Difficile dire se, nel ristretto nucleo di grandi cineasti emersi nel panorama cinematografico nordamericano degli anni Novanta, David Fincher rappresenti una vera anomalia. Certamente non è attratto dalle grandi mitologie novecentesche come Paul Thomas Anderson, né ha creato con i suoi film un universo condiviso come nel caso di Wes Anderson. Eppure, quella del regista di Zodiac è una firma immediatamente riconoscibile: non tanto per unitarietà tematica, come vorrebbe una rigorosa politique des auteurs (anche se, come intuibile dalle riflessioni che seguono, non è impossibile tracciare collegamenti tra i suoi film) quanto invece per il rigore di una messa in scena ipercontrollata, meticolosa ai limiti della maniacalità, dove ogni elemento è dotato di una funzione e di un senso precisi. Si prenda come esempio Seven: ogni stacco di montaggio, ogni oggetto del décor e ogni taglio dell’inquadratura sono in grado di sintetizzarne l’universo narrativo. Proprio per questo, è spesso molto più semplice isolarli e caricarli di significato. L’esatto contrario di quanto si era detto a proposito di Christopher Nolan, i cui lavori presentano una concezione operistica che rende arduo separare la singola unità dal tutto, scinderne le particelle elementari dal continuum. All’opposto, per Fincher ogni immagine è il risultato di un preciso lavoro di architettura. Conseguenza inevitabile, forse, di un percorso iniziato con gli studi di pittura, proseguito con l’apprendistato alla Industrial Light & Magic (la società di effetti speciali creata da George Lucas, per la quale lavorerà a film come Star Wars – Episodio VI – Il ritorno dello Jedi [Star Wars: Episode VI – Return of the Jedi, Richard Marquand, 1983] e Indiana Jones e il tempio maledetto [Indiana Jones and the Temple of Doom, Steven Spielberg, 1984]) e fortificato con la palestra della pubblicità e dei videoclip (alcuni rimasti celebri, come quello per Vogue [1990] di Madonna). Da qui il passo al cinema è breve: l’esordio alla regia con Alien3 lo pone già fatalmente nel mezzo della forbice tra classicismo e postmodernità che poi caratterizzerà la sua filmografia. E se il successivo Seven è un capolavoro che, dopo Il silenzio degli innocenti [The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991], chiude idealmente la stagione del neo noir novantesco e diventa un modello da imitare e replicare, Fight Club, piaccia o non piaccia, ne testimonia la capacità di assorbire gli umori, le idee, i cambiamenti e le tensioni del suo tempo all’interno delle strutture formali dei suoi lavori (basti pensare agli spazi virtuali di The Game – Nessuna regola e Panic Room). Non a caso, Franco Marineo colloca il film (insieme ai coevi Matrix [id., Andy (poi Lilly) Wachowski e Larry (poi Lana) Wachowski, 1999] ed Eyes Wide Shut [id., Stanley Kubrick, 1999]) in un’ideale punto di passaggio tra il cinema del Novecento e quello d’inizio millennio. Non solo perché «mette una dentro l’altra la crisi del capitalismo occidentale e quella dell’umanità immobilizzata nel passaggio millenario (facendone) davvero un possibile film-sintesi rispetto alle tensioni psicologiche (psichiatriche, talvolta) che stringeranno d’assedio l’immaginario futuro, e alle agitazioni sociali transnazionali che ridisegneranno negli anni successivi lo scenario politico e cognitivo di molte parti del mondo» ma soprattutto per come diventi «certificazione di una realtà succedanea che ha coinciso con quella filmica». Come poi confermerà con la sua piena adesione al cinema digitale (la cui rivoluzione ha raccontato in The Social Network): via via sempre più ambiguo (pensiamo a L’amore bugiardo – Gone Girl), indecifrabile (in Zodiac i segni non restituiscono più un quadro univoco di realtà) e in grado di mettere in crisi la prassi di causa ed effetto o le tradizionali normative spaziotemporali (Il curioso caso di Benjamin Button). Tutto questo Fincher lo ha fatto lavorando sempre all’interno del grande apparato produttivo, accogliendone disposizioni e strutture (si pensi alla bellissima serie Netflix Mindhunter [id., creata da Joe Penhall, 2017-19], per cui ha curato la regia di sette episodi) senza esserne però stritolato. Tant’è che, forzando palesemente l’interpretazione, è quantomeno curioso vedere nell’innominato protagonista del suo ultimo film The Killer proprio un gemello in spirito dello stesso regista: perfettamente integrato al sistema ma pronto a reagire immediatamente quando la sua libertà d’azione viene messa in pericolo. (Alberto Libera)

Alien3 [id., 1992]

