Al novantesimo anno (non di seguito) di esistenza il Festival del Cinema di Venezia sembra aver scelto – almeno per i primi giorni – di seguire le linee della nostalgia del passato (Lo Specchio se ne occuperà ben bene) e dell’infuocato dibattito pubblico su questioni morali, che sembrano caratterizzare il nostro tempo e il cinema che lo racconta.
Il mio (primo) approdo avviene nella caligine tardo-estiva (che farà subito spazio a piovaschi e arcigno vento) il pomeriggio del 30 in attesa del primo film la mattina del 31, tratto da DeLillo, un totem per molti lettori, e rischioso artefice dei primi malumori: White Noise [N. Baumbach, 2022].
L’operazione del regista di Storia di un matrimonio [Marriage Story, 2019] è un “semi-adattamento”: inizialmente infatti Baumbach sembra voler trascrivere in immagini i temi del romanzo originale di Don DeLillo, anche riportandone alla lettera dialoghi o monologhi noti che i lettori e i numerosi fan non possono non ricordare, ogni volta però disegnandoli in superficie e tagliandoli sul più bello (il consumismo, lo Stato orwelliano etc). La loro nebulizzazione lascia il posto a un discorso più interiore e meno sociale intorno alla morte e alla angoscia del non esistere, e a come possano mettere in crisi una coppia apparentemente solida. Invariate solo la struttura delilliana e l’alternanza di stili: d’altronde è un film Netflix, ‘classicamente’ postmoderno (visto anche il romanzo di partenza, testo canonico della corrente), eterogeneo nel trattamento dei generi, incentrato sulla nostalgia del passato. E infatti Baumbach o Netflix scelgono di non ambientarlo nel presente, mantenendo l’epoca del libro: in questa maniera si sgonfia l’attualità degli eventi per come la si poteva percepire all’epoca leggendolo e inevitabilmente la si presenta come profezia sul terrore di massa, la manipolazione dei media (massiccia presenza di schermi come fosse un Soderbergh senz’anima), il pericolo ambientale, le lobbies farmaceutiche e tutto il cucuzzaro.
Straordinario il finale che annulla il resto del film e recupera l’ambiguo rapporto dei personaggi con la società dei consumi che occupava la prima parte del romanzo. Mentre non si può non notare un certo malcelato fastidio in DeLillo Baumbach decide di girare un piccolo musical sui titoli di coda, estremamente ironico dopo la seriosità della seconda parte (attenuata solo dall’hollywood end un po’ parodico), colorato e frizzante, in cui finalmente si trova un antidoto alla paura della morte nella glorificazione del consumismo.
Altro rischio polarizzante, centrato in pieno: Marcia su Roma (2022) di Mark Cousins. La nuova operazione analitica e filologica (e archeologica) del regista ha impiegato materiali dell’Istituto Luce, concentrandosi sul recupero (con cenni anche ad altre versioni esistenti) di “A noi!”, film di propaganda fascista del 1922, diretto da Umberto Paradisi , prezioso quanto insidioso documento sulla Marcia su Roma. La parte dell’analisi formale è vincente ed è tra le sue migliori: prima contrappone a Paradisi uno splendido filmino sulla Napoli prefascista di Elvira Notari (il tema dello scontro mascolinità-femminilità è più volte dichiarato), poi si concentra sull’opera singola. Ne scruta gli interstizi visivi, le lacune, le dolose omissioni, o osservando ciò che sta ai margini dell’inquadratura, ciò che c’è dietro (ricordandoci che il profilmico può essere una indicazione anche di ciò che avviene fuori dallo schermo: basta sapere cosa guardare), oppure ciò che non si vede, tracce lasciate da ridondanze nel montaggio: il salto dal corteo fascista che accosta tangenzialmente l’Altare della Patria e la processione successiva con Mussolini già Primo Ministro, lo slittamento dell’arrivo del Duce alla Marcia prima del tempo, la reiterazione di stesse sequenze, prefigurazione di analoghi spettacoli militari a regime ormai avviato e consolidato. Cousins forse involontariamente accosta il suo lavoro sulle immagini a quello di Paradisi, entrambi utilizzatori di materiale filmico; stessi strumenti ma diverso intento: in un caso analitico e nell’altro propagandistico.
