Il solito rocambolesco arrivo al Lido, in occasione dell’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia, è compensato da un’apertura-omaggio a Gina Lollobrigida, scomparsa lo scorso gennaio, con Portrait of Gina [Orson Welles, 1958] e un capolavoro del nostro cinema come La Provinciale [Mario Soldati, 1953], ai quali però il giorno dopo, 30 settembre, hanno fatto seguito orrori di produzione nostrana, giusto per ricordarsi la differenza tra ieri e oggi. In particolare la prima proiezione della Mostra in concorso è Comandante di Edoardo De Angelis con protagonista Pierfrancesco Favino che interpreta il comandante di un sommergibile di guerra realmente esistito durante il secondo conflitto mondiale, che salva dei naufraghi belgi alleati col nemico inglese. Inizialmente il film sembra quasi un romanzo-saggio alla Melville (senza scomodare i grandi titoli può far pensare a Redburn o White Jacket): sono utilizzate vicende anche molto brevi di personaggi secondari con tanto di voci fuori campo che vanno dall’infermiera al sommozzatore napoletano morto in missione, volte ad illustrare le varie sfaccettature della vita su un sommergibile da guerra negli anni ‘40. In realtà persegue una linea narrativa e diventa tonitruante retorica (del genere più pericoloso e “allineato” in questo periodo storico) quando Salvatore (nomen omen) Todaro salva l’equipaggio. Il suo dichiararsi innanzitutto uomo di mare e italiano prima che fascista è quanto di più reazionario si possa dire, condito da frasi inopportune come “noi [italiani] affondiamo le navi nemiche ma salviamo gli uomini”, che dovrebbe essere buon gusto evitare di scrivere visto ciò che succede tutti i giorni a Lampedusa; anche se l’obiettivo è una ricostruzione storica non si può mica scordare il contesto quando si fa un qualunque tipo di discorso. E la risposta del capitano belga fa il resto: “Noi vi avremmo lasciato in mare”. Quasi a voler affermare una differenza antropologica tra i popoli.

Ma è il film apocalittico di Liliana Cavani L’ordine del tempo, titolo rubato a Rovelli, a destare le reazioni più convulse in sala; reazioni di giubilo e risa, certo, ma non è una commedia. Il gruppo di amici intellettuali e scienziati riuniti nella casa al mare della coppia Gassmann-Gerini a discutere di massimi sistemi vorrebbe forse ambire a essere il nostro Malmkrog [id., Cristi Puiu, 2020], cioè un film filosofico e saggistico fatto di solo dialogo, cosa che peraltro perdonerebbe i plot twist improbabili e parodistici o i vicoli ciechi narrativi. In realtà la pseudo-Puiu inanella una serie di banalità sconcertanti da lettori di Harari, Taleb (viene citato “il cigno nero” in un momento in cui in sala sono andati a fuoco tutti gli econometristi presenti) e (ovviamente) Rovelli, con la spocchia tipica di chi ha letto della discreta divulgazione ed è convinto di capirci qualcosa, (uno degli effetti peggiori della divulgazione scientifica), pretendendo perfino di mettere in scena professionisti del campo che dovrebbero saperne più di chi ha scritto la sceneggiatura. Frasi come “la teologia è più complessa della fisica” o “il tempo non esiste” ripetuta di continuo da un fisico professionista (non lo farebbe nessun ricercatore serio perché detta così la frase non vuol dire nulla) ma anche “l’amore è più forte del tempo” (copyright Interstellar [id., Christopher Nolan, 2014]?) derubricano l’intero script a esercizio liceale sui grandi temi dell’universo e tutto quanto. Con chicche come Gassmann, novello Piero Angela dalla mascella volitiva, che in quanto medico (?) ci parla del granchio blu, e Angela Molina suora che ha fatto una tesi sui nazisti ma poi dice che ha studiato fisica (era una tesi su Heisenberg?).

C’è poi la volontà di fare un film colto riempiendo il set di libri ma senza inquadrarli a lungo, così da sembrare meno supponenti. Tuttavia chi volesse cercare un filo in queste letture rimarrebbe confuso perché si va da Euripide (che ispira un discorso sul sacrificio per amore che c’entra poco col resto) a saggi su Tolstoj in inglese fino a Elena Elena amore mio di De Crescenzo durante il dialogo meta-teologico con la suora (ma cosa c’entra?).