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Non poteva esserci inizio di carriera così promettente sulla carta e deludente (per lo stesso Fincher) nei risultati come il terzo capitolo della saga horror sci-fi più importante della storia del cinema. Il confronto era arduo sia con l’originale di Ridley Scott (Alien [id., 1979]) che col sequel firmato James Cameron (Aliens – Scontro finale [Aliens, 1986]) e a Fincher, una carriera fino ad allora solo nella pubblicità e nei videoclip, il progetto sfugge di mano per le pressioni dei produttori. Non aiuta una sceneggiatura che ha dei difetti: uno su tutti rendere esplicito il tema della condizione femminile, con continui rimandi nei dialoghi all’ “essere donna” di Ellen Ripley (Sigourney Weaver, regina indiscussa della saga), laddove i due predecessori lavoravano in punta di metafora. La fantascienza scompare quasi del tutto ma questo fattore, anche se potrebbe inquadrarlo come elemento spurio del filone, rende il film intrigante: Ripley e i detenuti del carcere di massima sicurezza su cui è atterrata la sua astronave, devono cavarsela privi di alcun supporto tecnologico e addirittura senza armi da fuoco, da sempre unico deterrente contro lo Xenomorfo. E c’è tutta la cupezza, con tanto di suicidio finale, che sarà di capi d’opera come Seven e Zodiac. La tensione collima con la claustrofobia, in un mondo dominato da maschi il cui raro valore sta nel redimersi da peccati passati (la tossicodipendenza di Clemens [Charles Dance] e addirittura omicidi e stupri nel passato di Dillon [Charles S. Dutton]), e l’identificazione dell’occhio maschile con l’alieno arriva al punto da assumere la soggettiva dello Xenomorfo durante tutti gli inseguimenti finali nei cunicoli dell’edificio. Il frame scelto è però perfettamente in linea con la filosofia di fondo della saga, ed è quindi indicativo della poca personalità autoriale presente rispetto al resto della filmografia del regista americano: lo Xenomorfo ha appena ucciso il dottor Clemens e si avvicina all’eroina presumibilmente per finire il lavoro. Invece si ferma, sembra annusarla, in un attimo di quasi tenerezza (se così si può chiamarla) e poi la risparmia. Il motivo si saprà in seguito: Ripley ospita nel suo ventre uno di loro, è “una di famiglia”, una delle propaggini biologiche della regina madre. Se in Scott la lotta finale era tra un alieno dalla forma fallica e l’unica donna sopravvissuta dell’equipaggio, e in Cameron, data la presenza della piccola Newt a far quasi da figlioccia a Ripley, la lotta era tra due madri che difendono la rispettiva prole, la fusione col Totalmente Altro in Fincher passa addirittura per via uterina (e assumerà tratti parossistici fino al confine con la parodia in Alien – La clonazione [Alien Resurrection, Jean-Pierre Jeunet, 1997]). (Dario Denta)

Seven [id., 1995]

Cupissima riscrittura del noir classico e prototipo ideale del thriller a sfondo seriale che avrebbe invaso gli schermi negli anni a venire, Seven ha nei suoi due protagonisti e nel loro rapporto di lavoro e amicizia uno dei suoi aspetti più rilevanti. Si tratta infatti di un’interessante rielaborazione della figura classica del detective della tradizione letteraria poliziesca, che Fincher e il suo sceneggiatore Andrew Kevin Walker «scindono» in due personalità contrastanti e complementari. Nel film, David Mills (Brad Pitt) e William Somerset (Morgan Freeman) vengono incaricati di collaborare alle indagini riguardanti gli efferati omicidi a sfondo religioso del misterioso predicatore John Doe (Kevin Spacey). I due poliziotti rappresentano due facce della stessa medaglia: quella dell’alienazione e della frustrazione per un lavoro usurante e pericoloso in una metropoli piovosa. Con alcune differenze sostanziali: Mills è giovane, inesperto, emotivo, violento e sposato con la bella Tracy (Gwyneth Paltrow); Somerset invece è disilluso, riflessivo, solitario e restio all’impiego della violenza. Due caratteri antitetici, che riflettono sicuramente le loro personali esperienze di vita, ma anche due archetipi di detective del cinema noir: come Mills riconduce a una tradizione di ispettori violenti e istintivi (pensiamo al Mike Hammer di Mickey Spillane), il distaccato Somerset sembra rifarsi a figure disilluse e meditative come il Marlowe di Raymond Chandler. Da questo punto di vista, Fincher mette a confronto i metodi investigativi di Mills e Somerset, rapportandoli con gli spazi e i luoghi che frequentano. Mentre il giovane detective, chiuso nel suo appartamento, fatica a farsi un quadro preciso della situazione concentrandosi unicamente sulle spaventose immagini degli omicidi, Somerset, nella biblioteca pubblica, sa che è nei libri la chiave per arrivare al pericoloso assassino. Una ricerca solitaria e silenziosa, come mostra il frame selezionato che vede l’uomo al centro dell’inquadratura avvolto da un’oscurità squarciata delle piccole lampade della biblioteca. Un momento di intimità e di distacco dalla cupezza del mondo esterno – sottolineato anche dall’uso della celebre Aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach –, e simbolo di un metodo di lavoro destinato a essere soppiantato dall’irruenza dei tanti Mills che verranno. (Nicolò Vigna)

The Game Nessuna regola [The Game, 1997]

