
Dr. Kynes in Dune
Si tratta comunque di un aspetto marginale rispetto al vero obiettivo dell’operazione: riuscire ad adattare sullo schermo un romanzo “infilmabile”. Josh Brolin ha rivelato in una conferenza stampa dopo la prima al Festival del cinema di Venezia che al cast e alla troupe era stato sconsigliato di parlare del film con i fan dei romanzi di Herbert, probabilmente nel tentativo di ottenere un pubblico globale interessato o quantomeno incuriosito anche se non a conoscenza di un libro di quasi sessant’anni. Il battage pubblicitario ha cercato più di attingere a un mercato di spettatori abituati agli spettacolari cinecomic che hanno monopolizzato il cinema nell’ultimo decennio (che deve necessariamente rivolgersi prima ai mercati asiatici, poi ai mercati nazionali) piuttosto che alla “maggioranza silenziosa” dei devoti di Herbert di tutto il mondo (Dune è il romanzo di fantascienza più venduto di tutti i tempi).
Con questo in mente, Villeneuve quasi per necessità gioca con il sistema monolitico messo davanti a lui e, di conseguenza, il suo Dune mostra una sensibilità da artigiano – nella scenografia, nella fotografia e negli effetti visivi – che ricorda lo stato del cinema di genere realizzato oggi da autori di prestigio, avvicinandosi a Herbert nello stesso modo in cui Christopher Nolan si è avvicinato al soggetto omonimo in Batman Begins [id., 2005]. Il film di Nolan, nel bene e nel male, ha codificato il modo in cui lo studio system americano “re-immagina” la cultura pop: più elegante, più oscuro, più serio e più importante. Allo stesso tempo, si dovrebbe riconoscere l’influenza di vari illustratori di copertine dei tascabili di fantascienza pubblicati negli anni ’60 e ’70 – in particolare John Schoenherr, i cui dipinti e disegni sono apparsi in The Illustrated Dune nel 1978 – sulle immagini di Villeneuve, così come gli standard estetici proposti per la prima volta dal cinema con Minority Report [id., 2002] di Steven Spielberg. Alla sua uscita, Minority Report è stato elogiato per un’estetica particolarmente chiara e nitida, con i critici che hanno associato queste qualità a una visione “ottimistica” del futuro. Ciò in contrasto con un film, anch’esso basato su una storia di Philip K. Dick, sporco e “pessimista” (anche se molto più colorato) come Blade Runner [id., 1982] di Ridley Scott. Il look è stato poi codificato da Inception [id., 2010] di Nolan e Prometheus [id., 2012] dello stesso Scott: ambienti minimalisti, quasi come nell’architettura brutalista, moderni, resi in una tavolozza con una gamma cromatica limitata. La fotografia di Greig Fraser per Dune rientra in questa tavolozza.
Disegno realizzato con inchiostro e pennino da John Schoenherr per The Illustrated Dune
Dune
È bene che lo spettatore sappia, tuttavia, che questa non è un’estetica distintamente “americana” o addirittura “occidentale”, poiché è stata stabilita dai cineasti di origine polacca che lavorano nel sistema degli studi americani dai primi anni ’90, in particolare Janusz Kamiński, che ha girato Minority Report, e Dariusz Wolski, che ha girato Prometheus. Kamiński — nato a Katowice ma educato negli Stati Uniti — e Wolski — un allievo della venerata scuola di cinema di Łódź — sono entrambi della generazione cresciuta con i film Wolfen ORWO acquistati nel blocco orientale dopo gli anni ’60 — spesso bollati come “Sovkolor” o “Polkolor”, che tendevano ad accentuare i colori “freddi” come blu, argento, grigio, verde acqua, verde, turchese, ecc. Questo look divenne sinonimo di “sovietico” o di “Europa orientale” (e, implicitamente, “distopico”) nell’ambito dei film di fantascienza, in particolare Solaris [Солярис, 1972] di Andrei Tarkovsky, Sul Globo d’argento [Na srebrnym globie, 1977] di Andrzej Żuławski e O-Bi, O-Ba: The End of Civilization [O-bi, o-ba: Koniec cywilizacji, 1985] di Piotr Szulkin.
Sul globo d’argento, fotografia di Andrzej Jaroszewicz
Minority Report, fotografia di Janusz Kamiński
Prometheus, fotografia di Dariusz Wolski
Dune, fotografia di Greig Fraser
Questo aspetto era in contrasto con quello dei titoli americani, che storicamente basavano la loro tavolozza di colori sulla California meridionale (ironico, quindi, che Guerre stellari di George Lucas si fosse appropriato così tanto dell’immaginario anti-utopia di Frank Herbert, Stanislaw Lem, Robert Heinlein e altri, utilizzando le convenzioni visive stabilite dalla USC Film School). Le vestigia dell’aspetto “sovietico” sono emerse nel cinema americano dopo il crollo del blocco orientale nel 1989, quando i cineasti, per lo più polacchi e della “scuola di Łódź”, trovarono lavoro a Hollywood: Andrzej Bartkowiak, ad esempio, riuscì a rendere il sud della California “freddo” e “sterile” con Speed [id., Jan de Bont, 1994] e Specie mortale [Species, Roger Donaldson, 1995].