Ma siccome gli scivoloni intellettuali non bastavano ci sono anche quelli psicologici ed emotivi. Viene addirittura definito uno stupro un “incidente” (da una donna, peraltro) e ben due personaggi si scoprono bisessuali senza che ce ne fosse bisogno, e non sono le uniche gratuità a livello di caratterizzazione: come non pensare alla domestica preoccupata per il figlio in Perù che però nell’ultimo giorno di vita dell’umanità passa il tempo a servire i “padroni”. I sentimenti che dovrebbero emergere data la particolarità della situazione sono espressi senza pathos e affastellati senza coerenza, così né il discorso intellettuale né quello emotivo sono adeguatamente riprodotti, a prescindere che i personaggi credano di star per morire o siano convinti (non si sa su quali dati) di aver scampato la catastrofe.

Bisognerebbe chiedere al ministro Sangiuliano (che in serata di apertura invece che parlare di cinema e cultura ha parlato di sé stesso: “il mio primo decreto…” o “l’attività di questo governo…”) di introdurre il divieto di parlare di fisica al cinema. Per decreto, appunto. E invitare i nostri anziani content creator a tatuarsi una piccola verità: non c’è discorso intellettuale senza approfondimento. L’alternativa all’approfondimento, tuttalpiù, è la divulgazione, non la chiacchiera da salotto.

La sera vado a vedere uno dei titoli più attesi: El conde. Il tentativo larrainiano di fare satira politica, con grottesco annesso, porta il marchio Netflix (se n’è parlato abbondantemente qui sullo Specchio) e si vede. Se guardiamo al (sotto)genere cioè al film vampiresco Larrain si muove abilmente nel territorio già esplorato del lento incedere della morte (che non arriva mai) vissuto da un vampiro reticente, stanco della sua vita (Claude Pinoche è nato nel regno del Re Sole e poi due secoli dopo è diventato dittatore del Cile) e restio a trasmettere la sua eredità a qualcuno, compresi i debosciati e arrivisti figli e la moglie da sempre desiderosa di seguirlo nell’eterno regno delle tenebre.

In realtà ciò che accade è che una giovane suora indagando sulle fortune accumulate dalla famiglia Pinochet nel corso degli anni irretisce, anche sessualmente, il vecchio generale convincendolo a vivere una nuova vita: una serie di eventi che alzano l’asticella del grottesco e del cattivo gusto un po’ patinato (contraddizione non risolta) portano alla apatica morte di quasi tutti i personaggi ad eccezione dei due succhiasangue supremi, il cui rapporto è una didascalicissima rappresentazione dell’idea per cui la sanguinaria dittatura cilena è “figlia” del neoliberismo (quale finezza!). La satira di Larrain colpisce più quando non cerca la risata e imbastisce un processo, con tanto di documentazione (inserendo molto bene all’interno della struttura narrativa informazioni non così note), ai figli del generale e alle loro migliaia di conti offshore, conti bancari sotto prestanome, finanziamenti illeciti (persino ad Al Qaeda) che hanno contraddistinto l’attività criminale della famiglia anche dopo aver perso il potere. Il tentativo di fare un film grottesco, anch’esso di fantasmi e morte (come Spencer [id., 2021] in fondo), si stempera nella ripetitività del meccanismo e nella piattezza della messinscena: inserire la politica in un gotico apriva a mille possibilità formali anche citazionistiche da Bava alla Hammer e molto altro (tenendo presente la lezione dei vampiri “stanchi” più recente da Jarmusch a Nicolas Cage) totalmente schiacciata dal marchio autoriale netflixiano. Così, oscurata la forma (che dava la metrica ai precedenti biopic bizzarri del regista) ciò che rimane è il discorso politico puro, e questo è fatto di metafore di grana grossa e qualche critica esplicita, intarsiata in un mosaico confuso di piloni narrativi non spiegati (perché Pinochet è francese? Cosa vuol dirci il film sui collegamenti tra la Rivoluzione Francese e il golpe militare ad Allende?) e di battute ad effetto. L’idea di base stimola molto la fantasia dello spettatore e dentro ci si può leggere ciò che si vuole senza che il testo smentisca nettamente l’ipotesi più strana (anche qui un altro rogo involontario: I limiti dell’interpretazione di Eco), ma il colpo calibrato dall’autore, fotogramma alla mano, non va a segno.