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Nicholas Van Orton (Michael Douglas) è un imprenditore dell’alta finanza che viene coinvolto dal fratello Conrad (Sean Penn) in un “gioco” organizzato da una società esperta nel creare veri e propri ARG (Alternate Reality Game) personalizzati a seconda del cliente. Solo che il gioco sembra pericoloso e quasi subito sfugge di mano: Van Orton rischia di morire numerose volte e gli vengono sottratti tutti i suoi soldi; perfino il fratello arriva ad ammettere che non ci sia nulla di ludico, e che sono entrambi sotto ricatto. Il frame scelto partecipa del leit-motiv scopico del film: fin da quando inizia il gioco ci vengono mostrate brevi inquadrature di Van Orton ripreso da telecamere nascoste, ignaro della loro presenza o dell’ubicazione, che siano nella sua villa, in ufficio o in un luogo pubblico. Egli sa che qualcuno lo sta guardando ma non sa da dove né chi. Noi invece sappiamo il dove ma non chi. A meno di non voler ammettere che siamo proprio noi le spie. Nel frame Van Orton è ormai impazzito, tiene sotto ostaggio due dipendenti della società che lo ricatta e sta salendo con loro in ascensore per venire a capo del mistero. Per la prima volta il nostro sguardo non coincide con l’obiettivo della telecamera nascosta ma abbraccia anche la cornice: una sigaretta accesa ci fa capire che esiste qualcuno che in carne e ossa lo osserva ma di nuovo non sappiamo chi. Percepiamo finalmente una presenza, uno sguardo, ma non è fugato il dubbio che potremmo sempre essere noi. Essendo comunque ascrivibile al genere thriller, The Game non può prevedere uno spettatore onnisciente, perché dobbiamo partecipare dell’enigma tanto quanto il protagonista prima della rivelazione finale. Tuttavia queste incursioni voyeuristiche aumentano la consapevolezza della fruizione, ci danno l’impressione che ne sappiamo più di Van Orton; quantomeno sappiamo che qualcuno lo guarda mentre lui lo sospetta soltanto, sappiamo da che angolazione lo guarda e di base, inconsciamente, messa da parte la sospensione dell’incredulità, abbiamo sempre saputo che un occhio era puntato su di lui, perché guardiamo un film. Non a caso i suoi stessi ricordi sono frammenti di home movie familiari, come ci viene mostrato fin dall’inizio. E quando la polizia fa notare che non c’è movente in ciò che accade fa capolino una possibile soluzione: riprendere/filmare è il motore della cospirazione: il movente è costruire la finzione scenica. L’impressione della montagna che partorisce un topolino è ben riposta: il film è una immensa macchina di Rube Goldberg, un meccanismo ingegnoso e contorto che dà in output l’equivalente morale di un buffetto sul capo a un fratello un po’ cinico e freddo. Ma se c’è qualcosa che mantiene in piedi la tensione, il ritmo e – volendo – il movente del film è proprio il surplus di consapevolezza voyeuristica delle telecamere di sorveglianza, quasi un anticipazione dell’uso che se ne farà in Panic Room, e un corollario alla riflessione sulla potenza del video che qualche anno prima aveva costituito l’esordio di Steven Soderbergh, altro giovane autore attento alle nuove modalità di fruizione delle immagini. (Dario Denta)

Fight Club [id., 1999]

Apologo nichilista di fine millennio diventato negli anni un fenomeno di culto, Fight Club racconta la dissociazione mentale di un anonimo impiegato (Edward Norton) affetto da insonnia che proietta i propri impulsi violenti e autodistruttivi sul fantomatico alter ego Tyler Durden (Brat Pitt). Una necessità, la sua, specchio di una società alienata e satura dal consumismo – e che trova una valvola di sfogo prima nella creazione di alcuni gruppi clandestini di pugilato (il «fight club»), e poi nella realizzazione di attentati volti alla distruzione della società stessa. Fincher, nel film, cerca di assecondare il corrosivo umorismo nero dello scrittore Chuck Palahniuk abbandonando in parte la freddezza che lo contraddistingue per uno stile decisamente sopra le righe, fondato principalmente su un montaggio (visivo e sonoro) ad effetto, e da una serie di soluzioni formali che interpellano direttamente lo spettatore, come lo sguardo in macchina e il fermo-immagine. Più sottilmente, Fincher lavora anche sulla composizione dell’inquadratura, dando particolare attenzione al posizionamento dei personaggi nel campo visivo in modo che suggeriscano o evidenzino la natura «doppia» del protagonista. Nel frame selezionato, il personaggio di Edward Norton che ha appena compreso di essere egli stesso Tyler Durden è ripreso lateralmente, durante una conversazione: ma al posto di un ideale interlocutore c’è uno spazio vuoto. Nella sequenza, la regia alterna riprese di questo tipo ad altre in cui compare Tyler/Brad Pitt, allo scopo di sottolineare «visivamente» quel vuoto che l’uomo ha colmato con la sua mente. Una soluzione rafforzata dai successivi, rapidissimi flashback che mostrano sostanzialmente un altro film: quello in cui Tyler/Edward Norton diventa l’unico personaggio in campo. Fight Club si iscrive dunque appieno nella categoria critica dei «film-cervello» o «mind-game movies» che, a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, hanno costituito, secondo Thomas Elsaesser, una tendenza importante nel cinema d’autore; dove la possibilità di poter «giocare» con il film, di “riavvolgerlo” e rivederlo sotto una nuova prospettiva (Tyler Durden ora è Edward Norton), rappresenta una delle sue caratteristiche peculiari. (Nicolò Vigna)

