Profondo rosso (1975) si colloca in un momento cruciale della filmografia del suo autore. Si tratta infatti di un’opera che corona idealmente la prima parte della carriera di Dario Argento – quella “thriller” inaugurata con L’uccello dalle piume di cristallo (1970) – e che, al contempo, apre a una seconda fase caratterizzata dall’interesse del regista romano per atmosfere propriamente horror1. Lo spiritismo, il fascino per il gotico e per l’irrazionale che domineranno Suspiria (1977) si prefigurano già in questo film.
Come ha affermato Argento in numerose interviste, la sequenza da cui ha origine Profondo rosso (poi scritto in collaborazione con Bernardino Zapponi) è quella della dimostrazione di parapsicologia ambientata nel Teatro Carignano di Torino che vede protagonista la sensitiva Helga Ullman (Macha Méril). Una sequenza estremamente perturbante sia per le scelte registiche adottate (dettagli, soggettive, ecc.) sia per il tema soprannaturale mostrato, e che non a caso è stata posta tra le prime del film: una scelta che fa precipitare da subito lo spettatore in un’atmosfera allucinata e inverosimile. Al contempo, il protagonista della storia – lo sperduto Marc interpretato da David Hammings – si addentra altrettanto velocemente in un mondo ostile e misterioso i cui segni si fanno spesso indecifrabili.
La dimostrazione di parapsicologia in cui la sensitiva Ullman entra in contatto telepatico con l’assassino, presente nel pubblico.
Come ha perfettamente notato Roberto Pugliese2 sul bel «Castoro» dedicato al regista, la scelta di questo particolare attore inglese per il ruolo di Marc (un pianista invischiato nei delitti edipico-hitchcockiani dell’amico Carlo [Gabriele Lavia] e della folle madre [Clara Calamai]) rimanda al Thomas in Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni, interpretato dallo stesso attore. Entrambi i personaggi, infatti, devono decifrare una realtà sfuggente; ricostruire un’immagine complessiva di cui manca sempre il dettaglio fondamentale (nel caso di Profondo rosso, il quadro-specchio nel corridoio dell’appartamento del primo omicidio; la scritta sul vapore lasciata dalla scrittrice uccisa nella casa di campagna; la stanza murata riconosciuta da Mark da una vecchia fotografia della villa).
Gli indizi visivi inizialmente sfuggenti all’occhio dell’improvvisato ‘detective’ Marc.
L’interesse per la detection che caratterizzava i primi thriller di Argento (pensiamo al suono registrato nell’Uccello dalle piume di cristallo che smaschera il killer) si scontra con l’ambiguità « moderna» tipica del cinema di Antonioni e di Blow Up in particolare3, per sfociare, infine, in un clima fantasmatico dove l’interesse per la risoluzione finale dell’intreccio (che è comunque ancora presente in Profondo rosso) convive con la consapevolezza di un mondo che assume ormai i tratti dell’orrore puro – pensiamo al finale del film in cui il volto di Marc contempla il sangue sparso a terra.
Ma è soprattutto nell’uso che Argento fa dello spazio cinematografico – anche in questo caso debitore del cinema di Antonioni – che qualsivoglia barlume di razionalità si piega all’incubo e all’insensato. La logica positivistica tipica del film investigativo, in Profondo rosso, è smontata e mandata al macero dal regista di Tenebre non solo grazie alla rappresentazione di luoghi claustrofobici in cui il tempo cinematografico è, come in Leone, compresso ed espanso all’inverosimile (che siano essi appartamenti ultramoderni o ville barocche di inizio Novecento), ma anche attraverso le topografie delle città in cui si muove Marc, che trasfigurano luoghi reali in “artifici” metafisici e immaginari (pensiamo alla piazza dove è situato il bar in cui lavora Carlo); prefigurando così gli incubi labirintici che saranno di Suspiria e Inferno (1980): i due film argentiani che fanno dello spazio un luogo che implode, in cui le geometrie non esistono più, e dove i personaggi vagano nel vuoto.
