Venezia 80, faticosa quant’altre mai, è finita. Qui i vincitori ufficiali dell’edizione.

Chiudo il racconto-recensione della mia esperienza con una breve rassegna di film visti gli ultimi giorni che spingono ad alcune riflessioni su tic, frequenze e derive che hanno caratterizzato tutta la Mostra quest’anno.

Il problema dei film italiani

Partendo proprio dal vincitore per la regia, Matteo Garrone, e da Io capitano, atteso al varco dopo due prove “contrastanti” quali Dogman [2018] e Pinocchio [2019], si possono riscontrare i problemi di scrittura che hanno attanagliato i film nostrani di tutta la Mostra (non gli unici problemi, purtroppo). La storia del viaggio dal Senegal all’Italia di due giovanissimi immigrati africani ha l’aspetto iniziale del romanzo picaresco, lontano dalla crudezza e dai grigiori del realismo del primo Garrone, con in più quella dimensione favolistica che è via via andata emergendo nel suo cinema. Almeno questo è ciò che molti hanno rilevato o hanno voluto rilevare basandosi anche, impropriamente dal punto di vista teorico, sulle parole del regista, e forse proprio questi aspetti e l’importanza del tema trattato hanno contribuito a convincere la Giuria a attribuire il premio a Garrone. Tuttavia ben poco di tutto ciò è concretamente presente nell’opera. Il racconto picaresco si stempera quasi subito, perdendo personaggi e trama fino al momento del viaggio in mare che avrebbe dovuto essere centrale e invece copre solo gli ultimi minuti del film, offrendo peraltro della realtà che vorrebbe rappresentare una idea alquanto approssimativa (funziona meglio appunto la prima parte, coi ragazzi ancora in Senegal). La dimensione favolistica si riduce invece a un paio di visioni oniriche, non particolarmente riuscite a livello estetico, entrambe presenti nella parte iniziale, poi più nulla. La crudezza dei lager libici, le torture, le peregrinazioni senza meta, e altri elementi raccontati con dovizia dai reporter di tutto il mondo (solo in Italia come non ricordare lo splendido lavoro di Francesca Mannocchi) non pervenuti, o meglio rimasti sulla superficie dello schermo, accenti casuali in un compitino pulito, lindo, senza sbavature, privo di retorica forse ma poco rischioso. Garrone si misura col grosso dilemma di come rappresentare, da bianco, una realtà così distante dalla sua ma, per quanto siano apprezzabili l’assenza di pornografia del dolore e di polemica politica spicciola, bisogna necessariamente imputargli una mancanza di presa sulle vicende, una distanza che finisce per risultare suicida, nonostante le accortezze da “realismo accademico” adottate, dalla lingua wolof ai set “naturali”. Molto più vicino alla sensibilità del soggetto che racconta è il Ferrari di Mann, al contrario di chi indica nel maccheronico pronunciato dagli attori una qualche defezione dalla sospensione dell’incredulità. Trattare con delicatezza un soggetto può finire per sbilanciarlo sulla sponda opposta dell’area semantica e “delicato” potrebbe voler dire leggero, poco incisivo. 

Ma se il viaggio in mare del piccolo capitano senegalese si appropriava indebitamente del titolo del film, un altro italiano visto gli ultimi giorni ha costruito un intero script su un’idea che poi sparisce nel corso della narrazione: Lubo di Giorgio Diritti. La storia dello zingaro di etnia Jenisch, Lubo, incarnato dal magnetismo indiscutibile di Franz Rogowski, scorre parallela alla storia svizzero-austriaco-italiana tra gli anni ‘30 e i ‘50. L’uomo è alla ricerca dei suoi figli sottrattigli dallo stato svizzero a causa di una legge sulla tutela dei minori gypsies, divisi e affidati a istituti o altre famiglie. Lubo percorre la storia mitteleuropea alla spasmodica ricerca di notizie sui figli che non arriveranno mai, fingendosi un’altra persona, un commerciante benestante, e intrattenendo molte relazioni con donne dell’alta borghesia, fino ad innamorarsi di una italiana, madre single e avere un figlio anche con lei.

