Il cinema di Matteo Garrone è, per sua natura, ambiguo. I suoi film, pur prendendo le mosse da presupposti realistici, dalla quotidianità o da fatti di cronaca, a volte imboccano percorsi inaspettati che possono sconfinare nell’immaginifico. Che il suo cinema ponesse le proprie basi sull’enigmaticità di un reale che dialoga col fantasmatico, d’altronde, era chiaro fin dai primi film: nei suoi torbidi mélo, L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2004), l’interesse per una corporeità estremamente fisica, epidermica, faceva i conti con una rappresentazione quasi immateriale, astratta, mentale.
Negli anni, tale dicotomia si è estesa sempre più, coinvolgendo il reale in tutti i suoi aspetti. Ci riferiamo, ad esempio, a film come Gomorra (2008), opera che, come scrive Franco Marineo, è «capace di prendere la patina più intimamente neorealista […] e di proiettarla dentro una dimensione più astratta, quasi sospesa dall’urgenza della realtà.»1 Oppure, ad un film come Reality (2012), immerso fin dal titolo nel paradosso di una realtà urbana (nuovamente, quella napoletana) che «sogna ad occhi aperti» il mondo fittizio del reality televisivo; il tutto, per di più, inscritto in una cornice favolistica tutt’altro che ancorata al reale – pensiamo all’incipit della carrozza che conduce gli sposi al matrimonio. Viceversa, Il racconto dei racconti [Il racconto dei racconti – Tale of Tales, 2015], che proprio dal mondo delle fiabe trovava la sua fonte d’ispirazione primaria, col passare dei minuti si trasfigura in una rappresentazione cinematografica brutale e violenta, di un realismo inedito per l’universo fantastico che vorrebbe rappresentare.
Nell’ordine: Primo amore, Il racconto dei racconti e Reality.
La natura complessa, essenzialmente doppia, che caratterizza il cinema garroniano trova un’ulteriore conferma nel recente Dogman (2018), vincitore a Cannes per la migliore interpretazione maschile.
Prendendo spunto da un fatto di cronaca nera, Garrone realizza un film in cui la duplice anima che contraddistingue la sua poetica – costantemente tesa fra naturalismo e illusione, fra realtà e fiaba, fra fisicità e astrazione – raggiunge qui una delle sue sintesi più riuscite. A monte vi sono due personaggi, Marcello e Simone, freaks contemporanei tra i quali si instaura quel fassbinderiano rapporto di forze che già aveva caratterizzato un film come L’imbalsamatore. Non solo. Garrone, attraverso una regia che, come vedremo, perfeziona ed estende le sperimentazioni già proposte in Reality, deforma filmicamente l’universo della periferia romana, utilizzando, in primis, proprio i «corpi» dei suoi due protagonisti – Marcello e Simone: il nano e il gigante – e i loro rapporti con lo spazio che li circonda.
Irreality
– Quando feci Gomorra, la prima cosa a cui pensai fu Paisà di Rossellini.
– Perché proprio lui?
– Perché, come diceva Fellini, era capace di re-interpretare la realtà attraverso la realtà stessa. Era contemporaneamente dentro e fuori di essa. Non riproduceva semplicemente l’esistente: lo ricreava.2
A uno primo sguardo, il film di Garrone più affine a Dogman potrebbe risultare sicuramente L‘imbalsamatore. Le due singolari figure di Simone e di Marcello richiamano, infatti, apertamente quelle di Valerio e Peppino. E come nel film del 2002, il loro confronto si basa, in primis, su di un rapporto differenziale di corpi: uno alto, robusto, massiccio, l’altro minuto, scavato, emaciato. D’altronde, Simone e Marcello potrebbero assomigliare ad una coppia proveniente dalla commedia slapstick, il cui registro comico si basava proprio sulla sproporzione fisica fra gli attori – basti pensare a Stan Laurel e Oliver Hardy –, ma ricollocata in un contesto profondamente diverso: quello deprimente e angosciante della Magliana di fine anni Ottanta. Come avviene anche in Reality, dunque, l’aspetto grottesco del film è sottolineato innanzitutto dai corpi eccentrici degli attori, sproporzionati tanto fra loro quanto nei confronti del mondo che li circonda. Ciò segna un primo scarto con L’imbalsamatore, nel quale il registro grottesco era decisamente meno presente.