Alcune celebri locations del film, provenienti da città diverse (Roma, Perugia, Torino).
Profondo rosso fa dunque da ponte ideale tra il periodo thriller e quello horror anche perché le scenografie, gli ambienti, le locations del film, per quanto ancora reali e riconoscibili, sono già trasfigurati. Come nota Giulia Carluccio:
Non si tratta […] del coefficiente visionario di un artista che ricostruisce in studio e in toto un luogo ideale, ma di un artista che vede e fa vedere un luogo ideale partendo da una modificazione, un’alterazione […] della realtà, da un differente modo di guardarla e di metterla insieme. In Profondo rosso, per esempio, la superfetazione fantastica del «Bluebar» nella location dal vero di Piazza CLN a Torino, introduce una alterazione o una contaminazione immaginaria nello scenario realistico dell’architettura del luogo (marcata dalla riconoscibilità della matrice iconografica di quell’inserimento, diretta citazione, o meglio, derivazione al celeberrimo e quindi universale Night Hawks di Edward Hopper), e tale superfetazione funziona anche come un modo di vedere e far vedere di più di quello che la realtà oggettiva sembra offrire alla percezione. È un modo di approfondire, intensificare la percezione, prolungarla, allucinarla, per sentire di più, per far sentire di più.4
Il ‘fittizio’ Bluebar in piazza CLN di Torino.
La «manipolazione» urbanistica e architettonica di Profondo rosso ha la sua forza e la sua unicità proprio nella scelta del suo autore di riutilizzare ciò che esiste già e che lo spettatore già conosce (o può riconoscere), per piegarlo allo sguardo della macchina da presa. I raccordi immaginifici del cinema di Argento – come in quello di Orson Welles o in Raoul Ruiz5 – hanno lo scopo di creare una città immaginaria (e da incubo) che contiene in sé scorci di Roma, di Torino, di Perugia. L’atteggiamento di Argento è dunque già proiettato a un postmodernismo cinematografico che fa dell’ambiente un «collage» di luoghi noti e meno noti, ma ripensati per creare uno spazio che diviene pura astrazione – e che, in tempi recentissimi, sembra essere stato ripreso da Diabolik (2021) dei Manetti Bros., in cui Bologna, Milano, Trieste si fondono per dar vita alla metropoli che ospita le gesta del misterioso ladro-gentiluomo protagonista del film.
Alcune locations di Diabolik da città diverse (Bologna, Milano, Triste).
NOTE
1. Periodo affrontato su queste pagine con il nostro speciale Dario Argento. I quattro volti della paura: https://specchioscuro.it/dario-argento-i-quattro-volti-della-paura/
2. Cfr. Roberto Pugliese, Dario Argento, Il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze, 1986, p. 38.
3. Di cui non a caso Giorgio Tinazzi individua il «sottofondo irrazionale». Cfr. Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro Cinema-La Nuova Italia, Firenze, 1974, p.110.
4. Giulia Carluccio, Poetica dell’erranza. Flâneries, architetture, percorsi di visione, in (a cura di) Giulia Carluccio, Giacomo Manzoli, Roy Menarini, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino, 2003, pp. 56-57.
5. Welles e Ruiz sono maestri nel giocare con lo spazio cinematografico. Come nota Alessandro Cappabianca: «Welles è capace di rcostruire una ferrea consequenzialità narrativa riassemlando spezzoni girati su set diversi, magari ai quattro angoli del mondo (paradigmantico l’Otello), mentre Ruiz non solo sembra più interessato a far passare per luoghi diversi (isole, terre esotiche eccetera) quello che il più delle volte è sempre lo stesso posto […]. Alessandro Cappabianca, Raoul Ruiz o il cinema come cadavre exquis, in (a cura di) Edoardo Bruno, Ruiz Faber, Miminum Fax, Roma, 2007, p. 52.