Se Larrain tenta l’innesto del politico nel fantastico, nel primo documentario che vedo, Hollywoodgate, il regista afghano Ibrahim Nash’at, sceglie un modo opposto di raccontare quello che egli stesso chiama “il dolore afghano” vale a dire l’influenza totalitaria dei talebani sulla vita dei cittadini: sceglie il punto di vista del “nemico” e si fa concedere un permesso per filmare le vite dei talebani, in particolare del nuovo Ministro della Difesa insediatosi dopo il ritiro delle truppe americane e NATO dal territorio, e dei suoi fedelissimi. Dire “punto di vista” è però improprio: Nash’at non riesce, anzi non vuole, a immedesimarsi negli assassini e nei fondamentalisti e impedisce allo spettatore di fare altrettanto. Li riprende a debita distanza, sia emotiva che fisica, e si premura di specchiarsi spesso sulle superfici riflettenti, telecamera in mano, per ricordarsi/ci di essere una mosca bianca, un po’ paradossalmente, venendo inoltre più di una volta interrotto dal Ministro che non vuole si filmino determinate situazioni. Il film vive nella esibizione costante della propria decisione di non intervenire nel racconto, quasi il regista volesse ricordarsi/ci il pericolo che corre e parlare di quello. L’approccio, oltre che essere un filo contraddittorio, impedisce che si capisca con precisione ciò che avviene, o che ci si interessi, e viola quindi l’obiettivo di voler offrire la realtà nuda e cruda, nella classica tradizione del documentarismo ingenuo. Verso la fine poi il commento appare sotto forma di colonna sonora emotivamente studiata e lo spettatore è di nuovo gettato in confusione: è un film a tesi che non ha il coraggio di esprimere la sua tesi (ma preservando il coraggio di “gettare il proprio corpo nella lotta”, risultando quindi una performance del regista ma a questo punto non abbastanza esibita)? Oppure è un film da “mosca bianca” appunto, ma allora sarebbe stato auspicabile, oltre che un maggior didascalismo (dov’è quando serve?), e una minor presenza dell’autore, anche la scelta, moralmente ambigua (ma perché Herzog dovrebbe essere passato invano?), di farci immedesimare in qualcuno con cui non possiamo condividere nulla e far crollare la coscienza dello spettatore. Insomma la famosa magia del cinema, di cui tanto si vaneggia.

Il secondo giorno inizia all’insegna di Michael Mann e del suo biopic su Enzo Ferrari (Adam Driver praticamente perfetto) che ricorda una versione seria della farsa che fu House of Gucci [id., Ridley Scott, 2021]: la potenza del marchio, la sua inviolabile italianità, il problema annoso della sua moltiplicazione, là attraverso la contraffazione che mandava in crisi ansiogena Lady Gaga qui attraverso l’ereditarietà. Ferrari ha perso un figlio di 24 anni, tragicamente, ma ne ha uno illegittimo che non può riconoscere finché la moglie Laura (Penelope Cruz) detiene metà del patrimonio della casa automobilistica. Laura non vuole che il suo cognome, suo per diritto acquisito e del figlio defunto, passi al frutto di una relazione extraconiugale. Il film è costellato di morte fin dal principio: muoiono piloti o semplici tifosi (come nell’incidente di Guidizzolo che ha fatto sussultare l’intera sala: pochi altri ci riescono ancora, come mi fa notare sottovoce un “collega”), è morto Dino Ferrari e lo stesso Enzo ricorda spesso la morte di due suoi cari amici, probabile motivo della conclusione della sua breve carriera di pilota. Il marchio, equivalente al nome, è il tentativo di resistere alla morte, creare qualcosa che la sconfigga e la superi, e necessita di propagazione. Il film vive di una sospensione del ritmo tra una corsa e l’altra che ricorda a tratti Nemico pubblico – Public Enemies [Public Enemies, 2009], uno dei film meno “sontuosi” di Mann, e costituisce un nuovo tentativo di fare epica tra gli interstizi delle situazioni, nelle pause di riflessione dell’immagine, chiudendo con un finale altrettanto cimiteriale, in cui la dolcezza del gesto paterno si consuma all’interno della inquietudine causata da un destino segnato, dalla irrevocabilità del nome. La negazione del motto del Romeo di Shakespeare (ricordato in una scena del film visto subito dopo: Dogman di Luc Besson): a differenza di una rosa se cambi il nome a un marchio non è più lo stesso perché il nome è l’essenza.