Marcello e Simone.
Marcello al lavoro. La scena è grottesca per via della sproporzione tra il corpo minuto dell’uomo e quello gigantesco del cane.
A differenza de L’imbalsamatore, poi, Dogman non prosegue fedelmente i paradigmi del melodramma, soprattutto per quanto concerne la questione – fondamentale nel mélo – del desiderio fisico. Infatti, per quanto alcuni elementi possano evocare un’attrazione sessuale tra i due protagonisti – pensiamo alla sequenza in discoteca, durante la quale la regia suggerisce l’idea che Marcello e Simone stiano ballando assieme, nonostante la ragazza fra loro –, ci sembra piuttosto che l’interesse di Garrone si concentri sullo spaccato sociale e urbano che vuole rappresentare, fatto di una umanità arida, meschina e profondamente isolata. Un altro punto di contatto, questo, con il più recente Reality.
La sequenza in discoteca sembra suggerire un ménage à trois tra i personaggi.
A questa visione sconsolata dei rapporti umani nessuno si salva, nemmeno il mite Marcello, dotato di una brutalità non inferiore a quella del suo gigantesco aguzzino. Lo mostra chiaramente la prima sequenza del film, in cui il canaro lava con disinvoltura – verrebbe quasi da aggiungere: con la sadica superiorità di chi sa di avere l’assoluto controllo della situazione – il molosso incatenato alla parete. Non è questa, in fondo, una dichiarata anticipazione di una delle scene finali del film, quando Marcello imprigionerà Simone nella sala per la toelettatura dei cani, torturandolo a morte?
Perché, in Dogman, a muovere i personaggi non è di certo l’amore o il desiderio sessuale ma il bieco interesse personale, il puro egoismo; una lotta bestiale (il titolo, dog-man, è d’altronde emblematico) per la sopravvivenza – e, perché no?, magari per ricavare qualcosa in più. Marcello si fa rinchiudere in prigione, tacendo sul vero colpevole della rapina, non tanto per proteggere il suo amico, quanto con la speranza che, una volta libero, possa ricevere la sua parte di bottino. La regia di Garrone esplicita queste tensioni, questi istinti animaleschi, attraverso un sapiente uso degli spazi che, come anticipavamo, portano avanti i risultati ottenuti col precedente Reality.
Nel film del 2012, Garrone ci mostrava il progressivo allontanamento dalla realtà del protagonista attraverso l’uso della semi-soggettiva, pratica che, come nota Lorenzo Baldassari3, poco alla volta diminuiva sempre più la profondità di campo, escludendo così Luciano dal mondo circostante. A ciò si sommavano i precisi movimenti di macchina a mano, che separavano il pescivendolo dagli altri personaggi.
La discesa nella follia di Luciano corrisponde a una radicale diminuzione della profondità di campo. La macchina da presa, nel film, è spesso posizionata vicino alla nuca del personaggio.
Si tratta, invero, di modalità di ripresa frequenti non solo nel neorealismo italiano, a cui Garrone dice di ispirarsi (lo zavattiniano pedinamento della realtà), ma anche nel cinema di un maestro assoluto nella rappresentazione della dissociazione mentale: Roman Polanski. Da Repulsion [id., 1965] a Quello che non so di lei [D’après une histoire vraie, 2017], passando per gli imprescindibili Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York [Rosemary’s Baby, 1968] e L’inquilino del terzo piano [Le locataire, 1976], il regista polacco ha perseguito un’idea di cinema «allucinatorio» basato essenzialmente sulla coincidenza tra il punto di vista della macchina da presa, spesso manovrata a mano, e lo sguardo di personaggi mentalmente disturbati4. Nel cinema italiano contemporaneo, poco interessato a tali sperimentazioni linguistiche, pratiche simili di focalizzazione sono relegate a isolati casi di cinema d’autore – tra gli esempi più riusciti, ci viene in mente il sottostimato Hungry Hearts (2014) di Saverio Costanzo. Ma è forse proprio Garrone a raggiungere i risultati più interessanti. In Dogman, infatti, tali modalità di ripresa, sommate alla fotografia pittorica di Nicolai Brüel, forzano la realtà diegetica, rendendola astratta, espressionista: un incubo di solitudini – pensiamo alle immagini del finale onirico, che riprende direttamente quello nella casa del Grande Fratello in Reality – nel quale gli «altri» divengono fantasmi irraggiungibili. Qui, ormai, la macchina da presa non ha più una sua indipendenza: non solo non può allontanarsi dalla nuca di Marcello, né abbandonare la sua visione distorta della realtà.