In questo modo restituisce linearità al film, “riordina” il montaggio in alcuni punti, donandogli una logica più aderente alla realtà dei fatti. Questo approccio estremamente razionale, come si confà ad un’analisi coi crismi, viene però depauperizzato nella seconda parte in cui si percepisce la commissione dietro l’opera, attraverso la volontà di gridare al pericolo delle destre come un manifesto elettorale qualsiasi, agitando lo spauracchio del ritorno al regime e accomunando al Duce sia dittatori che politicanti minori del panorama internazionale (già l’incipit con Trump, va detto, faceva presagire tale deriva). Inquinando così l’operazione analitica Cousins depotenzia il suo stesso razionalismo iniziale e presta il fianco a chi volesse scorgerci una analoga operazione di propaganda alla Paradisi ma in direzione contraria (esagerando magari, ma difficile non vedere in atto gli stessi meccanismi ogni qualvolta la retorica sostituisce la logica). La presenza della Rohrwacher inoltre non è ben giustificata: legge un testo stile scuole elementari e canta Bella Ciao sui titoli di coda.
Il regista però non resiste alla tentazione destrutturare il suo stesso film e svela alcuni trucchi e meccanismi dietro queste sequenze per dimostrare una sua tesi metacinematografica. Smorzata la propaganda perché non guardare l’altro lato: la funzione positiva del cinema. Per quanto esso sia – nelle parole di Mussolini – “l’arma più potente” e si presti facilmente alla manipolazione (negli anni del deepfake la faccenda è divenuta esponenziale), ha ereditato e amplificato alcune caratteristiche della fotografia (come quelle individuate da Barthes – il punctum – e spesso colte con altri nomi in Story of film) che esaltano la spontaneità, l’involontaria creazione di bellezza o di intensità o di mistica. Il cinema di propaganda anche ben realizzato (Cousins non lesina di sottolineare la differenza tra Paradisi e la Riefenstahl) opera sempre una autentica scotomizzazione delle potenzialità del cinema, dimenticando ciò che in esso è dovuto al caso e non è controllabile, ciò che lo avvicina a essere il “linguaggio scritto della realtà” pur con tutte le cautele teoriche solite. La dimensione altra che l’arte cinematografica raggiunge va al di là del montaggio (con buona pace di Eisenstein) ed è racchiusa in singole immobili sequenze in cui qualcosa che non doveva succedere succede, magari a latere o sullo sfondo, creando la magia.
Magia condivisa anche da altre forme d’arte, più astratte, se si dà retta a quell’elogio della musica classica (e non solo) che è Tàr di Todd Field. Lydia Tàr si interroga sul rapporto tra talento e moralità consapevole che il suo talento la salverebbe; e così è in un certo senso: resiste alle avversità grazie a esso, in ogni parte del mondo, e lo fa studiando, non c’è nulla di spontaneo o naturale o calato dal cielo. Si interroga – viene il sospetto, proseguendo la visione – forse perché non può vantare una specchiata moralità (come chiunque, e avrei dubbi anche sulla compagna Sharon che non le fa vedere la figlia in base ad accuse tutte da dimostrare. I giornali scelgono chi può crescere i propri figli). E anche se non viene dal privilegio ed è parte di una minoranza, non sarà esente dai rischi delle società contemporanee (sembra predire il suo stesso destino quando mette in guardia il rigidissimo studente non binary nello splendido piano sequenza della lezione) forse causate più dall’invidia del successo che genuinamente indignate (e infatti tutto parte da colleghi).
Fuori luogo le urla gli applausi e le risate in sala a nemmeno un terzo del film, quando ancora non si sa dove vuole andare a parare. Schiamazzi di una società parruccona e arretrata che certo non può sentirsi vittima di una cancel culture american style (anzi), spia del rischio concreto di ridurre l’opera a parte civile in causa quando la vicenda è più complessa e mostra luci e ombre di un personaggio che rimane dignitoso, altero e appassionato fino alla fine, ma anche snob indisponente coi sottoposti e avvezzo a pratiche non esattamente meritocratiche (anche se ciò che il film dà per certo – eccetto le mail che stroncano la carriera di una studentessa, dalle quali non si possono escludere attenuanti nascoste – è poca roba rispetto alle accuse non dimostrate). Il film è studiato al millimetro, pieno di riferimenti per addetti ai lavori del mondo sinfonico e riflessioni teoriche (soprattutto nella parte iniziale) in lunghi e “coraggiosi” dialoghi. Le questioni morali sono invece lasciate alla reticenza degli interlocutori, le si vuole nascondere col dibattito estetico e musicologico, e vengono problematizzate poi nel personaggio della Blanchett che offre una performance innanzitutto fisica mentre nonostante la sua centralità assoluta il lato psicologico ci viene celato. C’è solo la certezza del talento.