Il film di Villeneuve si colloca, a questo proposito, in quel gruppo di riletture hollywoodiane perverse e superficiali della fantascienza sovietica che hanno assorbito l’aspetto e lo stile di quest’ultima senza comprenderne completamente lo scopo. Lo si vede anche nel design generale della produzione che ha ridotto gli oggetti cinematografici a forme geometriche: lo spazio e gli aerei, che a volte hanno una forte somiglianza con i monumentali memoriali di guerra di tutta l’Europa orientale, e la città e il torrione di Arrakeen, che deriva sia dalla progettazione degli edifici Brut che dalle antiche strutture di Giza e Teotihuacán.
La musica da film di Hans Zimmer ha seguito lo stesso percorso. Dai primi anni 2000, le opere di Zimmer si sono sempre più incentrate sull’instillare un senso di urgenza o immediatezza (musica “contingente” che accompagna l’azione sullo schermo) nello spettatore, piuttosto che stabilire un’atmosfera o un tono per una scena particolare. I temi romantici e tragici del Re Leone [The Lion King, Rob Minkoff, Roger Allers, 1994] e Allarme rosso [Crimson Tide, Tony Scott, 1995] sono stati soppiantati da strepiti e sobbalzi di percussionisti che sembrano più adatti ai trailer che ai film veri e propri. Sappiamo da un incontro del 2003 tra Zimmer e John Carpenter nel programma televisivo tedesco Durch die Nacht mit… che Zimmer ha ammesso di aver “preso in prestito” molti dei temi di Carpenter, a cominciare dalla colonna sonora per il suo Distretto 13 – Le brigate della morte [Assault on Precinct 13, 1976], rivelando di aver adottato negli ultimi anni una struttura da rock music basata su percussioni e distorsioni piuttosto che sulla melodia. La musica di Dune, pur presentando occasionalmente un sorprendente assolo di duduk o toni da industrial drone music, si rifà ai cori composti da Carpenter e Alan Howarth per Il signore del male [Prince of Darkness, 1987], così come a una variazione del tema di Maurice Jarre da Lawrence d’Arabia [Lawrence of Arabia, David Lean, 1962], e, di nuovo tornando nell’Europa dell’Est, alle percussioni e agli organi dei compositori d’avanguardia György Ligeti e Krzysztof Penderecki.
Tuttavia, la distanza estetica stabilita dalla fotografia quasi distopica di Fraser e dalla musica atonale di Zimmer a suo modo è utile alla visione condivisa da Herbert e Villeneuve, quella cioé di una fantascienza “post-umana” più interessata al comportamento e ai rituali sociali che alle astronavi e ai combattimenti con la spada. In tutta onestà, questo è un tema che ha interessato in diversi modi Villeneuve nell’ultimo decennio. I suoi film Enemy [id., 2013], in cui un istruttore universitario incontra un uomo che gli somiglia alla perfezione, e Blade Runner 2049 [id., 2017], in cui gli androidi sono apparentemente in grado di riprodursi sessualmente, mettono entrambi in discussione la nozione di identità biologica. Dune dipinge una civiltà praticamente aliena popolata da esseri umani legati da strutture sociali che costringono il loro comportamento nel recinto di un rigido teatro performativo, esprimendo uno degli interrogativi principali della cosiddetta “fantascienza speculativa”: perché gli spettatori devono sempre “vedere se stessi” nei soggetti e nelle convenzioni narrative proposte dal genere, quando potrebbero semplicemente considerare il mondo rappresentato come un fenomeno separato da loro?