La macchina da presa asseconda, dunque, il punto di vista di Marcello. La sua visione «dal basso» (tanto per via della sua costituzione fisica, ma anche a causa della propria condizione sociale) crea una prospettiva non solo limitata ma anche deformata del mondo circostante. In particolare, Simone, agli occhi dell’amico canaro, appare come un gigante, venendo sovente tagliato nella parte alta della inquadratura. La macchina da presa, sposando il punto di vista di Marcello, è disposta sempre troppo in basso per conferire un’esaustiva visione d’insieme. Essa muove dal volto dell’uomo per poi spostarsi nello spazio circostante, ma attraverso dettagli o visioni che parcellizzano il mondo senza restituirne la complessità – o, come nel caso di Simone, la sua figura intera.
Nel film, Simone è “introdotto” dallo sguardo di Marcello, che guarda in alto, verso sinistra, in fuori campo. La macchina da presa indugia a mostrarci il volto di Simone, che risulta invisibile per diversi istanti.
Un altro esempio di come la regia si identifichi col punto di vista di Marcello, con la sua visione “dal basso”.
Dogman si affida, infatti, ad un sapiente uso del fuori campo: una diretta conseguenza delle semi-soggettive adottate. A rafforzare questa scelta poetica interviene, poi, il sonoro, per lo più diegetico e fuori campo (off-screen sound), che insiste proprio sui limiti dell’inquadratura, conferendo tensione alla maggior parte delle sequenze. I pugni di Simone, che si abbattono violenti tanto sulle persone quanto sugli oggetti, risuonano mostruosi alle orecchie di Marcello (e, ovviamente, a quelle dello spettatore). Nel mentre, i latrati dei cani, imprigionati nelle proprie gabbie, fanno da coro a quelle violenze, che l’occhio dello spettatore, in questo gioco di ombre, non può vedere ma solo intuire.
Simone, imprigionato in una gabbia, cerca di uscire. Della scena non vediamo quasi nulla, ma i gesti di rabbia si riflettono sul sonoro, nel volto di Marcello e nel terrore dei cani: un mirabile esempio di tensione creata dal fuori campo.
Perché Dogman è un film di oscurità; un noir contemporaneo dai tratti fantastici e orrorifici. Non stupisce, allora, che il volto di Simone sia spesso e volentieri avvolto nel buio. Raramente ne possiamo scorgere i tratti somatici. Questo, perché egli è davvero una figura fantastica, un orco (ricordate Il racconto dei racconti?); un doppio mostruoso di Marcello nel quale specchiarsi e sul quale vendicarsi per i torti subiti nella società deprimente in cui vive.
Ed è nuovamente nel buio che Marcello viene letteralmente risucchiato poco dopo l’omicidio commesso all’interno del proprio negozio. Una breve scena questa, quasi lynchana5, che preannuncia la discesa definitiva nella folle solitudine del nostro eroe; nel buio della propria mente.
Il nano e il gigante, dicevamo. Ma i ruoli fantastici che assumono i due personaggi sono altresì reversibili. Dopo aver ucciso Simone, Marcello trasporta il corpo morto del suo amico a spalla. Avviene qui, infine, una immaginaria ed improbabile inversione di forze, che segna un ulteriore passo verso un «fantastico cinematografico» – nonché verso la follia. Nel finale di Dogman, infatti, il nano diventa l’eroe che ha abbattuto il gigante, e che può trasportarlo, ora, sulle proprie spalle. Si tratta di un’immagine inverosimile, ma che l’occhio dello spettatore può infine accettare. Perché il suo è l’occhio, ormai folle, di Marcello.
NOTE
1. Franco Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Einaudi, Torino, 2014, p. 197.
2. https://www.huffingtonpost.it/2018/05/27/viviamo-in-un-nuovo-medioevo-intervista-a-matteo-garrone_a_23444481/
3. Da una conversazione personale.
4. Sulla questione, si consiglia la lettura del Castoro dedicato al regista, a cura di Alberto Scandola.
5. Sul valore del buio nel cinema di David Lynch, rinviamo all’articolo dedicato a INLAND EMPIRE presente sul sito.