Panic Room [id., 2002]

Scrive Patricia Pisters che la sequenza di apertura di Fight Club, fondamentale per stabilire ogni prospettiva sensoriale-percettiva, non è solo una «neuro-immagine che si sposta letteralmente tra gli spazi cerebrali dei personaggi» ma è soprattutto un «metaluogo». Lo stesso si potrebbe dire del successivo Panic Room, anche se questa volta gli spazi non sono più quelli labirintici costruiti dall’inconscio e dalle connessioni neuronali quanto quelli di una villa rimodernata di fine Ottocento dell’Upper West Side: «una via di mezzo tra un palazzo in mattoni e una casa a schiera», la definisce l’agente immobiliare (Ian Buchanan). È qui che Meg Altman (Jodie Foster), fresca di divorzio dal facoltoso e fedifrago Stephen (Patrick Bauchau), si trasferisce con la figlioletta Sarah (Kristen Stewart) proprio nel giorno prescelto da tre criminali (Forest Whitaker, Dwight Yoakam e Jared Leto) per rubare i titoli al portatore nascosti nella panic room (un bunker-rifugio costruito per situazioni di emergenza) dell’abitazione. Tra Meg e Sarah, da una parte, e il trio di delinquenti, dall’altra, ha quindi inizio una sfida che si gioca anzitutto sulla conoscenza e sul «possesso» dello spazio (non è un caso che tutti gli ambienti siano controllati da una schiera di monitor che limitano le possibilità d’azione nel «fuoricampo» perché tutto deve essere visibile). E Fincher si adegua, trasformando – come mostra il frame prescelto – il set (fisico) in un autentico mediascape (virtuale). Ovvero un luogo da esplorare con la macchina da presa, personaggio agente che si muove lungo i tre assi ortogonali e costruisce traiettorie in grado di replicare il tipo di esperienza immersiva praticabile all’interno di un ambiente dinamico costruito dalla computer graphic. Da questo punto di vista, il film è quasi un anello di congiunzione tra la postmodernità e l’era dell’ipervisibilità mediale. O, in altre parole, tra l’iperrealtà e la post-realtà, nel cui orizzonte, per riconoscere ciò che è reale, bisogna trovare nuovi strumenti percettivi. Così, la scelta di ambientare l’assedio tutto in una notte si rivela fondamentale perché, in fondo, come diceva Schopenhauer l’«unico criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi e oggetti reali […] è quello empirico del risveglio». (Alberto Libera)

Zodiac [id., 2007]

David Fincher è già tutto racchiuso nell’inizio di Zodiac, nella vasta opening shot notturna sulla città di Vallejo che festeggia il 4 luglio con un tripudio di fuochi artificiali, e poi la carrellata dall’abitacolo dell’auto che attraversa la periferia residenziale. Così vicina a certe carrellate on the road di Jim Jarmusch, eppure così distante: la macchina da presa non sobbalza, non taglia, non cambia angolazione, non è curiosa o partecipe, si limita a scorrere in linea retta con una precisione e una freddezza meccanica. Da sempre, lo stile di Fincher è particolare per la metodica cancellazione di tutti i particolari riconducibili a uno stile. Un risultato ottenuto attraverso la ripetizione maniacale dei take, il massiccio lavoro di post-produzione digitale, e soprattutto l’aderenza formale all’architettura classica del cinema hollywoodiano (establishing shot, carrellata, inquadrature stabili) e la contemporanea disseminazione di crepe impercettibili che finiscono per minare l’intero edificio. I film di Fincher descrivono il collasso di strutture portanti, siano esse sociali o cinematografiche, un collasso che non arriva per un trauma o catastrofe improvvisa ma per metodica, progressiva e prolungata erosione. Tutto questo è visibile nel frame di Zodiac. La presenza di una struttura chiusa, apparentemente sicura (l’auto), ma affacciata su uno spazio aperto (la periferia di Vallejo). L’esterno notturno è infuso di quella luce insalubre che si vede spesso nei film di Fincher, una penombra giallognola o verdastra in cui gli altri colori appaiono spenti, devitalizzati. I profili degli alberi, delle case si riducono a una catasta di sagome scure, ombre, incerte e ambigue come carte da gioco. Presto una di queste sagome, una di queste ombre, emergerà dal buio e cancellerà ogni distinzione fra spazi sicuri e terreni di caccia, fra il conforto delle strutture sociali e il loro brutale dissolvimento. Proprio l’automobile, lo spazio chiuso, familiare, “sicuro”, diventa teatro del primo omicidio. La stabilità dell’inquadratura e l’occhio oggettivo della macchina da presa non offrono maggiore garanzia di comprensione o controllo, acuiscono soltanto il senso di impotenza. Il killer dello zodiaco diventa un’incarnazione della poetica fincheriana: instilla un senso di paranoia e di angoscia nel cuore degli spazi che siamo abituati a percepire come familiari; e lo fa travestendosi con un armamentario di segni che siamo abituati a considerare innocui, come quelli della grammatica del cinema, per possederla e perturbarla dal suo interno. (Rudi Capra)

