I secondi tre giorni (si abiura al Numero nel torpore lagunare) si sono aperti con due autori ormai “classici” che hanno volontariamente o meno riflettuto sulla propria carriera. La mattina del 3 è la volta di Paul Schrader e il suo Master Gardener [id., 2022], il gemello eterozigote de Il collezionista di carte [The Card Counter, 2021]: di nuovo un personaggio che cerca la redenzione nell’oblio, nell’abbandono della precedente identità (qui per esigenze imposte dall’alto una volta entrato nel programma di protezione testimoni. In più di un’occasione infatti chiede di poterlo evadere, tasta dove siano i limiti, laddove Oscar Isaacs ricercava autonomamente il proprio isolamento, anelando all’emarginazione). Se il Tillich del film precedente ancora prova ribrezzo per sé stesso, il giardiniere interpretato da Joel Edgerton sembra essersi rassegnato e aver accettato il passato: anche per questo non vuole rinunciare ai numerosi tatuaggi da suprematista bianco che lo coprono. Finché non incontra qualcuno – una ragazza mulatta (piena e totale contrapposizione col suo passato neonazista) – che ne turba l’equilibrio, lo spinge a tornare a vivere, al di là della cura del giardino (non c’è miglior metafora di chiusura che l’accudire il proprio orticello), e lo spalleggia nel vagabondaggio. E così vagano insieme alla ricerca di una doppia redenzione (lei dalla droga e da una infanzia turbolenta), vagano come i primi personaggi della carriera di Schrader (cominciando da quella da sceneggiatore).
L’accettazione passa dalla consapevolezza che il passato (come i tatuaggi) non si cancella e non vi si può davvero fuggire. Unico spiraglio, avendo egli scritto sulla sua carne la sua colpa, è evitare ogni contatto umano, e serenamente (una serenità davvero sconvolgente per il regista di Tuta blu [Blue Collar, 1978] e simili) Nerval Roth (il finto nome è ebraico, altro segno di assunzione della colpa) finisce per accettare un’altra verità: è impossibile non amare. E così da intollerante verso il diverso a intollerante verso se stesso, raggiunge la sintesi nell’accoglienza dell’io e del diverso amato. Dopo tante fughe dall’io il tipo schraderiano si “accetta”, ammette di essere imprigionato, non porta fino in fondo la vendetta ma ritrova l’umanità e quella dell’altro, quindi in un certo senso – pur sommerso da cicatrici – si salva. Ed è questa la rottura rispetto al suo cinema, che spesso ci ha insegnato che dal peccato non c’è salvezza, perché si è destinati a non farci davvero i conti e a ripeterne gli schemi suicidi (o omicidi-suicidi). Il “mastro” giardiniere spezza la catena peccato-colpa-oblio-vendetta-ricaduta-perdizione finale e lo fa autonomamente e senza trovare la pace nella gabbia o nella distanza, rassegnato a sopravvivere (come accadeva in The Walker [id., 2007] o Lo spacciatore [Light Sleeper, 1992]).
L’happy end (e non si può – nella analisi – rimanere indifferenti ai rumors sullo statuto terminale di quest’opera) sembrerebbe essere l’approdo inaspettato e insperato della discesa negli abissi che da Travis Bickle ha condotto fino a William Tillich, attraverso il Cristo carnale di Dafoe/Scorsese, John LeTour, Carter Page III e il reverendo Ernst Toller.
Narvel Roth è un Giobbe il cui dio ha accolto le preghiere, e non deve più nascondersi dal mondo, almeno dal micromondo che si è costruito. Ora può “lavare via” i tatuaggi come promette a Maya, può essere un semplice coltivatore di piante, una passione che per quanto autentica non è più solo un canale per veicolare in qualcosa di innocuo le energie fino a quel momento votate alla distruzione e all’odio (stessa cosa vale in The Card Counter per il gioco d’azzardo). La venefica e angosciante teologia schraderiana contiene alfine una soteriologia. Un intero giardino, con le sue gladiole e le sue rose, può spegnere il fuoco degli inferi.
