Marlene Dietrich/Greta Garbo. X-27/Mata Hari. Josef von Sternberg/George Fitzmaurice. Ma bisognerebbe dire: prima e dopo il codice Hays, prima e dopo la censura, prima e dopo la cancellazione del corpo della donna nel cinema hollywoodiano, benché tutti e due i film, Disonorata [Dishonored, 1930] e Mata Hari [id., 1931] portino la data del 1931. Il fatto è che di Mata Hari conosciamo solo la copia censurata, ristampata attorno al 1934 in pieno vigore del codice Hays, dove sembra che la Garbo, nel ruolo di spia e danzatrice esotica (erotica) quasi non abbia corpo, perfino quando balla seminuda a teatro, davanti alla statua di Shiva dalle cento braccia. Di lei vediamo, a parte il volto, solo i costumi disegnati da Adrian, che sembrano progettati apposta per nascondere ogni ricordo di ciò che ricoprono (sarà davvero solo l’effetto del codice di autocensura?).

mata hari greta garbo danzaGreta Garbo in Mata Hari.

I costumi disegnati da Travis Banton per Marlene, invece, sotto la supervisione di Sternberg, hanno un’altra funzione: nascondono per evidenziare. Evidenziare cosa? Il corpo di Marlene in quanto oggetto di desiderio fallico, non etereo né sublimato. Quello che Marlene indossa, almeno nei film girati con Sternberg (ma non solo), è sempre un corpo-costume, un costume che fa corpo col corpo, anche quando la ricopre interamente, come il costume da gorilla di “Hot Woodoo” (in Venere bionda [Blonde Venus, 1932]).

hot voodoo venere bionda blonde venus sternberg dietrichMarlene Dietrich in Venere bionda.

Anni fa, sul n.1 della rivista “Fiction” (estate 1977), nell’articolo “Il corpo della donna. Su quattro fotogrammi di Disonorata”, Ellis Donda si interrogava sul rapporto tra piacere e interruzione, a proposito del bacio tra X-27 e la presunta spia, interrotto da una chiamata al telefono appositamente predisposta. Donda notava anche che il desiderio fallico, sulla scorta di Lacan, è sempre pronto a denigrare il corpo della donna come veicolo d’inadeguatezza, che le impedisce d’essere qualcosa di più d’un corpo; ma il corpo di Marlene gioca ufficiali e agenti segreti, spie e registi (mettendo tacitamente in dubbio anche il fasullo von di Sternberg), imponendosi come altro enigmatico e sfuggente, perfino nel momento dell’apparente sconfitta (la fucilazione).

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Anzi, è lì che trionfa, nella sconfitta, quando suona il suo pianoforte e indossa il suo costume da passeggiatrice, come quando non serviva un’astrazione come l’impero austriaco, ma i suoi compatrioti, e si aggiusta il trucco, specchiandosi nella spada sguainata del giovane tenente, molto più emozionato di lei e alla fine incapace di ordinare “Fuoco!”.

disonorata recensione dishonored sternberg dietrichIl finale di Disonorata.

Nel nodo lacaniano che, ad ogni inquadratura, collega Marlene ai suoi partner maschili, a quelli femminili, nonché al partner più tirannico, amato e tradito (Sternberg), tra le follie che si rendono possibili in una lavanderia cinese (o a Hollywood), bisogna tener presente l’impatto della luce sui corpi vivi e insieme l’avvento cinematografico del parlessere 1. Il corpo filmico, già esposto dal dispositivo stesso al pericolo di svanire, di farsi mero simulacro, ombra inconsistente, per Sternberg ha un vitale bisogno della luce, benché attirato a volte anche dalle suggestioni dell’ombra, ma in fondo riceve nuovi stimoli dall’avvento della voce. Già dal 1929 se n’era accorto Pirandello, sia pure su un piano negativo, scrivendo per il “Corriere della Sera” quel famoso articolo (“Se il cinema parlante sostituirà il teatro”), in cui tra l’altro  si scagliava, sbagliando sì, ma fino a un certo punto,contro l’effetto straniante esercitato dal sonoro sulle immagini:

Perché la voce è di un corpo vivo che la emette, e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro, ma le loro immagini fotografate in movimento;  perché le immagini non parlano: si vedono soltanto; se parlano, la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qualità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il meccanismo. 2