Il problema di scrittura sta nel fatto che il dramma sociale da cui si parte è abbandonato quasi subito, e non lo si può considerare neanche il pretesto per raccontare la storia di una perdizione morale, poiché viene ripreso alla fine fuori tempo massimo con tanto di messaggio etico-sociale alla buona, manifestando il suo essere il topic della narrazione. Le parole di Lubo al commissario in prigione sono poi inutilmente declamatorie e non risolvono le ambiguità morali di un personaggio che ha le sue ragioni ma commette più efferatezze di quelle che concretamente combatte.

A rischio di esser tacciato di “incontentabilità” si può riassumere il cinema italiano a Venezia 80 in poche contraddittorie tendenze. Prima di tutto lo squilibrio narrativo di cui si è detto qui, la sciattezza di scrittura (che colpisce in maggior misura vere aberrazioni come L’ordine del tempo e The Penitent), e poi il bisogno impellente di inserire un messaggio didascalico che ricorda che il film è “impegnato” e sottrae alla volontà del regista la voglia e il gusto del racconto puro. Questo bisogno rischia di essere iatrogeno, come il fascismo percepito ma negli intenti “contrastato” in Comandante, o eccessivamente fumoso, come Finalmente l’alba, in cui la descrizione delle storture di un mondo si rifugia nell’ingenuità onirica e nel lirismo, anche qui manifestando una mancanza di coraggio e un’avversione al rischio davvero ammutolenti. Il caso Garrone è all’opposto quello di un film che necessitava di una presa di posizione forte, o comunque percepibile, e invece per il tarlo della sottrazione restituisce in output un film (dal pensiero) debole, così leccato da mancare perfino di empatia.

Il problema dei film balcanici/est-europei

La questione balcanica al cinema non è di natura formale ma solo contenutistica. Housekeeping for Beginners di Goran Stolevski [titolo originale: Domakinstvo za Potecnici], macedone, Bota Jone di Luana Bajrami, serbo-kossovaro e Forever Forever di Anna Buryachkova [titolo originale: Nazavzhdy-Nazavzhdy], ucraino, 1 sono tre film sugli adolescenti e su come vivono in paesi in cui il ricordo della guerra è lontano (quello ucraino è ambientato negli anni ‘90) ma benessere e pace tardano a manifestarsi.

In Stolevski le vicende di una famiglia queer par excellence (coppia di lesbiche con figlie, coinquilino gay con compagno e tre ragazze lesbiche a fumare e commentare ironicamente tutto il film), nonostante battute e gag (non moltissime), hanno un sapore di amarezza e sconfitta fino alla fine: la morte delle madre biologica delle bambine costringe l’altra ad assumere un ruolo che non vorrebbe e nel quale starà stretta fino alla fine; sullo sfondo un paese chiuso retrivo e instabile, in cui convivono stili di vita molto differenti: valga su tutte la scena in cui Dita, madre “bionda e bianca” delle figlie rom della compagna, le porta a conoscere la nonna in un campo nomade e le ragazze ne rimangono sconvolte. Un paese in cui gli zii per far soldi prostituiscono le nipoti, in cui la polizia crede nell’esistenza delle sette gay, in cui anche la persona più pacifica tende a risolvere i conflitti con la violenza.

Violenza e disfacimento post-sovietico che nel film notevole di Bajrami (regista di soli ventuno anni) pervadono l’ambiente universitario del Kossovo, stato non ancora indipendente e devastato da irrisolti conflitti interni, in cui gli studenti occupano permanentemente una facoltà senza corsi e senza professori, edificio caracollante dove, incuranti, parcheggiare un’intera generazione. Il rapporto tra le due cugine protagoniste, che fuggono dalla famiglia venendone subito isolate, non sopravvive alla vita di città, una scegliendo l’apatia, la circolarità di un’esistenza che non si può cambiare, a fianco di un ragazzo spacciatore con seri problemi di gestione della rabbia, l’altra riappropriandosi del corpo nell’unico modo possibile: facendo la stripteuse e forse vendendolo. L’assenza totale di futuro non ha un sapore pessimista, ma, ancor peggio, è totalmente accettata dall’autrice come un dato di fatto inoppugnabile. La fuga continua da tutti i luoghi, accoglienti o meno, sembra l’unico principio, da applicare indefinitamente.

