Busan, Corea del Sud. Jang Hae-joon è il detective incaricato delle indagini sulla morte di Ki Do-soo, un ufficiale dell’immigrazione caduto dalla cima di una montagna sulla quale era solito arrampicarsi nel tempo libero. Sembrerebbe trattarsi di suicidio ma alcuni indizi fanno sospettare della moglie cinese dell’uomo, Song Seo-rae. Il fascino della donna metterà a dura prova l’integrità del poliziotto, già provato da problemi di insonnia e da un rapporto tutt’altro che appagante con la moglie.

Con Decision to Leave [He-eojil gyeolsim, 2022] il regista coreano Park Chan-wook sceglie di parlare di amore mettendo da parte gli eccessi di Oldboy [Oldeuboi, 2003], per lasciare spazio a un racconto più intimo, sofisticato, personale, una storia d’amore nella quale le parole io-ti-amo non vengono mai pronunciate. Decision to Leave ci riporta alla mente le parole di Barthes:

Colui che non dice io-ti-amo (attraverso le labbra del quale l’io-ti-amo non vuole passare) è condannato a emettere i segni multiformi, indefiniti, dubitativi, avari dell’amore, i suoi indizi, le sue “prove”: gesti, sguardi, sospiri, allusioni, ellissi: egli deve lasciarsi interpretare1

Come vedremo, il film di Park ci invita a interpretare i «segni dell’amore», compiendo una riflessione sui legami sentimentali che si vengono a creare fra persone adulte che hanno imparato a dissimulare le debolezze e i desideri dietro un atteggiamento rigorosamente controllato.

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In varie interviste, Park ha citato Breve incontro [Brief Encounter, 1945] di David Lean e Tormento [Midareru, conosciuto anche col titolo internazionale Yearning, 1964] di Naruse Mikio quali fonte di ispirazione di Decision to Leave. In entrambi i film, una passione esplosa all’improvviso è costretta a esprimersi attraverso un linguaggio non verbale, fatto di piccoli cenni e sguardi furtivi, dovendo fare i conti con le rigide convenzioni sociali dell’epoca.

In Breve incontro, la storia d’amore fra la casalinga, moglie e madre, Laura e il medico sposato Alec si consuma in poche settimane, raccontate dalla donna in un sofferto monologo interiore che non trova il coraggio di esternare al marito. L’ultimo addio fra i due amanti, mostrato all’inizio del film con uno stile piano privo di enfasi, assume tutt’altra valenza a racconto concluso, dopo che lo spettatore ha assistito al tormento e all’angoscia che la fugace liaison ha portato nelle loro rispettabili ma incolori esistenze. I gesti trattenuti dei poveri amanti nascondono una geografia di emozioni che Lean riesce a catturare attraverso differenti angolazioni e leggeri movimenti della macchina da presa, soffermandosi sul volto della protagonista, i cui occhi non smettono d’interrogare lo spettatore.

Ritroviamo una situazione analoga in Decision to Leave, quando Hae-joon e Seo-rae si incontrano in compagnia dei rispettivi partner al mercato del pesce di Ipo. Il caso della morte di Do-soo è stato archiviato come suicidio; Hae-joon si è lasciato alle spalle Busan e tutti i suoi casi irrisolti per stare vicino alla moglie e ritrovare l’equilibrio perduto. Park muove la macchina da presa riprendendo i quattro soggetti da diverse angolazioni, talora singolarmente, a coppia o tutti nella medesima inquadratura, per comunicare il delicato intreccio di relazioni; mentre i personaggi si scambiano i consueti convenevoli di presentazione gli occhi di Hae-joon e Seo-rae parlano un’altra lingua.

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Anche Naruse in Yearnig fa ricorso a particolari movimenti di macchina per esprimere la relazione dei due protagonisti, la vedova di guerra Reiko e il fratello del defunto marito Koji, che nel Giappone del secondo dopoguerra vorrebbero contravvenire ai rigorosi codici morali e sociali di un paese umiliato dalla guerra ma proiettato verso il suo periodo di maggiore crescita economica. Dopo la dichiarazione d’amore del cognato, Reiko comincia a provare verso di lui un sentimento diverso dal semplice affetto fraterno ma questa «confusione» si scontra necessariamente con la realtà dei fatti: troppi ostacoli negano loro la possibilità di un idillio amoroso.

Sia Naruse che Park evidenziano visivamente la distanza che separa gli amanti con il classico utilizzo di inquadrature nelle quali i personaggi vengono ripresi «ingabbiati» da sbarre o grate.

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In Decision to Leave ad accentuare questo senso di distanza contribuiscono anche le barriere linguistiche, un espediente già utilizzato da Park in passato (ad esempio in Lady Vendetta [Chinjeolhan geumjassi, 2005]). In Decision to Leave,  piuttosto che sottolineare un’inconciliabilità di tipo culturale e/o politico, le barriere linguistiche diventano espressione della difficoltà di comunicazione fra due anime profondamente diverse.