Il curioso caso di Benjamin Button [The Curious Case of Benjamin Button, 2008]

Nel suo L’ordine del tempo, in un passaggio in cui spiega i legami fra termodinamica, fisica quantistica e la percezione del tempo, Rovelli scrive: «L’indeterminazione quantistica intrinseca nelle cose produce una sfocatura. (…) La temporalità è legata profondamente alla sfocatura. La sfocatura è il fatto che siamo ignoranti dei dettagli microscopici del mondo». Dell’esistente e delle sue regole conosciamo solo una frazione, quella con cui interagiamo. Tutto il resto ci è ignoto, compreso il funzionamento del tempo, che pensiamo erroneamente essere dotato di regole fisse applicabili a tutto l’esistente. Forzando un po’ la mano, il concetto di sfocatura mi sembra possa applicarsi all’opera del regista di Denver, i cui personaggi si trovano spesso alle prese con un sistema alieno dotato di regole proprie, un meccanismo a volte da loro stessi creato. Un sistema-complotto di ascendenza hitchockiana-polanskiana (vertigine, paranoia, nonché identità incerte o camuffate, quando non schizofreniche) che questi personaggi credono di poter governare e nel quale invece finiscono per perdersi. Per aver ignorato certi dettagli, per un errore di percezione, di messa a fuoco. Persone comuni in situazioni extra-ordinarie, da cui sono attratte per mestiere (Seven, Zodiac), per noia o curiosità (The Game, Fight Club), per amore o per calcolo (L’amore bugiardo – Gone Girl) – e con le quali poi non riescono più a fare i conti. Il tempo qui, sotto varie forme, riveste un’importanza fondamentale. Un tempo quasi mai lineare, a volte compresso e in scadenza (Panic Room), a volte dilatato e aleatorio (Zodiac). Il curioso caso di Benjamin Button, tratto da un racconto di Francis Scott Fitzgerald, è un film su commissione dalla lunga gestazione (tra i registi opzionati per dirigerlo c’era Ron Howard, ma parrebbe nelle corde anche di Spielberg o Zemeckis) e nel quale manca per la prima volta la cornice del noir o del thriller, e tuttavia le morti sono più numerose qui che in Seven, sebbene meno eclatanti. Il punto è che anche qui si parla di regole e di meccanismi, a partire dall’orologio civico le cui lancette procedono in senso antiorario, costruito da un orologiaio cieco (Elias Koteas), nella speranza di riportare indietro il tempo e far tornare a casa i giovani morti nella Grande guerra appena conclusa. Benjamin (Brad Pitt) nasce proprio in quel giorno, ma nasce vecchio e morirà in fasce. Controtempo. Se in Fight Club Brad Pitt era il doppelgänger del protagonista, il suo Es, qui è Pitt a essere “doppiato” dal suo alter ego digitale, necessario per aggiungere o sottrarre artificialmente gli anni dal suo volto. Di nuovo un’alterità misteriosa, dunque, seppure sotto una diversa prospettiva. Di nuovo una sfocatura. Nel suo viaggio all’incontrario, Benjamin e le persone che gli gravitano intorno si trovano a fronteggiare una situazione le cui regole sono fuori portata. Nessun burattinaio stavolta, se non Dio o chi per lui. E mentre vediamo Benjamin venire a patti con il suo destino, ci rendiamo sempre più conto, insieme a lui, che in definitiva cambia poco o niente. La sua vita all’incontrario è un fatto che, paradossalmente, mette in evidenza ciò che sappiamo già: il grande complotto è la vita stessa, dato che la vecchiaia e la morte colpiscono tutti, non importa in quale ordine. La morte, così naturale, eppure ogni volta così innaturale perché inaccettabile. L’orologio apparirà di nuovo, alla fine del film (vedi frame selezionato), invaso dall’acqua scatenata dall’uragano. Che però è anche l’acqua, finalmente, dell’oblio. O del ritorno. Del cinema stesso, probabilmente, come nello splendido finale felliniano di E la nave va (1983). (Vittorio Renzi)

The Social Network [id., 2010]

