Tra la sera del 3 e l’intero 4 Settembre assisto a una serie consistente di omicidi. Ovviamente sullo schermo. Può darsi ce ne fossero anche fuori ma ero in sala. Oltre a The Killer di David Fincher, film netflixiano quant’altri mai, che non ho potuto godere nel pieno delle mie facoltà mentali, la vista annebbiata dalla stanchezza, se ne consuma uno, inaspettato, nel nuovo film di Ryusuke Hamaguchi Il male non esiste [titolo originale: Aku wa sonzai shinai].
Hamaguchi si prende il suo tempo per raccontare una storia semplicissima, peraltro impiegando metà della durata del precedente Drive My Car [2021], e apparecchiando la tavola con molti meno elementi. I tempi sono però dilatatissimi e a una prima parte in cui vediamo nel dettaglio la vita di un tuttofare in un paesino giapponese sperduto nei boschi, comprendente il taglio della legna e la raccolta dell’acqua fiumana munito di un pentolino, fa seguito una seconda parte in cui alcune sequenze si ripetono ma come “inquinate” visivamente. Lo spettatore entra appieno nei ritmi della vita boschiva, e i lunghi minuti di acqua che scorre, senza altri rumori che quelli naturali, sono efficaci nel farci prendere confidenza con una natura incontaminata e pacifica dove davvero il male non può albergare sotto nessuna forma, o al massimo può nascondersi insidioso in alcuni pericoli accettati come inevitabili, perché parte dell’equilibrio delle cose, come le corna di un cervo ferito che si sente in pericolo o una particolare pianta che se non riconosciuta può essere venefica.
La scena spartiacque comprende una riunione cittadina tra i conterranei del factotum impersonato da Hitoshi Omika e i rappresentati di un’agenzia dello spettacolo incaricati di intermediare coi villici gli interessi di una compagnia che vorrebbe costruire un campeggio glamour nei boschi, a uso esclusivo dei ricchi di Tokyo. Gli abitanti hanno in realtà poche richieste, tra cui quella, di puro buon senso, di spostare la fossa settica altrove per evitare l’inquinamento a valle delle falde acquifere. Gli intermediari si lasciano convincere a esplorare i luoghi e rimangono talmente affascinati da voler imparare quei ritmi e quelle usanze con cui noi abbiamo preso dimestichezza durante la visione. La calma, la gentilezza, la solidarietà tra i due agenti e il factotum rimangono invariate, anzi si approfondiscono poiché l’uomo accetta, riluttante, di far loro da mentore. I dettagli che sporcano le immagini sono piuttosto sibillini e non si notano di primo acchito ma l’evento finale fa esplodere inaspettata la violenza, rende necessario l’omicidio in quella landa pacifica, perché si ristabilisca un ordine cosmico violato dalle semplici intenzioni (per quanto buone) dei due stranieri. Quasi tutti gli abitanti sono peraltro stranieri, o figli di coloni del luogo, per cui non c’è un’atavica vita ancestrale da difendere, il loro è un semplice accettare il ritmo e la linearità delle cose, che poi è il medesimo del film. Quando questo si spezza la morte, che sia causata da un cervo, una pianta o da un uomo fino ad allora mansueto, sembra l’unica cura. Hamaguchi ci fornisce la peculiare prova delle possibilità redentrici e salvifiche dell’omicidio, di come la morte di un altro essere umano, per quanto immeritata, possa nascondere una necessità di pacificazione. La certezza che nulla sarà come prima rimane impressa nell’atmosfera, ma non toglie forza alla inevitabilità del peccato. Il male quindi esiste ma essendo necessario è come equivalente al bene, o ne è indistinguibile.
La mattina del 4 un altro omicidio (anzi due. E un tentato omicidio. E pure un omicidio colposo) mi sveglia la coscienza: Woody Allen con Coup de Chance rigetta finalmente in modo radicale e totale la sua americanità, rifiuta il paese che ha così ben descritto ma lo ha sempre respinto, e gira in Francia, in francese e con attori del posto. Lou de Laage, sposata con un ricco snob, si innamora, classicamente, di un suo vecchio compagno di liceo incontrato per caso, e ne nasce una relazione. Ma il marito commissiona l’omicidio dell’amante, e a quanto pare non è un neofita della pratica.
