Quanto tempo è necessario per costruire un mondo? Quanto per distruggerlo?
Quanto tempo serve per fare arte? E quanto per dimenticarla?

Quando si analizzano opere d’arte e prodotti cinematografici distanti, apparentemente slegati ed estranei, sia dal punto di vista cronologico e spaziale, sia nel segno della poetica e dello stile, possono sorgere alcune domande come queste, soprattutto nel momento in cui i dettagli divengono protagonisti. Nei tre film che qui verranno citati, un solo dettaglio formale e contenutistico sembra tessere un filo rosso tra operazioni e stili differenti, con intenzioni altrettanto distanti ma sotterraneamente legate, forse dalla stessa cultura visuale. Il concetto delle Pathosformeln teorizzato da Aby Warburg1, letteralmente «forme del pathos» che si tramandano cronicamente nella storia delle immagini, può qui assumere una rilevanza epistemologica importante, seppure utilizzato qui in senso strumentale per comprendere la natura di un dettaglio. Warburg fu in grado, infatti, di aprire il campo della storia dell’arte all’antropologia per “aprirne il tempo”: Georges Didi-Huberman, analizzando l’operato dello storico dell’arte, ne rileva e ripropone il metodo, scovando le sopravvivenze delle immagini. La riattivazione dell’antichità classica in altre forme e in altri formati tecnici, in un movimento a-temporale, quindi esterno ed estraneo allo scorrere evoluzionistico del tempo, si accompagna alla consapevolezza del valore di un approccio psicologico, elemento che la ricerca in storia delle arti tenta di avere. Seguendo tale importante tracciato, è possibile trasportare la ricerca di sopravvivenze iconiche anche all’interno del solo mondo contemporaneo, all’interno del quale si intende qui muoversi.

Il primo film che proponiamo, in ordine cronologico, è Buongiorno Michelangelo che l’artista Ugo Nespolo girò nel 1968-‘69 nello studio del collega Michelangelo Pistoletto e per le vie di una Torino d’inverno (sono riconoscibili via Madama Cristina, i portici di via Roma, piazza CLN, piazza Castello). Nespolo riprende in modo privato e amatoriale, quasi fosse un home movie (un filmato familiare a passo ridotto), l’amico artista mentre lavora ad una propria opera a specchio, lucidando la superficie nella quale poi egli si riflette per farsi la barba, “in barba” ai benpensanti e all’arte auratica. Ai protagonisti uomini-artisti si sostituisce in breve tempo un nuovo oggetto-personaggio, una grande sfera realizzata con fogli di giornale pressati, la quale viene fatta rotolare fuori dallo studio, caricata in auto e portata in giro per le vie di Torino. La sfera, ossia un’opera d’arte che era stata esposta nella famosa installazione torinese di Pistoletto chiamata Oggetti in meno (tra il dicembre 1965 e il gennaio 1966)2, in cui le opere non significavano un rifiuto della forma, ma la forma che prende vita, intraprende un percorso vario, interagisce con i passanti, i quali a volte la spingono e altre l’abbracciano.

Alcuni frame dal film Buongiorno Michelangelo (Ugo Nespolo,1968-’69) con la sfera di Pistoletto.

La grande palla crea il caos in una città così rigorosa, sfila a fianco dei palazzi ordinati, passa sotto i portici e in autobus. Come afferma Paolo Bertetto in Nespolo, questo si presenta come «un viaggio ironico e irrazionale, che propone una nuova lettura della passeggiata assurda di origine dada e surrealista»3. Quando si fa sera, nel buio la sfera viene illuminata con fari abbaglianti da Mario Mertz, assumendo quasi le sembianze di una luna. Tommaso Trini, Daniela Palazzoli, Gian Enzo Sperone e Zorio si buttano in un carosello sfrenato attorno ad essa, personaggio “fuori norma” che turba l’ordine e attrae per l’irrazionalità del gioco. Scrive Nespolo: «Così, se il giorno è improntato alla norma, la notte che giunge a un tratto scatena l’ira di quella luna manipolata […] La palla diviene un rombante proiettile di felicità contro le fredde cose della notte, auto e muri lucidi […]»4.

Frame dal film Buongiorno Michelangelo (Ugo Nespolo,1968-’69).

Questa luna nella notte è anche un mondo, un micro (o macro?) cosmo di turbamento, irrazionalità, umorismo, artigianalità; ed essendo costruito con fogli di giornale, come variante della cartapesta, rappresenta anche la contemporaneità, la cronaca, l’informazione, in una condivisione ante litteram e pedestre di notizie sporche di fango. 