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«Ogni mito della creazione esige un diavolo» dice l’assistente dell’avvocato di Mark Zuckerberg al suo cliente, il più giovane (allora) miliardario del mondo. E l’ottavo film di Fincher è in effetti un mito della creazione, la cosmogonia dell’idea del secolo, la nascita del fenomeno culturale più importante del nuovo millennio, progenitore di molti altri, tutti simili, tutte variazioni sul tema più o meno riuscite, tutte partecipi della stessa logica. Ed è questa logica di fondo che Fincher vuole scandagliare, ma, a differenza dei miti classici, lo fa destrutturando gli eroi della vicenda, mossi da motivazioni nel peggiore dei casi meschine e nel migliore infantili. Al giovane Mark (Jesse Eisenberg) non interessano tanto i soldi quanto la coolness (forse cool è la parola più ripetuta nel film), il prestigio che deriva da essa e che comprende certo il denaro, ma anche le donne e ancor più una certa “aura” difficile da spiegare, quell’aura che forse hanno perso le opere d’arte (Benjamin docet) per passare direttamente alle persone che fanno qualcosa di “figo”, che provocano una rottura nelle abitudini intervenendo sul tessuto sociale, più per confermarlo che per sovvertirlo: «prendere l’intera esperienza sociale del college e metterla in rete» dice Zuckerberg a Eduardo Saverin (Andrew Garfield) quando gli presenta l’idea di Facebook. Fissare un frame significativo in un’opera così dinamica e magmatica, in cui i dialoghi contano più delle immagini, tutta giocata su campi e controcampi più che su singoli quadri, non solo è difficile ma non valorizza la natura “sfuggente” del film. Le poche inquadrature che si sottraggono al flusso ritraggono uno Zuckerberg assorto, corrucciato, la cui emotività è invalicabile, fondamentalmente insoddisfatto della sua stessa creazione, o meglio dei motivi che lo hanno indotto a crearla. Il frame scelto è un giusto compromesso: precede di poco uno dei molti monologhi chiave, quando Sean Parker (Justin Timberlake), creatore di Napster, racconta a Mark un altro mito fondativo, quello di Victoria’s Secret, e lo incita a farsi imprenditore di se stesso, a non permettere che la sua idea geniale sia amministrata e fatta fruttare da altri. Mark è di spalle, le scene con Parker sono tra le poche in cui il suo personaggio non giganteggia, in cui perde la sua arroganza e diventa succube. Sean è in compagnia di due ragazze, è cool, sulla cresta dell’onda, in un locale altrettanto cool, tutte cose che Mark ammira e invidia, ma il ragazzo – felpa da nerd e sguardo meditabondo sull’architettura del luogo – è comunque fuori posto. Fama, successo, soldi e “idea del secolo” non lo hanno fatto passare da sfigato a dio, non c’è stato level up. Il suo atteggiamento rimane schivo, solitario e impacciato (resta da solo nei nuovi uffici davanti al pc anche mentre gli altri festeggiano il milione di iscritti su Facebook). Sean prima di essere arrestato pontifica sulla digitalizzazione della realtà, quasi profetizzando il progetto Meta, segno che la tesi dell’influenza parkeriana in Zuckerberg portata avanti dallo script di Aaron Sorkin, coglie in parte nel segno. The Social Network spiega il passato, anticipa il futuro, re-inquadra il presente. E lo fa in maniera verbosa, sentenziosa, fintamente polemica, riportando i massimi sistemi alle piccinerie personali di ego feriti: il vero film-saggio sul nostro tempo. (Dario Denta)

Millennium Uomini che odiano le donne [The Girl with the Dragon Tattoo, 2011]

L’inganno che si cela dietro l’apparente chiarezza delle immagini. Tutte quelle immagini che Millennium Uomini che odiano le donne accumula come indizi, segni, tracce per risolvere un mistero, ma che attivano contemporaneamente uno sdoppiamento che è assunto a base per le strategie thrilling del film. Ogni immagine è allo stesso tempo un’informazione narrativa e un punto di divergenza narratologica, come se chiarendo un enigma se ne debbano attivare, per inevitabile effetto entropico, tanti altri. Oltre al mistero principale della scomparsa di Harriet Vanger e dell’identità del serial killer di prostitute, il film è infatti tutto un susseguirsi di altri dilemmi e di altre reduplicazioni. È doppio il percorso psicologico del film, quello del giornalista Mikael Blomkvist (Daniel Craig) e dell’hacker Lisbeth Salander (Rooney Mara), entrambi solamente “prestati” all’investigazione, entrambi a loro volta scissi tra vita privata e professionale, entrambi motori che biforcano il film in direzioni diverse. Fincher ne amplifica i caratteri antitetici, esponendo Mikael, uomo semplice e banale, all’attenzione mediatica e alle trasmissioni televisive, e occultando nell’ombra Lisbeth, donna dallo stile goth-punk poco discreto. Esattamente a metà film i due si incontrano, si attraggono, probabilmente s’innamorano; e il meccanismo narrativo del thriller serve anche per svelare il mistero dei sentimenti, intrecciando ulteriori percorsi che, alternativamente, legano e separano i due personaggi fino a condurli verso direzioni opposte. È doppio ovviamente il ruolo dell’immagine stessa, e della sua registrazione. Come si evince dal frame prescelto, Lisbeth ne fa uso per incastrare il suo tutore (e stupratore, interpretato da Yorick van Wageningen), ma serve altresì al killer quando incastra Mikael e vuole torturarlo nella sua cantina-mattatoio. Anche questa è una dualità che spacca a metà il film: alcune inquadrature del film, infatti, vengono ritrasmesse dallo schermo televisivo come fossero riprese diegetiche e il nostro sguardo si ritrova così a interrogarsi sulla sua posizione etica. È doppia infine la natura del thriller, strisciante e perverso dietro l’apparente nitore della fotografia metallizzata di Jeff Cronenweth: una risposta allo 007 della saga Craig (come sembrano dire anche i titoli di testa sulle note di Immigrant Song dei Led Zeppelin riarrangiata da Trent Reznor e Atticus Ross) o una sfida ad assorbire la tradizione dei thriller scandinavi best seller del nuovo millennio nel pragmatismo delle strutture essenziali di David Fincher? Entrambe le cose, ça va sans dire. (Marco Grifò)