(Di nuovo coincidenze: mentre scrivo di questo film sono in sala stampa e appare Schrader ai microfoni della sala conferenze. Parla dei rapporti tra la genesi dei suoi personaggi e l’esistenzialismo. A suo parere il suo personaggio-tipo è “ben consolidato nel contesto letterario” ed è l’uomo underground, cioè l’uomo del sottosuolo dostoevskijano. Inoltre ripercorre la sua intera carriera e la sua formazione, il che fa ripensare di nuovo a un mesto addio.)
Anche per Sergej Loznitsa (per comodità utilizziamo la traslitterazione più comune, anche se non la più corretta) possiamo fare un discorso simile. Il suo The Kiev Trial [id., 2022], visto lo stesso giorno di Schrader, è l’ennesimo documentario che lavora impercettibilmente su materiali d’archivio: stavolta il processo militare a criminali nazisti che attuarono lo sterminio di cittadini russo-ucraini, svolto da generali dell’esercito sovietico. Parlare di Loznitsa vuol dire parlare dell’effetto che fa o vuole fare sullo spettatore la riproposizione di materiali storici senza commento, assunti nella loro fattualità. Il film è diviso esattamente come il processo: prima si interrogano gli imputati e ci viene mostrata una varia umanità. C’è chi ha gli occhi abbassati e il fatto che le riprese siano “pure”, fisse, ci permette di fare ipotesi varie: si vergogna o sta solo leggendo mestamente gli appunti della confessione? Un altro risponde impettito e fiscale e dà una spiacevole sensazione di freddezza (che verrà smorzata quando sarà uno dei pochi a non discolparsi e piangere miseria nelle dichiarazioni finali prima della sentenza). Un altro risponde a una domanda rimettendo quasi in scena ciò che gli è stato chiesto e ci scappa pure un mezzo sguardo in macchina: il famoso senso dello spettacolo dei sanguinari nazisti.
Mentre fino alla deposizione dei soldati delle SS c’è la possibilità per lo spettatore di “entrare” nella testimonianza, empatizzare e processare dati, quando entrano in gioco i vari testimoni oculari il film comincia consapevolmente a sfuggire di mano, perché è impossibile reggere tutta la mole di informazioni atroci che vengono accumulate speditamente davanti ai nostri occhi; Loznitsa in un certo senso vuole torturarci, come senza dubbio furono torturate le vittime, ma anche chi assisteva al processo e gli imputati stessi. Farci sentire la pesantezza della tragedia, senza stacchi, assunta per ciò che è: ecco la sua poetica. Il pochissimo lavoro di intervento sul materiale compiuto (specialmente nel sonoro) serve solo a restituire la migliore condizione possibile di fruizione pura del testo filmico recuperato. Non si vuole né riflettere in stile documentario classico, seguendo una tesi, né rappresentare narrativamente una vicenda. La riflessione scaturisce dalla fruizione limpida e certosina del processo, senza neanche lunghi commenti di sintesi tra un passaggio e l’altro, solo poche didascalie che forniscono le informazioni di base su chi sta parlando. La scelta del regista ucraino è spesso quella di raffigurare l’orrore attraverso l’assunzione e la riproposizione dei bruti fatti; l’ho sempre vista come una estremizzazione (o un’estensione a un intero lungometraggio) della scelta di Stanley Kramer in Vincitori e vinti [Judgement at Nuremberg, 1961] di inserire gli autentici filmini girati nei campi di concentramento all’interno di un film di finzione. La tragedia viene restituita com’è, non è possibile fare altrimenti: non c’è messinscena che tenga. E il contenuto della tragedia è – specie in questo caso – molto più importante della riflessione sul concetto di realtà che ci si aspetterebbe da un documentarista così radicale. La pratica di Loznitsa è sperimentale solo nel senso in cui imbastisce un esperimento sullo spettatore.
