È il caso di proseguire questo diario non giornaliero con il primo film italiano notevole della Mostra (tra quelli da me visti): Il signore delle formiche (2022) di Gianni Amelio. Se consideriamo l’ultima parte della carriera del regista calabrese come una straniante anomalia rispetto agli inizi questo film incentrato sul processo (ma ancor più sugli antefatti) al filosofo e artista Aldo Braibanti è un’anomalia nell’anomalia.

Amelio mette in scena uno dei suoi film più eleganti e “classici”, senza sbavature oniriche o voli pindarici, affrontando uno dei nostri pensatori meno provinciali e più sperimentali, almeno nel secondo Novecento; e questo è già un primo paradosso. Certo sullo sfondo della dimora di Braibanti si intravedono le installazioni, le ricerche pittoriche, il peculiare interesse scientifico/mirmecologico (bizzarro in un paese che vive della contrapposizione netta tra umanisti e scienziati); ma sono appunto solo fondali alla vicenda amorosa, incidenti di percorso. Ad Amelio non interessa il genio, e forse neanche l’uomo, ma il principio, in base al quale direzionare la propria invettiva. Unico spazio anche se breve è conferito alla idea brabantiana del teatro, che – per semplificare, ma i suoi testi teorici in merito non sono così “banali” – viaggia tra Artaud, Bene, Brecht e il Living Theatre. Amelio dedica una scena a una sfuriata di Braibanti ai suoi allievi, dove insegna loro a snaturare l’interpretazione, “spezzare” il testo. Sembra una dichiarazione di poetica di un regista che negli anni si è fatto sempre più astratto (cfr. mio pezzo su Hammamet [2020]) e che “spezza” effettivamente la narrazione in microsezioni che hanno tutte un nucleo centrale forte. Messe assieme queste microsezioni creano a loro volta un’altra contraddizione, quella di un film “borghese”, classico, appunto; come se da un collage di brani di Artaud si potesse partorire Ibsen.

Nonostante la dichiarazione poetica l’ultimo Amelio rinuncia a molte delle astrazioni recenti, e rischia di gettare di nuovo in confusione lo spettatore, sballottato in questo cinema perennemente in movimento come idee e alterno nei risultati. I tagli di montaggio in momenti che parrebbero poco opportuni manifestano questa volontà di spezzare e al contempo donano una eleganza al film che evita la retorica, il piagnisteo e perfino le scene esplicite di bacio (e per far capire che non è reazionario pudore si parla tranquillamente di pompini). L’assenza di baci e i tagli bruschi ne fanno un film riflessivo e fortemente anticlimatico, come quando sembra che Ettore e Aldo stiano per baciarsi, una formichina (involontaria?) cammina sul colletto del mirmecologo e il regista lascia in sospeso l’azione. Amelio bypassa il sentimentalismo e restituisce il ritratto mesto, rassegnato, forse poco combattivo ma razionale di un paese capzioso e prepotente coi deboli (rivelatore, per quanto scontato, il monologo del giornalista interpretato da Elio Germano al primo colloquio col filosofo).

Le scene del processo sono relativamente poche e scarne; prevalgono primi piani a camera fissa che lasciano giudicare lo spettatore presentando idee e prospettive diverse. Una testimonianza in particolare raggiunge vertici tali da meritarsi una risata liberatoria (per quanto superficiale e pericolosa) dell’avvocato difensore, fuorifuoco, insistita e fragorosa. Infine il primissimo piano di Ettore (per una volta un ottimo esordiente: Leonardo Maltese), tremolante, vittima del mondo psichiatrico pre-Basaglia, che mantiene in piedi la dignità e la normalità del suo amore senza desistere. Gli omosessuali protagonisti non sono eroi e sono vittime solo in quanto si ritrovano a essere due persone incapaci di mentire se non tuttalpiù col silenzio, in un paese che richiede finta deferenza e incalza il ciarlare.

Nell’interpretazione di Luigi Lo Cascio è impossibile non ravvisare analogie con la figura di Pasolini: la parlata emiliana, la madre dal nome Susanna, personaggio dolente e tragico (altro caso di ri-nominazione significante come la Anita di Craxi in Hammamet?), la persecuzione giudiziaria, il disinteresse del Partito Comunista, del quale pure Braibanti era stato dirigente locale (oltre che essere ex partigiano).

Resta e forse resterà per tutti in sala un mistero l’enorme primo piano di Emma Bonino nella scena della protesta fuori dal tribunale; non la Bonino allora, che sicuramente si sarà spesa per fermare l’ingiustizia parafascista del momento, ma quella di oggi, un breve frame questo sì straniante e bizzarro.

Dopo una serie di visioni dimenticabili la mattina del 7 ho finalmente vissuto l’esperienza visiva travolgente del decennale film di Enrico Ghezzi. Per poterne parlare rimando al pezzo di pochi mesi fa sullo Specchio in cui si analizzava L’acquario di quello che manca, opera summa degli interventi critici ghezziani sulla tv, così come Gli ultimi giorni dell’umanità (2022) è opera summa e monstre sul suo intero percorso di vita e di studio, racchiudendo tutti i suoi temi principali: le immagini che fagocitano la Storia, la società, il 900 e il futuro prossimo (da qui anche la cornice apocalittica), la morte e l’annullamento del soggetto, la perdita di identità. Così come contiene tutti i suoi stili (anche qui viene in aiuto la tassonomia elaborata nell’articolo): il citazionismo situazionista, la modifica di materiale pre-esistente per rovesciarlo o renderlo paradossale, gli slanci poetici, la preponderante presenza dell’io (qui – ancor più – della sua famiglia) o in generale la componente autobiografica in un discorso che vuole dirsi, più che collettivo, universale.