Le reazioni del pubblico in sala sono confuse. Inizialmente l’impressione è di trovarsi davanti a una commedia romantica tipo Cafè Society [2016] o Un giorno di pioggia a New York [A Rainy Day in New York, 2019], poi emergono pian piano i temi dei thriller dostoevskijani del regista da Match Point [2005] a Sogni e delitti [Cassandra’s Dream, 2008], ma – come in Hamaguchi – le immagini sono inquinate da dettagli che sottilmente sporcano la serietà degli eventi e convincono gli spettatori a ridere, dettagli che avvicinano alcune parti del film a soluzioni grottesche, quasi surreali, che possono ricordare i primissimi lavori di Allen, gli slapstick “puri” pre-Io & Annie [Annie Hall, 1977]. In questo modo il malvagio, l’assassino, è spogliato della profondità di Martin Landau o Jonathan Rhys-Meyers, sparisce il tema del senso di colpa susseguente un’azione abominevole, si innesta una breve trama gialla che vede la madre di Lou de Laage condurre un’indagine alla maniera di Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manhattan [Manhattan Murder Mystery, 1993], e il film diventa un’elaborata barzelletta yiddish sugli effetti del caso e della fortuna nella vita delle persone, con un finale che persegue l’obiettivo di rimarcare il concetto di base più che di chiudere la trama, e che risolve finalmente in modo inequivocabile il dramma e l’inquietudine nella farsa.
Questo approccio ci dice molto sulle idee di colpa e di caso sviluppate da Allen nel corso del tempo, specialmente nelle opere che coinvolgono omicidi. Provando a schematizzare, tenendo presenti gli aspetti dello scopo dell’assassinio, della punizione che ne segue e del ruolo della fortuna, potrei progressivamente porla in questi termini:
1) Crimini e misfatti [Crimes and Misdemeanors, 1989]: l’omicidio come soluzione a un problema personale, egoistico, totalmente non punito; senso di colpa presente nelle fasi iniziali poi scomparso. La presenza del caso è meno tematizzata rispetto alle opere successive.
2) Match Point: l’omicidio come soluzione a un problema personale, anch’esso non punito ma il senso di colpa e l’angoscia permangono nel protagonista; il caso gioca a favore dell’omicida.
3) Irrational Man [2015]: omicidio come repulisti, con intenti quasi purificatori della società, giustizialista, intellettuale; il caso punisce l’omicida.
4) Coup de Chance: omicidio plurimo e privo di senso di colpa; il caso punisce l’omicida e ne impedisce un altro, in più ridicolizzandone le azioni e svilendo la gravità degli eventi.
Ne concluderei che Allen con questo film ha avuto una svolta simile a quella di Lanthimos (ne ho parlato nello scorso diario): ha sovvertito nella risata più sguaiata il nichilismo delle sue ultime opere restituendo un equilibrio all’universo, in cui il caso non gioca sempre a sfavore della morale comune, riscoprendo un ottimismo primigenio, e una leggerezza a tratti scomparsa.
Un omicidio, anzi una strage, è quella compiuta da un giovane studente omosessuale (Fabrizio Ciavoni) in una scuola newyorkese nel film di Luca Barbareschi The Penitent – A Rational Man. Se state pensando che l’opera tematizzi la tragedia delle sparatorie nelle scuole siete fuori dai binari: Barbareschi interpreta lo psichiatra del killer che non spreca una sola sillaba a inquadrare psicologicamente e contestualmente il suo paziente e il disagio che può averlo portato a un tale gesto. Il regista incarna un perseguitato dai media (che lo dichiarano ingiustamente omofobo) e dalla legge, la quale vorrebbe costringerlo – per ragioni di procedura penale – ad andare contro le sue convinzioni religiose (è un ebreo da poco rinato) e addirittura il giuramento di Ippocrate. In dialoghi terribilmente prolissi, privi di consequenzialità logica (perché mai l’avvocato della difesa dovrebbe intavolare una strategia così suicida con lo psichiatra come quella di dichiarare che i medici vengono sempre pagati dalla difesa per esprimere un parere favorevole all’imputato? In un paese in cui vige il common law direi, a deduzione, che equivarrebbe a strozzarsi con l’osso) e manie di persecuzione, Barbareschi spara a zero sul politicamente corretto, lo Stato, le leggi, i giornalisti e perfino la psichiatria, in un afflato di fanatismo libertario che indubbiamente imbarazzerebbe Thoureau ma direi perfino Rothbard (e d’altronde il film è clamorosamente dedicato a Jordan Peterson!); ammette però anche la sconfitta, o quantomeno l’ambiguità, delle sue convinzioni religiose, e la quasi impossibilità di farle coesistere con un’etica compiuta e una deontologia inattaccabile. Il sospetto che ci sia delle sostanza dietro le chiacchiere viene in più di un’occasione ma è schiacciata da uno script verboso (firmato da David Mamet, ma ho deciso che per me è un omonimo) e dal protagonismo gigionesco di Barbareschi, il quale non vuole pervicacemente distinguere personaggio e persona (facendo crollare l’ultimo rifugio dei teorici del doppio standard quando si parla di etica dell’arte) e come Kinski-Paganini fa crollare il film su di sé e sui suoi deliri, nonostante il plot twist finale potrebbe restituire di lui un’immagine meno predicatoria, ma a giochi e danni ormai fatti. Se in Hamaguchi l’omicidio era veicolo dell’omeostasi di un sistema, e in Allen è gesto folle talmente inumano da doverlo sgonfiare con una risata, i morti ammazzati per Barbareschi sono solo un pretesto per dei sermoni anti-woke. Apprezzo il buon senso di aver ambientato il film in America, poiché nell’Italia di Sangiuliano e Piantedosi sarebbe stato il tutto ancor meno credibile.