Viene da chiedersi cosa diventi il cinema in una idea del visivo così rigorosa. Quale risulta essere la funzione del discorso filmico? Ha ancora senso parlare di “cinema” o è esso solo una mera etichetta per arrivare al nocciolo della questione trattata, vale a dire il recupero della storia del ‘900 a fini metabolici e non rappresentazionali? Le impressioni/ipotesi mi sono sempre sembrate due, confermate da questa visione:
1) Il cinema si arrende e si riduce al fatto ripreso, con le modifiche del caso, che hanno però funzione restaurativa. Non come – per intenderci – il rumore del calcio in faccia al cadavere del Duce, dettaglio di vera pornografia sonora in Cousins, vedi diario precedente.
2) Il cinema au contraire ne esce potente, rinvigorito, perché può racchiudere la testimonianza, almeno del Novecento, e costringere lo spettatore ad assistervi fino ad assimilarla. Le pause tra una traduzione e l’altra finiscono per essere momenti di suspense durante i quali ipotizziamo impazienti cosa potrebbe rispondere un imputato, e attiviamo un meccanismo narrativo, diegetico, che ci fa entrare tra il pubblico che assisteva all’evento, a suggerire che non possiamo davvero mai evadere le dinamiche della rappresentazione. In fondo Loznitsa ricostruisce i colpi di tosse e i rumori passeggeri del pubblico perché è col pubblico che vuole che ci immedesimiamo, forse immedesimandocisi egli stesso.
Un’idea totale di cinema ai poli opposti di Innocence [id., 2022] di Guy Davidi, perfetto esemplare di prodotto festivaliero, privo di una qualunque idea artistica di documentario come quella ben descritta da Marco Bertozzi nel suo Documentario come arte (Marsilio, 2018). Il formato è infatti televisivo e alterna filmati in parte ricostruiti, vhs originali di adolescenti poi diventati soldati morti suicidi durante l’arruolamento nell’esercito israeliano, riprese di addestramenti militari girati ai nostri giorni. Fin dall’incipit, coi disegni in primo piano dei piccoli futuri soldati, la retorica del regista dimostra di non possedere il minimo afflato sociale e fare leva solo sull’emotività dello spettatore (con sequenze eticamente al limite come quando fa piangere la madre di un ragazzo a forza di farle sfogliare il diario personale del figlio) evitando di proporre alcunché di costruttivo: la guerra è brutta, gli eserciti non dovrebbero esistere e il nazionalismo fa più male che bene. Cose che sappiamo ma poco applicabili in una realtà come quella israelo-palestinese in perenne conflitto: sognare lo smantellamento dell’esercito sa di favola male assortita. Inoltre Guy Davidi ipocritamente non si mette in gioco, sparisce dietro le immagini, evita il commento spacciandosi per oggettivo e attua un ricatto morale nei confronti dello spettatore inerme chiamato a giudicare non solo le politiche militari di un intero Stato ma una guerra decennale e complessa. I finti virtuosismi, come l’utilizzo esteticamente gratuito di droni, accentuano l’impressione di trovarsi davanti all’apoteosi visiva del virtue signaling, del regista e forzatamente dei suoi soggetti, mai amati fino in fondo, solo pianti (ma in quanto ideologicamente affini) e usati come carne da macello.
Stessa tipologia di ricatto, ma più sottile, perché mascherato dalla fiction, informa il secondo lungometraggio di Olivia Wilde Don’t worry darling [id., 2022] da lei anche interpretato in un ruolo secondario. La regista è in gran forma quando si tratta di dare una sferzata alla generale frigidità del cinema americano contemporaneo riprendendo il corpo di Florence Pugh al suo massimo grado di erotismo, ma lo è molto meno in quanto a coerenza e credibilità narrativa.