Le immagini, che siano massicciamente modificate oppure riproposte nella loro integralità (come il monologo finale da Karl Kraus), puzzano di morte ma sono anche liberatorie, perché sprigionano – per la magia della accumulazione e dell’archivio – la loro potenza primigenia, ctonia, e risalendo la superficie del visivo, del dimenticato (la memoria altro tema ghezziano presente, specie nella prima parte) restituiscono all’umanità tutta la sua originaria identità, quella di una specie programmata per produrre immagini, farsi inghiottire dalle stesse, morire not with a bang ma con uno schermo nero. Dalla soppressione del soggetto (tutta l’ultima parte del discorso di Jean-Marie Straub, anch’esso lasciato integrale e non certo unicamente per la polemica contro le università) inteso come entità astratta, Ghezzi arriva a riflettere – con gli strumenti della poesia visiva, cioè del montaggio, lo stanatore di rime, perché la teoria è tramontata – sulla sua di morte, con quell’unico suo primo piano post-anni ‘90 a ricordare il tempo che passa e l’incanutimento del corpo e della mente, lo sguardo dietro gli occhiali essendo solo elemento ancora giovane e vispo mentre tutto decade.

In questo senso l’accostamento di frammenti di filmati apocalittici agli home movies familiari è devastante: la morte percorre il mondo e la società, il cinema e la tv, e anche i ricordi e gli affetti, e l’angoscia accompagna – stavolta in parte sostituendola – l’eterna tendenza all’ironia, al gioco, alla lotta coi significanti manifesti per boicottare per sempre i significati nascosti (“io non voglio comunicare nulla se non una forma, un modo” dice riprendendo il Pasolini di Petrolio). Passaggio rilevante il lungo montaggio veloce di frammenti casalinghi con la voce off di Servillo a leggere Una discesa nel Maelström, testo chiave della ossessiva ricerca di Edgar Allan Poe verso l’annullamento della coscienza e l’abbandono, terribile e inevitabile, al vortice della morte. Ghezzi quindi guarda le sue spalle, come Schrader e Loznitsa (cfr. diario precedente), e produce il terzo film tombale di questa Venezia, affidando al volto e alla voce angelici, quasi mariani, della figlia Aura il compito di traghettarci lungo esplosioni, teorie e discorsi, ricordi e navi lontane nella tempesta, fino a tornare a quel buco della serratura attraverso il quale la videocamera di un padre (a quanto pare regalatagli da Schifano) non osserva voyeuristicamente le prorompenti forme di un’attrice ma scruta appassionato una teofania filiale. E allora i riferimenti ai suoi döppelganger, a Bene e a Debord, superati rovesciati e infine uccisi, fanno parte del passato e nel film per l’appunto passano, fino a che non si spengono le immagini e rimane una voce, poi un flebile suono poi più nulla. La fine dell’umanità è la fine delle immagini, e la fine dello stesso io che le manipola in quell’istante, perché la morte di un singolo uomo contempla la morte di uno sguardo, una visione, e berkeleyanamente, fa scomparire il mondo intero alla chiusura delle palpebre.

Inaspettato film mortifero e apocalittico è anche Siccità (2022) di Paolo Virzì, ambientato in una Roma sporca, invasa dalle blatte, arida come il deserto, che si appresta a diventare una nuova Africa, infestata da un’altra epidemia causata dall’esaurimento delle risorse idriche. Virzì torna al film corale, e quindi alla fragilità dell’equilibrio narrativo, forse perché ritiene sia il mezzo migliore per raccontare le sfaccettature di un paese in crisi. Rimane tutto abbozzato, sia il discorso sociale che le crisi personali e famigliari dei personaggi, eppure l’affresco nel suo insieme contiene un sentore di miseria che funziona. Nessuno guarisce dalle malattie (o noi non lo vediamo), alcuni muoiono (perfino ammazzati), altri si illudono che le loro vite possano cambiare, e la speranza risulta essere meno frequente del sudore, del calore, della scarsità di igiene, nonostante la pioggia finale restauratrice (la quale però non modifica nessuna linea narrativa, i tradimenti vengono comunque consumati e i cadaveri rimangono lì dove sono). Sono azzeccate alcune caratterizzazioni, prima fra tutte quella dello scienziato che porta in tv il suo sapere tecnico e da una iniziale timidezza si lascia facilmente corrompere dalle luci della ribalta (mancava solo la candidatura in un partito). L’attore decaduto che diventa influencer di Tommaso Ragno evita le insidie dell’eccesso di moralismo e di grottesco e resta tristemente miserrimo come gran parte degli altri personaggi, punito peraltro insieme alla pavida moglie fedifraga, con un surplus di cattiveria cinica toscana che il regista recupera dalle opere giovanili. L’impressione è che approfondendo i caratteri e i discorsi e allungando il film l’opera si sarebbe persa per strada, così come sottraendo elementi il rischio era di amputare l’affresco e non centrare l’obiettivo. Quindi non ci si può affezionare a nessuno, né appassionarsi a singole scene, ma buttare l’occhio qua e là – come si butterebbe su un’apocalisse di Bosch – per poi fare qualche passo indietro e sorridere al tentativo di acchiappare il mondo che cambia evitando di ridurlo a semplice strizzata d’occhio in una commediucola (vedi Edoardo Leo o Massimiliano Bruno).

Molti si auguravano la presenza di una mano migliore dietro l’affresco. Magari non i grandi vecchi come Bellocchio o Amelio o Avati (che stanno riflettendo sul passato) ma gli autori di punta come Garrone, Sorrentino o Guadagnino, i quali sono un po’ occupati con ossessioni personali, ricerche formali e tentativi di emancipazione dalla provincia per sporcarsi le mani con l’attualità. E quindi tocca a Virzì, piaccia o meno.