Nella migliore tradizione della commedia dissacrante Hit Man di Richard Linklater smonta tutti i film visti finora a partire da Fincher: il protagonista è un hit man, appunto, un finto sicario della polizia utilizzato per stanare chi vuole assoldare un killer a pagamento, e la sua voce fuori campo dichiara fin da subito “i sicari veri non esistono. Sono una invenzione di cinema e tv!”. Eviterò di soffermarmi su un film che azzecca tutti i tempi comici e riesce a non banalizzare discorsi sull’identità, adottando soluzioni narrative che non hanno nulla di già visto. Ma lo inserisco nella rassegna di oggi perché anche qui un omicidio risolve un problema personale, dà vita a un nuovo amore, a una nuova famiglia, e – nella più totale immoralità – migliora le vita dei suoi esecutori. Per ottenere la felicità e trovare l’amore dovete uccidere: questo il messaggio. Esilarante anche più di Poor Things.
Anche quando privo di omicidi il cinema più intriso di violenza è quello di Shinya Tsukamoto. Hokage lo vedo nella sala più angusta del Lido, alle dieci di sera, e inizia subito con uno stupro per poi convincerci che una nuova, strana, struttura famigliare sta nascendo: una giovane donna che vende il suo corpo, un piccolo orfano cleptomane e un soldato maestro elementare che paga per passare la notte con lei, non la tocca, e insegna l’algebra al bambino. Ma quasi subito irrompe altra violenza, e la famiglia si disgrega lasciando lei da sola preoccupata che il bambino rubi ancora invece di guadagnarsi il pane onestamente. La povertà, la sporcizia (arriva anche la lebbra a un certo punto), il senso di irrimediabile sconfitta, il sangue che non può non scorrere, la pistola che non si può buttare anche se è meglio non usarla, i lividi, i volti sfregiati, tutto concorre a disegnare un mondo distorto, senza punto di fuga, poiché per gran parte girato negli angusti spazi della abitazione di lei, con la porta mai davvero chiusa, mai sicura, insicuro anche lo spettatore che prevede esplosioni di violenza da un momento all’altro. Poi il bambino scappa e fa un “lavoro sporco” per un ex soldato, il quale gli chiede la sua pistola: deve uccidere un suo ex commilitone. E tuttavia il soldato gli spara ma non lo ammazza, lo pesta, lo umilia, e esprime le sue ragioni, le ragioni di chi ha imparato a far del male persino agli amici. Anche se non vediamo mai materialmente morire nessuno la morte in Hokage è molto più presente e palpabile di quanto sia in tutti gli altri film qui trattati. La disperazione ha di nuovo un briciolo di speranza nei due protagonisti, non a caso una donna e un bambino sopravvissuti all’ira del maschio di casa, che alla violenza non rispondono con altra violenza e provano a costruire un’isola di moralità disperata in un mondo altrimenti impaludato. Da quando Tsukamoto ha abbandonato l’orrore urbano per trasferirsi in campagna, o direttamente nel passato, poco è cambiato nei fondamenti della sua arte: tramite essa ci mostra la morte, ma anche la salvezza, per quanto amara, malriposta e spesso soffocata nel fango.