Ipotizzo durante la visione che la centralità del corpo non fosse prevista dalla sceneggiatura originale perché cozza con il discorso (accennato, confuso, paracoerente) sulla distinzione wachoskiana tra reale e virtuale. Le sequenze astratte in cui la Pugh si interroga sul suo statuto ontologico e topografico potevano da sole reggere un film (mediocre) senza il necessario spiegone, che – troncato proprio sulla questione reale/virtuale – finisce per essere insoddisfacente dal punto di vista narrativo e volontariamente sciatto in modo da esser certi di trasmettere il messaggio femminista. La dicotomia buoni/cattivi è stabilita con precisione, senza sfumature, la trama thriller si esaurisce in pochi secondi e la caratterizzazione dei personaggi vola via con essa. Il nervosismo per un film così monco è tale da far esaltare ancor più le poche intuizioni visive (tutte – come s’è detto – carnali) alimentando di nuovo il nervosismo, in un circolo vizioso che solo una partitura jazz una sera estiva all’aperto potrebbe quietare.
Ci si va molto vicini con la visione serale del documentario musicale del regista danese Jorgen Leth (noto ai più per essere la vittima designata della tirannia di Von Trier ne Le cinque variazioni [De fem benspænd, Jørgen Leth e Lars von Trier, 2003]) Music for Black Pigeons, co-diretto con Andreas Koefoed. Il film ci immerge corporalmente nella scena jazz di un ristretto gruppo di musicisti di varia età, tra cui alcune leggende come Lee Konitz e Jakob Bro. La camera entra negli spazi tra di loro, mentre registrano un disco o fanno jam sessions, quasi a voler acchiappare le vibrazioni che magicamente intercorrono tra i musicisti senza che si siano accordati prima. Quello che vediamo in scena nella maggior parte dei casi è un vero e proprio miracolo sonoro, i cui autori si danno poche e fugaci occhiate e poi si armonizzano ad orecchio o si disarmonizzano quando necessario: la loro non è la ricerca del suono perfetto o del tono superno ma delle rime che si trovano nell’aria, che si lanciano a vicenda, e sta poi alla mano o allo strumento accogliere o respingere, in base al criterio dell’interessante, perché il suono tale deve essere.
Leth costella il film di primissimi piani e dettagli di dita che strimpellano, labbra che soffiano e strumenti smontati, interi, o dissipati in pezzettini sparsi per la stanza (o per lo schermo). La poesia che emerge da questa musica è quindi una poesia fisica, così come materiale è la spiritualità che gran parte di loro rivendica come missione artistica o approdo inevitabile durante le interviste frontali nelle quali a volte sentiamo anche la voce del regista.
Questo nei rarissimi momenti non afasici: i musicisti infatti sono i vassalli dell’esperienza astratta e non verbale del genio artistico, come i cineasti, e fanno fatica a esprimersi a parole a domanda diretta. Così Leth lascia nel montaggio i lunghi momenti di silenzio, le mancate risposte di volti sereni, privi della tensione di chi solitamente non ha parole. E coglie non l’imbarazzo ma il lampo di genio nel vuoto, senza privarci dei momenti che lo precedono. L’imbarazzo sparisce anche perché tutto il film è confortevole, fa entrare nell’anima di persone con le quali non si può non simpatizzare, e mette a proprio agio lo spettatore. Io l’ho visto di sera lasciandomi cullare dalla musica, come una jam session a cui capita di assistere per caso passeggiando per New Orleans: l’atmosfera di un jazz club completamente trasportata in una sala cinematografica; e senza bisogno di spiegazioni o didascalie, solo la realtà bruta del fatto artistico (come la realtà bruta del fatto criminale in Loznitsa. L’assunzione del fattuale accomuna un documentarista “archivista” e uno underground/sperimentale. Le differenti reazioni che suscitano sono date dal soggetto in sé più che dalla messinscena.). Questo nonostante pochi pezzi siano eseguiti fino alla fine e ci siano tagli improvvisi che cozzano splendidamente con l’assenza di tagli di talune interviste. Come sia possibile con questa tecnica un tale fluidità estetica è uno dei misteri del cinema. E del jazz.
Va poi detto che siamo di fronte all’ennesimo film mortifero di un regista non più giovane, altro leit-motiv di questi giorni. Lo spettro della morte aleggia fin dall’inizio e l’esperienza di pace, di armonia, stima e amicizia si chiude su una candida cappella di lapidi, dove, forse ancora col sassofono tra le labbra, riposa per sempre il vecchio Lee Konitz.