Curioso che durante le prove della Filarmonica di Berlino il regista abbia scelto di non sottotitolare in inglese le indicazioni in tedesco che Tàr dà ai musicisti: in questo modo ci costringe a concentrarci sull’esperienza non verbale travolgente alla quale assistiamo. Field mostra chiaramente le affinità tra cinema e musica nell’abolire l’esperienza del linguaggio e sostituirla con un omologo più coinvolgente.
All’estremo opposto della scala dell’eleganza c’è il bizzarro film di Tizza Covi e Rainer Frimmel Vera (2022) che sembra identificarsi in pieno col suo soggetto: Vera Gemma, figlia dell’icona spaghetti western Giuliano. I registi hanno una idea peculiare di cosa sia cinema che lascia perplessi e ammirati, mettendo a segno le più aliene sequenze viste finora in mostra. Aliene e al contempo familiari, con volti noti del trash italiano e altri presi dalla strada stile Garrone ma privi di qualunque dimensionalità. Vera Gemma ne esce personaggio totale, autolesionista e profondamente disperato. Recita Leopardi e poi il monologo di Scarface [id., Brian De Palma, 1983] ad un provino squalliduccio e va con Asia Argento in visita alla tomba del figlio di Goethe, si fa urlare contro, picchiare, compra gabbie enormi per parrocchetti restii alla mobilità sociale, usa il cappello da cowboy come i Blues Brothers facevano col loro borsalino, guarda film del padre in tv istituendo sottilmente parallelismi tra quelli e la trama del “suo” film. Una donna che vorrebbe vivere in un western fatto di plastica e insieme indagare la “vera realtà”, così sfacciata nel proclamare la sua bontà e i suoi giusti valori da poter interagire assennatamente solo con un bambino. La sincerità e la consapevolezza del senso del ridicolo sono così clamorose da farne un’opera concettuale, e io stesso mentre scrivo non so quanto essere serio o ironico, perché la lotta interiore è potente.
Il pomeriggio dell’1 (la mattina sono riposato ma Kei Ishikawa non lo sa ed è preoccupato per i miei nervi. Così approdo a sponde soporifere con Aru Otoko [id., 2022] in cui perdita di identità e macchinosa concettosità rapiscono e mascherano personaggi e intenzioni, indecisi tra thriller alla Bong e polpettone alla Hamaguchi, e in cui la monca frase finale “Io sono…” obbliga anche me a riconsiderare chi sono, dove mi trovo e perché proprio in quella sala e quale “io” in fondo ci sia dietro il mio corpo dormiente) ho affrontato in solitudine The Happiest Man in the World [Najsrekjniot Chovek Na Svetot, 2022] partendo prevenuto bene per un mio bias verso l’Est-Europa, anche perché sono rinvigorito dal pisolino nipponico (per quanto ormai privo di un volto come il Magritte stra-citato da Ishikawa).
La regista bosniaca Teona Strugar Mitevska torna sul trauma della guerra tra i popoli della ex-Iugoslavia, fratelli che si odia(va)no. La metafora è semplice: la camera guarda sempre alle spalle, al passato, anche con controcampi anomali: nella scena in mensa essendo le tre donne una accanto all’altra il dialogo non ne ha bisogno eppure l’inquadratura cambia campo facendo comunicare i loro volti con le loro schiene. E non a caso è proprio sulla schiena che la protagonista è ferita, ricordo di un cecchino in guerra che nel ‘93 l’aveva colpita e oggi la incontra a uno speed date alquanto surreale e grottesco. Nel climax centrale il film accenna a mutare in una miscela tra Haneke e Lanthimos ma il grido esausto (“Non se ne può più, non ne avete abbastanza?”) ferma subito la violenza e cambia strada, lasciando ai personaggi la loro umanità oltre al loro trauma. Il cinema est europeo ha una identità a sé (forse l’unica che accomuna quei popoli) e affronta la violenza diversamente da austriaci o greci (anche perché ne ha un ricordo più fresco): è crudele e tragico ma anche ironico surreale e affettuoso di quell’affetto che può legare solo una persona a chi le ha sparato. (Mentre scrivo di questo film una delle attrici di Happiest è seduta dietro me al bar a dimostrazione che l’Est mi vuole bene).