L’amore bugiardo – Gone Girl [Gone Girl, 2014]

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Promosso intorno alla domanda «Nick ha davvero ucciso sua moglie, la famosa scrittrice per bambini Amy?» tramite una geniale campagna di marketing che ha tenuto il pubblico all’oscuro del colpo di scena al centro del film, L’amore bugiardo – Gone Girl rappresenta l’ennesimo thriller di Fincher a tematizzare il rapporto sempre più intricato nella società contemporanea tra vero e falso. Come ha affermato il regista, ad averlo attirato della storia di Nick (Ben Affleck) e Amy (Rosamund Pike) – trasposizione fedele del best seller del 2012 di Gillian Flynn, che è anche la sceneggiatrice del film – è proprio la possibilità di mettere in scena il gioco narcisistico delle verità e delle menzogne di una coppia di coniugi. Partendo dalla presenza di un narratore inaffidabile e arrivando al ruolo invadente e manipolatore dei media, il film cala nella realtà quotidiana l’atmosfera paranoica di The Game – Nessuna regola, abbandonando i territori del conspiracy thriller del film del 1997 per abbracciare i toni della commedia nera. Tutto questo è visibile nel frame prescelto, appartenente a una breve sequenza – quella del ritorno a casa di Amy – che forse più di altre racchiude in sé il senso di L’amore bugiardo – Gone Girl. Siamo nella parte conclusiva del film. La polizia ha da poco incolpato Nick dell’omicidio della moglie. Lo spettatore è a conoscenza del fatto che Amy, in realtà, è viva; la donna aveva messo in scena il proprio omicidio per vendicarsi dei tradimenti del marito. Colpita da un’intervista di Nick in cui l’uomo le chiede perdono in diretta televisiva, Amy decide di ritornare a casa, ma prima deve trovare una giustificazione per la sua sparizione agli occhi della polizia, dei media e dei suoi follower. Amy inscena quindi un rapimento da parte di un suo ex fidanzato ossessionato da lei, Desi (Neil Patrick Harris). Una sera, Amy uccide Desi durante un amplesso. Adesso può finalmente fare ritorno a casa. È pieno giorno. Amy arriva, tutta insanguinata, davanti a casa di Nick, attirando l’attenzione del pubblico e dei media accampati lì fuori. La breve sequenza ripropone i temi principali di L’amore bugiardo – Gone Girl: la scaltrezza da consumata femme fatale di Amy, la debolezza complice di Nick, l’ottusità del pubblico, l’opportunismo del carrozzone mediatico. Amy abbraccia Nick e si lascia cadere all’indietro, in modo tale che i due facciano una sorta di casqué in favore delle telecamere. Significativamente, la macchina da presa accompagna questo gesto artificioso con un movimento a salire spettacolare. Con una coreografia ispirata a una delle locandine più famose di Via col vento [Gone with the Wind, Victor Fleming, 1939], la scena, come mostra il frame prescelto, è filmata in modo così platealmente spettacolare che finisce col rivelare la sua consapevolezza di essere pura rappresentazione, e la sua volontà di esplicitarla allo spettatore. È una delle possibili chiavi d’accesso all’ultima parte di L’amore bugiardo – Gone Girl, una sorta di reality show sulla nuova vita coniugale di Nick e Amy in cui «la verità non è semplicemente inaccessibile […] ma è semplicemente scomparsa come problema» (Pietro Bianchi su Doppiozero). In questo senso, L’amore bugiardo – Gone Girl è davvero la commedia del rimatrimonio del nostro tempo, dove le questioni riguardanti l’identità, l’uguaglianza e la battaglia dei sessi sono ridotte ad essere gli strumenti di una narrativa prestata al marketing. (Lorenzo Baldassari)

Mank [id., 2020]