Infine il devastante e luciferino film di Buryachkova che narra le vicende di una splendida liceale, interpretata da Alina Cheban, arrivata in una nuova scuola, vittima di abusi reiterati e persecuzioni da parte dell’ex ragazzo. Tonya, questo il nome della protagonista, è costantemente preda dei suoi impulsi emotivi, passa da un ragazzo al suo amico e mantiene entrambi i rapporti al contempo, salvo poi ritrovarsi sempre e ancora vittima di chi la salva dal carnefice precedente. La gioventù descritta dalla regista, in un altro mondo in disfacimento di nuovo privo di adulti o di figure istituzionali responsabili (l’istruttrice di nuoto la abbandona al primo sbaglio, la professoressa denuncia ingiustificatamente i ragazzi per aver avuto un infarto, i genitori di Tonya non si accorgono dei problemi relazionali della figlia neanche se viene accoltellata), è intrinsecamente malata e priva di riferimenti, e si muove con uno sprezzo dei pericoli e una mentalità tribale ormai assodata e impossibile da discutere: i nuovi amici di Tonya, che la accolgono calorosamente e si dimostrano disposti a proteggerla, sono pur sempre gli stessi che umiliano e quasi stuprano in gruppo un’altra compagna di classe. La tribù può modificarsi, è sempre in fase di consolidamento, ma devi starci dentro. Se ne sei fuori i pericoli del mondo criminale che ti circonda si ripresentano alla porta e si ricreano all’interno del gruppo. Il modo disincantato e feroce con cui viene portato avanti questo discorso fatto di sesso e violenza non solo non lascia spazio a possibilità future ma – di nuovo – ne mostra la natura di dato incontrovertibile e immodificabile.

Se gli adulti in Housekeeping sono incapaci e immaturi, negli altri due film non esistono. E in tutti e tre le ambientazioni, tranne per qualche piccolo dettaglio, sono interscambiabili: sono manifesti di un atteggiamento, specialmente nei balcani, che ha tutto l’aspetto di una resa politica e sociale incondizionata, una resa che arriva dalle fila più giovani (sia i personaggi che le registe lo sono), una resa che ha l’aspetto di un’accettazione femminile della violenza, e di una fuga costante da una realtà in disuso, che non si vuole più cambiare, una realtà in cui una studentessa può essere picchiata a sangue a scuola e nessuno fa nulla, né la cosa crea il minimo scalpore. La differenza col profondo afflato umanista di un film come The Happiest Man in the World [Najsrekjniot Chovek Na Svetot, Teona Strugar Mitevska, 2022], di cui si era parlato nel primo diario di Venezia 79, è abissale: ma Mitevska crede nelle potenzialità trasformative del mezzo che usa (quest’anno alle giornate degli autori è stato presentato il suo 21 Days Until the End of the World, sorta di Caro Diario autoperformativo e saggistico, in cui la regista abbandona la narrazione per la riflessione diretta) e modella i personaggi in modo che gli schemi del cinema a cui può assomigliare, il primo Haneke su tutti, vengano subito destituiti e la caratteriologia assuma i tratti della palingenesi sociale. La madre di Housekeeping, che si arrende a non poter mai essere vera madre, e i ragazzi di Bota Jone e Forever Forever, che non vogliono più cambiare il paese che vivono, né emigrare altrove, sono lo specchio forse di un problema sociale immedicabile, della metastasi dell’Europa più marginale e ignorata, e il cinema n’è il campanello d’allarme.

Il problema dei “film a tesi”

L’ultimo film che ho visto è il documentario Le film pro-nazi d’Hitchcock di Diane Barwig sul quale sarebbe premura stendere un velo pietoso, ma qualche riflessione conclusiva credo la possa stimolare (involontariamente). L’obiettivo che si propone la regista è quello di indagare sulle reazioni suscitate negli anni ‘40 dalla uscita di Prigionieri dell’oceano [Lifeboat, Alfred Hitchcock, 1944], a detta di alcuni (ma non si capisce chi, a parte la giornalista Dorothy Thompson 2) il film reazionario, razzista e “nazista” del grande regista inglese. Durante la presentazione iniziale Barwig ha ammesso di aver impiegato ben cinque anni per fare ricerca d’archivio e preparare il film ma i risultati di questo impegno non si vedono: due terzi sono informazioni reperibili su Wikipedia, e il restante è formato da interviste a (pochissimi) esperti in merito a documenti che loro hanno ritrovato, del resto non così decisivi. Infine le argomentazioni a sostegno dell’ipotesi di un Lifeboat filo-tedesco sono ben poche:

1) Il personaggio malvagio è un tedesco, certo. Ma è visto come furbo e intelligente e alla fine prende possesso dell’imbarcazione. Il che, a una lettura naif, sembra una metafora più che chiara di ciò che avveniva nel Vecchio Continente in quegli anni, e ciò era l’intento sia di Hitchcock che dello sceneggiatore John Steinbeck (a cui il film dedica peraltro un’apologia, tutta incentrata sulla difesa dei diritti civili, e poco sulla letteratura). Per qualche motivo questo renderebbe il film nazista.