Sanjuro in La sfida del samurai [用心棒, Akira Kurosawa, 1961]
Duncan Idaho in Dune
Nonostante ciò, l’adattamento di un romanzo come quello di Herbert incoraggia una sensibilità artigianale tipicamente hollywoodiana. I titoli di testa dell’adattamento cinematografico di Jean-Jacques Annaud de Il nome della rosa [The Name of the Rose, 1986] presentano una scritta che recita «Un palinsesto del romanzo di Umberto Eco», che significa che il film fornirà solo un’impressione di una fonte letteraria molto più densa. Anche il film di Villeneuve è un palinsesto, che lavora in modo simile per ridurre le scene alla loro essenza mentre riempie i margini con forme architettoniche brutaliste e filmati di location certamente grandiose (di nuovo, Pasolini avrebbe ammirato i paesaggi girati attraverso la regione del Golfo Persico). Nella stessa chiave, entrambi i film non si preoccupano troppo della “fedeltà” al testo di partenza, poiché tale nozione trascura le differenze fondamentali tra i due media. A parte la descrizione occasionale di un paesaggio («… potrebbe essere un luogo orribile»), un tratto facciale («elfico») o un capo di abbigliamento (il giallo come colore del lutto), non c’è quasi nulla di “cinematografico” nel romanzo del ciclo di Herbert: la grande estensione e ampiezza del suo mondo è lasciata per lo più all’immaginazione del lettore. C’è relativamente poco dialogo, gran parte della narrazione avviene nella mente dei personaggi («…lei/lui pensava»), e, come nel dramma greco antico, lo “spettacolo” della violenza bellica è spesso citato a posteriori.
Tutto questo, per la maggior parte, va contro gli stereotipi del cinema narrativo. Confrontando il film di Villeneuve con la versione di Lynch del 1984, si scopre che quest’ultima è fondamentalmente diversa dal libro sotto molti aspetti, in particolare per il finale e per certe libertà prese per sfruttare l’uso del suono (l’invenzione dei “moduli estranianti”), ma riprende gli aspetti “letterari” del libro riguardo ai pensieri e alle motivazioni dei personaggi. D’altra parte, il film di Villeneuve spesso elude l’imbarazzante ricorso al monologo interiore e al dialogo espositivo incorporando i vari “linguaggi di battaglia” crittografati dei libri, sia parlati che nei segni.
Battaglia del linguaggio in Dune
Ciò che emerge non è tanto una questione di giudizi di valore, ma di quali “momenti” o “temi” un cineasta sappia “isolare” dalla fonte letteraria. Chiedersi se la versione cinematografica di Don Siegel di I gangsters di Ernest Hemingway del 1964 sia “migliore” di quella di Robert Siodmak del 1946 (o di Andrei Tarkovsky del 1956) è probabilmente la domanda sbagliata. Si fa anche la domanda sbagliata nel considerare se il film di Villeneuve avrà la stessa “data di scadenza” del film di Lynch. È difficile dire se il pubblico si sentirà o meno obbligato a tornare a vedere il film di Villeneuve tra quattro decenni da oggi. William Friedkin ha detto nel 2008: «Se rifacessimo L’esorcista [The Exorcist, 1973] ora, il film [gli effetti visivi] sarebbe un gioco da ragazzi… e sarebbe noioso da morire.» Se la storia della cultura visiva insegna qualcosa, è che un prodotto culturale – un film, un dipinto, un mobile, un edificio, un capo di abbigliamento, ecc. – alla fine rivelerà meno sull’artista che lo ha realizzato e più sulla cultura in cui l’artista ha lavorato. Secondo Michael Baxandall, tale prodotto è un «deposito di una relazione sociale», poiché deve la sua posterità alle forze di mercato che hanno permesso la sua produzione. Proprio come il film di Lynch era un prodotto del suo tempo – le produzioni “ambiziose” di Dino de Laurentiis, la disperata corsa alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 per capitalizzare il successo di Guerre stellari – così è quello di Villeneuve nel modo in cui è forgiato sullo stampo degli studios negli ultimi due decenni: l’onnipresenza del digitale e la dipendenza quasi totale dalla CGI, gli sforzi per stabilire i poli del franchising e un’insistenza eccessiva sulla propria natura allegorica.
Lo spettatore rimane quindi – non solo con l’adattamento di Villeneuve ma anche con quelli che lo hanno preceduto – con una sorta di singolarità: un’anomala vetrata che si affaccia su un mondo “alieno” impossibile da interpretare con gli strumenti della semiotica o della contemporaneità. Non si guarda un’epopea di Kurosawa ambientata tre secoli fa, ad esempio, per trovare necessariamente un terreno intellettuale comune con le istituzioni culturali del Giappone feudale. Sergio Leone ha detto una volta riguardo al suo film C’era una volta in America [Once Upon a Time in America, 1984]: «Volevo creare un mondo, un mondo plausibile, ma che permettesse al mito di esistere. Il mito è tutto». Villeneuve si è avvicinato a quel mito per i devoti di Herbert, se non altro all’interno dei limiti estetici che le forze istituzionali gli hanno posto dinanzi in questo particolare momento.
Traduzione italiana dell’articolo (originariamente apparso in inglese su https://henridecorinth.wordpress.com/) a cura di Lorenzo Baldassari, Alberto Libera e Nicolò Vigna.