Se Pistoletto costruì una palla-luna e Nespolo la riprese, Matteo Garrone nel suo film Estate romana (2000, disponibile su MUBI) fa ricostruire il mondo. Questa volta la rappresentazione è mimetica, la sfera appesa nello studio dello scenografo (interpretato da Salvatore Sansone) è il mondo per davvero, con acqua dipinta di blu e con le terre emerse. 

Frame dal film Estate romana (Mattero Garrone, 2000).

Qui il mondo serve per una scenografia teatrale e quando giunge il momento di smontarlo e di consegnarlo al regista, esso non passa dalla porta. Con fatica e umorismo da commedia slapstick, il mondo “viene giù”. Ma il trascinamento lungo le scale strette del palazzo antico e le spinte degli uomini di teatro, ammaccano il mondo di cartapesta e macchiano le mani di vernice. L’artigianato della costruzione manuale di mondi e lune è lo stesso, seppure con una distinzione: nel primo caso, nel pieno degli anni Sessanta e delle sperimentazioni artistiche dell’Arte povera, questo globo rappresentava un ironico e provocatorio “altro”, una forma gentile e sorniona, costituita dalla cronaca dei giornali e dall’irriverenza, come scarto dal quotidiano (in entrambi i sensi di quotidianità e di giornale); nel secondo caso, il mondo è costruito dal nulla grazie a materiali che incarnano la lunga tradizione delle arti minori e della costruzione scenografica, tesa all’imitazione del vero innocuo. In una Roma trasformata dai lavori strutturali e di abbellimento indetti per il Giubileo del 2000, coperta da teli per le ristrutturazioni delle facciate dei palazzi, il gesto artistico racchiuso nell’ammaccatura della cartapesta, apparentemente insensato dopo ore e giorni di lavoro, è fatto dallo scenografo Sansone come ripiego creativo dopo aver lasciato il lavoro di avvocato; il mondo quale opera d’arte diviene l’ultima possibilità di azione artistica in una città che cerca di rimuovere la propria storia, di cambiare e migliorare l’esterno, quando all’interno si muore di caldo e di stenti. Si sente “la sabbia in gola” dice Rossella Or, in un’estate rovente e sudata, affaticata dalla dimenticanza.
Il mondo viene portato in strada e fatto rotolare nell’indifferenza dei passanti. Qualcuno forse vorrebbe acquistarlo, ma non riesce, e dunque quel mondo, caricato in macchina come nel film di Nespolo, diventa oggetto tra gli oggetti sulla spiaggia, “oggetto in meno”. Viene dimenticato lì, abbandonato; Salvatore aveva già capito che non gli avrebbe portato guadagno, perché l’arte deve essere gettata via per poter continuare a vivere. 

Frame dal film Estate romana (Mattero Garrone, 2000).

Nuccio Ordine professava L’utilità dell’inutile5 e qui, in una Roma che sta perdendo la memoria, si buttano via anche gli attori, le anime sotterranee che l’avevano animata negli anni ‘70, brulicando nelle cantine dei teatri off. Il gettarsi via consapevole, il nichilismo esistenziale di tutta una generazione è rappresentato da Victor Cavallo, che afferma nel film di avere una serie di tristezze molto confessabili di cui però non ha voglia di parlare, e da Rossella Or, che sembra riemergere (o annegare?) da un passato liquido e si aggira aliena, sempre sudata, sempre sul punto di svenire, sempre fuori posto, sempre arrendevole e maltrattata, poiché incarnazione di quella Roma sonnolenta e infrattata che si vuole rimossa con i nuovi lavori.

Frame dal film Estate romana (Mattero Garrone, 2000) con Rossella Or.

Rossella Or ritorna come dopo un lungo viaggio, da un passato di cantine e di garage, dove faceva spaccate come gesto artistico e teatrale, in un mondo dove la parola non bastava e non serviva più, sostituita dal gesto, dall’atto di un teatro d’immagine e di suoni, come quello di Memè Perlini6.