2) Gli altri personaggi sono americani e inglesi e finiscono per linciare il tedesco, uccidendolo e gettandolo fuori dall’imbarcazione. Secondo la Thompson (e non si capisce se è anche la tesi del film, ma vedremo dopo) questo non sarebbe di aiuto alla causa americana, perché presenta anche i cosiddetti “buoni” come dei mostri. La visione cinica del regista, in soldoni, non sarebbe adatta alla propaganda. Ma Lifeboat voleva essere certo un film anti-nazista ma non propagandistico.

3) Infine, senza sapere cosa c’entri, c’è la questione del trattamento dell’unico personaggio nero interpretato da Canada Lee, chiamato dagli altri “George”, appellativo razzista e dispregiativo. Cosa che verosimilmente avrebbe fatto chiunque a quei tempi, ma per qualche motivo gli abitanti della barca, peraltro stremati dalla sete e dalla tensione tra loro, dovevano essere proiettati decenni avanti.

Il punto (3) è interessante perché la “soluzione” la presenta lo stesso film subito dopo: viene descritto il finale di Lifeboat con la voce fuori campo di Canada Lee (già di per sé cosa abbastanza rivoluzionaria e progressista) e il linciaggio dei bianchi, chiaro riferimento a ciò che ancora avveniva per le strade americane negli anni ‘40 non certo a danno dei tedeschi e quindi, è il caso di renderlo esplicito, evidente messaggio anti-razzista. L’andamento del film di Barwig è sempre lo stesso: molte chiacchiere su dettagli, e poi è il documentario stesso a smorzare l’hype creato, senza che sia chiara la tesi che vuole enunciare. E tutto questo poco c’entra col nazismo. Primo eclatante caso di film clickbait. 3

Se il Festival era iniziato con Comandante, film che vuole patrocinare un’ideologia e vira su quella opposta sbagliando il tiro, per ironia si chiude (almeno per me) con un film che si presenta come lettura ideologica del cinema (c’è urgenza teoretica e sociale di un saggio sul tema, senza dubbio) ma che è confuso sulle sue stesse idee, e getta fumo negli occhi montando un caso sul nulla, portando l’arte del documentario a misurarsi con le più viete inchieste “bolla” dei giornali, fatte apposta per scoppiare in una giornata. In fondo è l’altra faccia del problema di Garrone, privo di un afflato umanistico e politico puro, o dei film che vengono dall’Europa più estrema, in cui forse sono chiare le idee ma nessuno vuole più combatterle.

Sconsolato lascio il Lido. Ma materiale su cui riflettere in futuro ce n’è, e di certo qui non ci si tira indietro.

NOTE

1 Sono consapevole che a rigore l’Ucraina è un paese est europeo, tuttavia il tipo di narrazione, lo sfondo storico-ambientale e il fatto che, data questa triade, nel film di Stolevski ci sia anche il tema del rapporto tra popolazioni balcaniche e est-europee e su alcune loro somiglianze, oltre al contesto dello sfacelo post-URSS che ha interessato un po’ entrambe le aree (anche se con regimi differenti), sono tutti elementi che mi suggeriscono di sottolineare le similitudini piuttosto che le differenze tra i due modi di intendere società e sua rappresentazione. 

2 Per capire l’attendibilità del personaggio, nel film presentata come una mente eccelsa e grande icona dei diritti civili: era una esperta germanofoba nella stampa USA ed ebbe occasione di intervistare Hitler in persona; a suo giudizio il dittatore tedesco era solo un fuoco di paglia, che non avrebbe attecchito né in Germania né nel resto d’Europa.

3 L’uso di termini come “hype” e “clickbait” è consustanziale al soggetto trattato, per una volta.