A Couple [Un couple, 2022], con Tàr, è il miglior film visto finora. Frederick Wiseman “documentarizza” le memorie della signora Tolstoj, recitate da un’unica attrice in un paesaggio naturale. Rigetterei la definizione di film narrativo (lo si è detta solo perché c’è un’attrice?). Nathalie Boutefue è immersa nel verde come la tenuta di Jasnaja Polijana in cui vivevano i Tolstoj e i loro 12 figli. Ma lei guarda fuoricampo: il dialogo è con una persona assente, qualcuno che non ascolta o non ha intenzione di farlo. E quindi le uniche parole dello scrittore che sentiamo pronunciare sono brani del suo diario mandati a memoria da Sofia Tolstoja durante la sua requisitoria.
Come Tàr si finisce per parlare inevitabilmente del rapporto tra dimensione privata e pubblica di un artista. Tolstoj è sia una figura molto moderna come ideali (vegetariano, ecologista, con idee pedagogiche avanzate, in un certo modo pioniere dell’economia della decrescita (mi assumo le responsabilità di questa definizione)) che un perfetto uomo del suo tempo, specie nel rapporto con le donne. Wiseman sceglie di osservare “solo” il dramma di lei e non le crisi di lui, restituendo alla storia una vittima “privata”, una vera pioniera delle rivendicazioni femminili. Incredibile come tutto ciò si sposi alla perfezione con le descrizioni coniugali in libri del marito come La felicità domestica (dove il punto di vista peraltro è femminile) e Sonata a Kreutzer. Può uno scrittore così empatico essere altrettanto insensibile nella vita? A Wiseman non interessa e per questo la gente si alza dalle poltrone e scambia il cinema per teatro ignorando la presenza di un lavoro sul suono possibile solo nella Settima Arte: la voce di lei è sullo stesso piano dei suoni dell’ambiente circostante e si integra con la realtà esterna. Ella combatte contro i rami o accoglie le fronde e i piccoli animali ma riesce a parlare al genio solo isolando il mondo (peraltro in una struttura a incastro dove scrive a lume di candela immaginando di recitare la lettera nel bosco).
L’altro originale Netflix finora proposto è Athena [id., 2022] di Roman Gavras, peraltro scritto (tra gli altri) da Ladj Ly. Gavras si ispira al teatro greco per parlare di banlieue francesi: la folla di facinorosi che vuole vendicare il tredicenne ucciso dalla polizia, finisce per far la parte del Coro mentre si consuma la tragedia tra tre fratelli, i quali s’adoprano per causarsi sofferenza e uccidersi a vicenda: il poliziotto, il rivoluzionario, il criminale. Come un’icona russa dostoevskijana tutto torna anche se male e l’astratto personaggio di Sebastian, angelo un po’ tonto, viene a reclamare l’anelito alla morte che informa tutte le nostre azioni, bombardando senza senso il teatro dove il dramma famigliare s’è consumato. Nel frattempo la miccia è innescata, la violenza dilaga e la guerra fuori è inarrestabile: la tragedia alla quale abbiamo assistito perde i contorni di unicità che avrebbe avuto in Euripide e con un carrello all’indietro allontana la singolarità e la schiaccia; uno dei tanti drammi in una società complessa. Trovare un capro espiatorio in questo marasma sarebbe stato sbagliato e ridicolo, e Gavras netflixianamente sbaglia. Ed eccoci di nuovo a scovare estremisti di destra dietro tutto, in una sorta di volontà complottarda perenne che impedisce a qualunque narrazione di librarsi oltre la contingenza e parlare delle persone e delle loro colpe senza delegarle a entità di comodo. La polizia è colpevole o no? E Abdel fin dove lo è? E Karim? Non era necessario rispondere, né per demonizzarli né per rappresentarli tutti come pedine di un gioco più grande. In sala la commozione e lo shock, entrambi diffusi se dovessi fare un rilevamento veloce a occhio, impediscono peraltro di sorbirsi il messaggio “impegnato” pronto all’uso. Laddove Baumbach sbagliando gran parte del film era riuscito a smarcarsi dalla “poetica” Netflix almeno sul finale, Athena fa l’opposto, si perde nel momento in cui l’apocalisse era diventata sufficientemente astratta e collettiva da risultare in sé conchiusa. Non è una novità: anche solo un tratto di pennello in più e un quadro può guastarsi.