Il primo faccia a faccia nella stanza degli interrogatori fra Hae-joon e Seo-rae trascende i limiti del confronto tradizionale fra poliziotto e sospettato, trasformandosi in una sorta di gioco di seduzione che le barriere linguistiche rendono particolarmente intricato. Lo si vede dal modo in cui Park riprende in un’unica inquadratura Hae-joon e Seo-rae, seduti l’uno di fronte all’altro, e i loro doppi riflessi nello specchio sullo sfondo. Mentre Seo-rae parla in cinese il suo volto è a fuoco, quello di Hae-joon no; l’esatto contrario accade per le loro immagini speculari; durante la traduzione in coreano delle parole della donna attraverso un’applicazione del suo smartphone, il volto di Hae-joon risulta a fuoco, quello di Seo-rae è invece sfocato; lo stesso accade al loro riflesso speculare, che risulta alternativamente a fuoco o fuori fuoco.

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decision to leave specchioLa scena dell’interrogatorio si distingue per uso particolarmente creativo degli effetti VFX.

Durante l’interrogatorio, Seo-rae ricorda a Hae-joon le parole di Confucio: «I saggi amano l’acqua, i gentili le montagne», e confessa all’uomo di non essere una persona gentile poiché ama il mare. L’interrogatorio devia su un terreno molto personale che Hae-joon non esita a percorrere; anch’egli, infatti, confessa di preferire il mare. Più avanti ripeterà alla moglie di essere «l’uomo del mare»; ciò nonostante nel corso del film lo vedremo molte volte arrancare in salita, cercando di guadagnare la vetta della sua montagna. In effetti è difficile credere che un uomo del suo temperamento possa lasciarsi trasportare dall’imprevedibilità del mare. Nel film, ogni suo gesto, ogni suo comportamento è teso al raggiungimento dell’obiettivo che il lavoro gli ha assegnato, assicurare il colpevole alla giustizia, dare pace alla vittima, «catturare l’ultima persona che quegli occhi hanno visto». Tuttavia i casi irrisolti lo perseguitano senza sosta; nonostante vi sia in lui una volontà ostinata di fare chiarezza (significativo il suo uso frequente del collirio), di rimettere a posto le cose (anche i cuscini impilati non perfettamente allineati), di essere sempre pronto a qualsiasi situazione (perché una persona può uccidere anche nel suo giorno di riposo), egli sembra destinato a una lenta discesa nell’abisso, una discesa avvolta nella nebbia, la stessa che dà il titolo a una popolare canzone coreana alla quale Park dice di essersi ispirato nel concepire il film2.

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È proprio questa l’atmosfera in cui si immerge la narrazione, segnata da un’ambiguità reiterata, più o meno manifesta, che induce ad analizzare i piccoli particolari per scoprire che certe immagini traggono in inganno e sfuggono a un’immediata comprensione. Paolo Bertetto ne Lo Specchio e il simulacro, riprendendo Harneim, cita la trovata dello shaker nel film Charlot e la maschera di ferro [The Idle Class, 1921]; il personaggio interpretato da Chaplin legge un biglietto nel quale sua moglie gli intima di smettere di bere, l’uomo si volta verso il tavolo sul quale è adagiata una foto della consorte, la contempla e il suo corpo comincia a sussultare, come scosso da quelle parole ma nel momento in cui egli si volge verso la macchina da presa scopriamo che sta semplicemente agitando lo shaker per prepararsi un drink. È un esempio di come «l’inquadratura è costruita per comunicare un’informazione falsa allo spettatore e poi attraverso una semplice variazione dell’azione dell’attore nel profilmico si determina una smentita dell’impressione precedentemente prodotta».3

Un simile effetto di illusione visiva avviene durante uno dei momenti in cui Hae-joon sorveglia Seo-rae nel suo appartamento. L’uomo osserva la donna con un binocolo, annotandone i comportamenti sul registratore del suo smartwatch; mentre l’uomo continua a descrivere le azioni di Seo-rae ci accorgiamo che adesso egli si trova all’interno dell’appartamento, come una materializzazione del suo desiderio di esserle vicino; lei si trova sul divano, la testa riversa sulle ginocchia, si muove ondeggiando mentre fuma una sigaretta, Hae-joon sentenzia «sta piangendo…finalmente» ma a questo punto la macchina da presa ci rivela il volto della donna che viceversa sta sorridendo.

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Park fa di tutto per confondere la percezione dello spettatore e, allo stesso tempo, avvinghiarlo al racconto. Proprio come Hae-joon si lascia affascinare da Seo-Rae, lo spettatore si lascia infatti sedurre dall’esperienza cinematografica. Lo sguardo del detective che in certi momenti si fissa ammaliato sul volto della donna incarna l’occhio del fruitore. Come sostiene Bertetto, «[l]a singolarità dell’esperienza dello spettatore di cinema consiste nel suo essere immerso in un doppio regime psichico, che permette alternativamente l’esperienza dell’essere sedotto e l’esperienza dell’interpretare».4

Park inscrive una narrazione complessa e spesso indecifrabile all’interno di un meccanismo suggestivo di fronte al quale non si può che rimanere ammaliati, proprio come Seo-rae che guarda i melodrammi coreani in tv e ne replica parole e modi di fare nella vita reale.