mank david fincher

È la notte delle elezioni al governatorato della California e Herman J. Mankiewicz, da tutti chiamato Mank (Gary Oldman), siede al tavolo insieme a Louis B. Mayer (Arliss Howard) e Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley), i mogul di Hollywood che ha imparato a disprezzare. Il party è organizzato per attendere l’esito del voto e Mank, incallito giocatore d’azzardo, scommette con Mayer che vincerà lo scrittore e attivista socialista Upton Sinclair (Bill Nye), la cui campagna “EPIC” (End Poverty in California) ha smosso le acque stagnanti della California post-Depressione. Il guanto di sfida raccolto da Mayer è però quello di un gioco a perdere, poiché il protagonista è a conoscenza dei cinegiornali di propaganda, segretamente realizzati dalle major per propalare fake news così da manipolare l’elettorato, aiutando il repubblicano e conservatore Merriam a vincere. La gara è truccata e, come da copione, Merriam vince. Mank, tifando contro Hollywood, scommette contro sé stesso in un deliberato e contraddittorio atto di autosabotaggio. Il protagonista si schianta finanziariamente e lavorativamente contro l’Hollywood Network – per parafrasare uno dei titoli più celebrati di Fincher – immolandosi per una questione di principio. Nel corso del film accadrà una seconda volta, quando il protagonista si scontra con il giovane Orson Welles (Tom Burke) per ottenere la condivisione dei crediti della sceneggiatura di Quarto potere [Citizen Kane, 1941]. Lo script, per molti il suo capolavoro, è l’unica rivalsa possibile per il povero Mank, un dardo imbevuto di fiele diretto al magnate William Randolph Hearst ma, per sineddoche, scagliato contro quella congregazione di cui è stato giullare di corte, prima blandito e in seguito espulso quale ingrato corpo estraneo. Nel frame qui riportato, il primo piano di Mank sfuma nel cartellone della sfida elettorale e poi in un vortice di dissolvenze incrociate e di transizioni, con dettagli e immagini distorte da effetti ottici e/o manipolate digitalmente che metaforizzano l’oblio alcolico cercato dal protagonista e la discesa nelle spire paranoiche di una cospirazione, à la James Ellroy, di cui ha scoperto la trama. La sequenza è un saggio di virtuosismo tecnico di David Fincher e del direttore della fotografia Erik Messerschmidt, i quali, per ricostruire i colori e le atmosfere dello stile classico hollywoodiano, si sono affidati a una RED Ranger Helium Monochrome, una camera digitale ad altissima risoluzione (8K) che registra solo in bianco e nero. È dunque attraverso una tecnologia avanzata che il regista e i suoi collaboratori restituiscono il passato, sottoponendo poi l’immagine digitale a un processo di degradazione per avvicinarla alla pellicola. Il lavoro sulla profondità di campo, in ossequio alla lezione di Gregg Toland in Quarto potere, l’uso attento della tecnica dello shallow focus, la registrazione della colonna sonora in monofonia, l’applicazione delle cigarette burns (che segnano la fine del qui inesistente rullo di pellicola) sono tracce evidenti dell’artificio tecnico, di un gioco di prestigio cerebrale che crea un’immagine la cui natura di calco manierista è esibita. La sequenza sopra descritta enuclea una delle componenti centrali della poetica di David Fincher: l’uomo in crisi che viene schiacciato da forze oscure, oppresso da reti sociali che in segreto complottano e contro cui la sua resistenza è inutile. Mank nella sua sezione centrale, quella spiccatamente politica, mostra il proprio meccanismo percussivo, il gioco a cui si presta il protagonista, ma rivela anche la contraddizione di un personaggio antieroico la cui integrità nega l’ambiguità della doppia lettura. Il processo di separazione tra menzogna e verità è azzerato da una macchina narrativa in cui non vi è divaricazione tra detto e mostrato. La spirale alcol-paranoica in cui scivola il protagonista è soprattutto il segno distintivo della struttura di Quarto potere che, nelle parole di Mank, è una grande narrazione circolare, come un cinnamon roll. In Mank, invece, tutto ruota intorno alla testa dello scrittore perché è da lì che il film sgorga e si risolve. (Giuseppe Gangi)

The Killer [id., 2023]

Nei film di Fincher che si possono ascrivere al genere noir, il Tempo ha sempre un ruolo predominante: compresso in Seven (che con il film in questione condivide lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker), dilatato in Zodiac, frastagliato in flashback ed ellissi che creano corrispondenze tra passato e presente in Millennium – Uomini che odiano le donne e L’amore bugiardo – Gone Girl. In The Killer, basato sull’omonimo graphic novel di Alexis Nolent e Luc Jacamon, la precisa scansione degli eventi e delle coordinate temporali si accompagna a una nube d’indefinitezza provocata dalla percezione dimidiata del protagonista. Perché il killer senza nome interpretato da Michael Fassbender non può permettersi che il caso si frapponga fra sé e i suoi obiettivi e per questo – come mostra il frame prescelto – deve poter controllare e dominare il tempo. Lo smartwatch che indossa ne restituisce da una parte l’oggettività misurabile (fatta di ore, minuti, secondi) e dall’altra, attraverso il rilevamento del numero di pulsazioni cardiache al minuto, rimanda invece a un’altra temporalità, che è tutta interiore e quindi incerta e imprevedibile. È tra questi due estremi che «il killer» sembra vivere, tra l’imparzialità cartesiana di Kronos e l’estasi momentanea di Kairos. Non solo, però: come mette in chiaro fin da subito in un colloquio telefonico con il suo supervisore (Charles Parnell), il tempo per lui è anche moneta di scambio. Ha quindi ragione Roberto Manassero quando afferma che The Killer è un film sul capitalismo e «sui processi di produzione della società contemporanea», dove il tempo non solo va ottimizzato ma viene anche costantemente sottratto. Il piano che l’innominato sicario attua per vendicarsi di chi ha attentato alla vita della fidanzata Magdala (Sophie Charlotte) è un viaggio a ritroso della «filiera produttiva», dove le leggi astratte del capitale si manifestano in un perenne moto circolare: il miliardario Claybourne (Arliss Howard), che aveva commissionato l’omicidio di un rivale d’affari poi fallito, è non a caso segnalato dai titoli come «il Cliente». Ma è anche l’unico modo che il killer ha per riconquistare il suo tempo, poterlo gestire, controllare, dominare. Come, in fondo, esplicita proprio il finale. (Alberto Libera)