Il globo di cartapesta si trasforma poi, nel terzo e ultimo film di questa rassegna, in un mondo di plastica illuminata dall’interno in una notte romana, nella quale gli attivisti per il clima scendono in piazza a protestare per la mancanza d’acqua. In Siccità (2022, disponibile su Prime Video) Paolo Virzì sembra citare, attualizzandola, quella situazione rovente e assetata (di acqua? di attenzione? di cura?) già presente ventidue anni prima, ambientando il proprio film in un soffocante e distopico futuro prossimo in cui a Roma non piove da tre anni e manca l’acqua persino dal Tevere, dove gli interessi economici di pochi si contrappongono alle necessità di molti, dove l’asfissia letterale e metaforica di un folto gruppo di personaggi sembra impedire ogni redenzione, fino a che non ricomincia a piovere.
Come venti anni prima, ma con segno opposto, il leggero globo sospinto a mano nella piazza dagli attivisti del clima si fa segnale, indice di un’urgenza, slogan per una mancanza e incarnazione trasparente di una rivendicazione. È un mondo illuminato, che non macchia le mani di vernice ma che segna un percorso nella notte, divenendo immagine della realtà (- finzione) come i fogli di giornale lo erano (davvero) nel film di Nespolo. Virzì sembra riproporre l’artigianalità dei globi di Nespolo e Garrone, seppure declinati secondo una cifra contemporanea di luminosa e plastificata manifattura. L’immagine, dal simbolo dell’opera di Pistoletto, al segno dello scenografo di Garrone, torna indice, manifestazione chiara e lampante di uno slogan che forse toglie poesia alla sopravvivenza. La realtà rotola via, perché spinta, dipinta o sollevata in corteo.

Frame dal film Siccità (Paolo Virzì, 2022) in cui si vede il globo portato in corteo.

Quanto tempo è necessario quindi per costruire un mondo? Quanto per distruggerlo?
Quanto tempo serve per fare arte? E quanto per dimenticarla?

Queste domande rimangono forse sospese, come un mappamondo appeso al soffitto di uno studio d’artista, ma la riflessione sul tempo del ricordo e sul ricordo del tempo non dovrebbe sfuggirci mai, dovrebbe rotolare davanti a noi, spinta dalle nostre mani, sempre più sporche di fango e di pittura.  

NOTE

1. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, trad. it. A. Serra, Bollati Boringhieri, 2006.

2. Cfr. Michelangelo Pistoletto, www.pistoletto.it/it/crono06.htm

3. Cfr. L. Beatrice, P. Bertetto, V. Fagone, P. Levi, L. Parola (a cura di), Nespolo. Le Stanze dell’Arte, a c. di, Palazzo della Promotrice delle Belle Arti, Torino, 8 maggio – 30 giugno 1996, Torino, Giulio Bolaffi, pp. 66-82.

4. La citazione intera è «Scrive Nespolo, mimando vagamente il linguaggio “basso” del Gruppo 63 e di Sanguineti in particolare: «Senza drammi il Pistoletto si sbarba nella lamiera, poi con Daniela e Maria ti spingon fuori (su per la rampa) la gran palla personaggio-principe fin dentro la rossa decapottabile e in inverno pieno. Si va tutti nella Torino nebbiosa color domenicale verso il buio centro e senza cattiveria, con naturalezza bonaria anzi, si ramazza su fatti e persone mai visti prima. Poi la gente intorno si stanca presto di guardare inerte e con rapidità di fulmine si butta sulla palla-gran-signore e te la manipola nei modi più impensati. Il grande oggetto inerte si lascia dondolare sornione e rotolone (è un attore pieno di spirito) e si lascia anche posteggiare dinnanzi al bar Patria, ritrovo di bella gente e di noti sfaccendati. Così, se il giorno è improntato alla norma, la notte che giunge a un tratto scatena l’ira di quella luna manipolata e in un attimo Trini, Daniela Palazzoli, Sperone, Zorio e compagnia si buttano in un carosello sfrenato, mentre il buon Merz regge le lampade con perizia anche troppo nota. La palla diviene un rombante proiettile di felicità contro le fredde cose della notte, auto e muri lucidi, poi, in un’alba che arriva di botto, si tramuta in una smisurata rosa che con gambette di traverso fila per strade e piazze per finire lontano, dopo un girotondo di gaia memoria, chissà dove, a bordo di un autobus di linea provvidenzialmente giunto», Cfr. Ibidem

5. N. Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto, Giunti Editore S.p.A. / Bompiani, Firenze, 2022.

6. A proposito, il bel documentario L’altro teatro, ideato dai critici Giuseppe Bartolucci e Nico Garrone (padre di Matteo), con la regia di Maria Bosio, prodotto da Angelo Guglielmi nel 1980, diviso in tre puntate (I protagonisti delle CantineI Comici ed altri protagonisti e Teatro in periferia e Festival dei Poeti), traccia perfettamente quel mondo ormai perduto, intervistandone i protagonisti. Ed è proprio qui (dal minuto 36 circa) che ritroviamo Rossella mentre esegue le sue spaccate per Perlini, vitalmente elastica.