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Seo-rae potrebbe aver visto anche Morte a Venezia (Luchino Visconti, 1971): la donna, a un certo punto, assume una posa che ricorda molto quella di Tadzio nel finale del film di Visconti, con quel suo gesto enigmatico che indica un punto indefinito nel mare sulle note dell’Adagietto di Mahler, brano non a caso utilizzato anche da Park nel momento in cui assistiamo alla ricostruzione della morte del primo marito di Seo-rae.

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Secondo il musicista Gustav von Aschenbach, protagonista del film di Visconti, la bellezza può essere raggiunta solo attraverso lo spirito; eppure, nel momento in cui i suoi occhi si posano sul viso dalle sembianze d’angelo del giovane Tadzio, ciò che prova è, prima di tutto, un incontrollabile sovvertimento dei sensi, una sensazione di vertigine, come quella che investe Scottie la prima volta che vede Madeleine ne La donna che visse due volte [Vertigo, 1958]. La stessa cosa accade a Hae-joon nel suo primo incontro con Seo-rae.

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Anche se nega di aver pensato a La donna che visse due volte durante la lavorazione di Decision to Leave, Park ha più volte riconosciuto di trovarsi inconsciamente sotto l’influenza di Hitchcock. Intenzionale o meno, è impossibile non scorgere nel film le suggestioni hitchcockiane, la medesima ambiguità delle immagini, la precisione geometrica, la connotazione dei colori. È il colore verde in particolare a essere utilizzato sia da Hitchcock che da Park in funzione espressivo-psicologica.

Lo storico francese Michel Pastoureau definisce il verde «un colore ambivalente, se non ambiguo: simbolo di vita, di fortuna e di speranza da una parte; segno distintivo del disordine, del veleno, del diavolo e di tutte le sue creature dall’altra»5. Durante il primo incontro tra Scottie e Madeleine al ristorante, la donna indossa uno scialle verde smeraldo che la distingue dal resto della sala grazie anche all’uso del complementare colore rosso sulla parete retrostante; più avanti nel corso del film Hitchcock utilizza altre sfumature di verde per evocare di volta in volta il differente grado di intensità emotiva dei personaggi nonché la condizione di incertezza nella quale gli stessi si muovono. Park gioca molto di più sulla percezione soggettiva del verde, colore secondario, frutto dell’incontro tra un colore caldo e uno freddo e che per sua natura si presta a mutevoli interpretazioni; la verità, si dice, sta nell’occhio di chi guarda e se da un lato il verde può essere visto come il colore dell’equilibrio e della quiete, come nella scena in cui Seo-rae cerca di far addormentare Hae-joon armonizzando il suo respiro con quello dell’uomo, mentre regola la luce nella stanza fintanto da assumere una colorazione verdastra, dall’altro diventa un elemento disturbante in grado di suscitare sensazioni ingannevoli, come il vestito che Seo-rae indossa sulla scena del delitto del secondo marito che alcuni sostengono essere blu ed altri verde.

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Nella struttura bipartita del film, Park, al pari di Hitchcock, decide di sciogliere il mistero della morte di Do-soo alla fine della prima parte; in questo modo, lo spettatore può focalizzarsi sullo stato d’animo dei personaggi piuttosto che sulla soluzione dell’intreccio.

Tuttavia, se Hitchcock concentra la seconda parte de La donna che visse due volte su Scottie e la sua ossessione per Madeleine, che lo spinge a volerne riprodurre una copia perfetta, Park sceglie invece di ribaltare la prospettiva e far parlare Seo-rae. Adesso è lei a spiare il detective, a prendere nota dei suoi movimenti con il suo smartwatch, a indagare il suo stato d’animo, cercando di rimettere a posto i pezzi di un uomo corrotto dalle sue debolezze, complice di un amore che per realizzarsi deve passare attraverso la morte.

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«Laura se tu muori mi dimentichi e io voglio essere ricordato», dice Alec in Breve incontro; “decidere di partire” è per Seo-rae il modo per non annegare nel mare della dimenticanza. In un finale indimenticabile, i due amanti di Decision to Leave condividono la medesima immagine ma con diverse prospettive: un orizzonte limpido e tuttavia ignoto, forse pacificante per chi lascia, oltremodo lacerante per chi resta.

NOTE

1. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2021, pag. 124

2. Mist è la canzone d’esordio della cantante sudcoreana Jung Hoon-hee, uscita nel 1967 contemporaneamente al film dal medesimo titolo diretto da Kim Soo-yong, nel quale un uomo d’affari di Seul, sposato con una donna benestante, torna nella sua città natale per allontanarsi dal ritmo frenetico della vita metropolitana; a Mujin, piccolo villaggio costiero perennemente avvolto nella nebbia, egli conosce un’insegnante di musica con la quale vive una breve relazione che lo spingerà a riconsiderare la sua vita e ciò che è diventato

3. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, pag. 205

4. P. Bertetto, Op. Cit., pag. 46

5. M. Pastoureau, Verde. Storia di un colore, Milano, Ponte alle Grazie, 2018 (edizione digitale)