Sternberg, come tanti altri registi in quel periodo, si trova dunque di fronte al problema di far parlare (o cantare) le ombre, senza distruggere l’illusione della loro consistenza. Era quello che non riusciva a fare il regista Max von Mayerling (Stroheim, altro pseudo-von) con Norma Desmond in Viale del tramonto [Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950], ma Sternberg ne sapeva di più: la voce di Marlene appartiene viva e profonda al suo corpo, nella misura in cui il suo corpo è costume, costume che fa corpo, travestimento, mascherata. Allora Marlene, camuffata da cameriera di campagna, arrampicata in cima a una stufa, in una Russia ricostruita in studio, può sedurre la vittima di turno senza parlare, ma imitando addirittura il miagolio d’un gatto. X-27 non solo ha un gatto (nero), ma si fa gatto. Può farsi gatto, nel gioco continuo delle metamorfosi, che riguardano lei, ma anche Austria e Russia reinventate a Hollywood da Hans Dreier, per conto della Paramount. Scontri di opposti imperialismi, conteggi cinici del numero dei morti, guerra di codici  e di servizi segreti. Inutili stragi, cui non ci si cura di aggiungerne altre, per ragioni “di sicurezza”.

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Contro ogni codice di autocensura, Sternberg apre Disonorata con un suicidio nel mondo delle prostitute a Vienna, e con un suicidio in fondo lo chiude: X-27 si fa fucilare, assumendo in pieno la sua natura di donna (lasciando fuggire Victor McLaglen). Il regista non taglia la scena (come farà Fitzmaurice con la Garbo). Filma Marlene che rotola a terra, morta, dopo che il giovane tenente ha gridato il suo sdegno per quell’uccisione e per tutte quelle che continuano a verificarsi sui campi di battaglia. Odioso e autoritario Strenberg, certo, terrore di attori e attrici, però brandiva al massimo un megafono, oppure una carabina per sparare palloncini, come racconta Giovanni Buttafava3. Geniale, e deciso a farsi odiare, come Stroheim, pur di raggiungere il successo – farsi odiare da Hollywood, ma incassare (finché durava) e farsi apprezzare da pochi eletti (da Borges, per esempio4).

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I palloncini volano, seguiti dai movimenti in verticale della macchina da presa, intrecciati a quelli orizzontali delle feste in maschera. Poi vengono fatti scoppiare, in un tripudio carnevalesco di coriandoli e stelle filanti. Bambole e bombolette oscillano nel vuoto, appese a fili, esposte a ogni soffio di vento, come le ragazze in gabbia del Capodanno cinese ne I misteri di Shanghai [The Shanghai Gesture, 1941]. La festa di Carnevale, anche in Disonorata, è un incontro di maschere, un incrocio di travestimenti. X-27, mascherata, getta coriandoli addosso a un tizio in omino nero, sulla cui maschera è ricamato un piccolo teschio, che siede sotto di lei. Quando suona l’inno imperiale il tizio non si alza in piedi. Marlene lo rimprovera, poi scopre che il tizio è un mutilato di guerra, per camminare ha bisogno di due stampelle. E’ un amico a porgergliele: il colonnello Hindau, la sospetta spia, colui che X-27 deve smascherare.

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Il rompicapo che i servizi segreti non riescono a risolvere è: chi passa le informazioni a Hindau? E soprattutto: in che modo gliele passa? Decine di perquisizioni segrete sono state inutili, come quelle mirate alla ricerca della lettera rubata di Poe. In effetti, il veicolo utilizzato consiste nelle sigarette (benché il colonnello non fumi!). I messaggi cifrati sono avvolti all’interno, in minuscoli rotoli, e Marlene se ne accorge proprio perché è un’accanita fumatrice ed è alla ricerca di qualcosa che nella casa d’un non-fumatore non dovrebbe esistere.
Il fumo d’una sigaretta diventa allora un segnale, l’equivalente segreto  d’una comunicazione scritta o verbale. Le maschere si avvicinano, si scambiano sberleffi a breve distanza, sotto forma di trombette o lingue di Menelik; ma il gioco è serio. Alla fine, comunque, disonorato è l’establishment, viennese o hollywoodiano che sia.

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Marlene si accende l’ennesima sigaretta; per spegnere il fiammifero, solleva la veletta del cappellino, che le scherma il viso, come si solleva un velo. Altri veli, qui e altrove, non mancherà di sollevare. Il materiale umano non risponde alla macchina da presa, dispositivo meccanico, ma all’occhio-lente implacabile del regista, permeato, come quello d’un mago-fotografo, da tutte le gradazioni della luce. La luce è tutto, come Sternberg, anche nei giorni finali più duri, ormai escluso ed emarginato dall’universo produttivo hollywoodiano, non si stancherà mai di proclamare.

NOTE

1. J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma, 2006.

2. L. Pirandello, “Se il film parlante abolirà il teatro”, in Il Corriere della Sera, 16 giugno 1929.

3. G. Buttafava, Josef von Sternberg, La Nuova Italia/Il Castoro, Firenze, 1976.

4. E. Cozarinsky (a cura di), Borges al cinema, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1979.