Il male non esiste
In Concorso all’80esima edizione della Mostra di Venezia, Il male non esiste [Aku Wa Sonzai Shinai, conosciuto anche col titolo internazionale Evil Does Not Exist, 2023] di Ryūsuke Hamaguchi ricorre a un ricco apparato di soluzioni linguistiche che organicamente riflettono la stratificata complessità dei dilemmi morali affrontati dai suoi stessi protagonisti. Takumi, infatti, è un uomo che vive solo con la figlia, svolgendo mansioni strettamente al ciclo naturale come il taglio della legna o il trasporto dell’acqua pulita di un ruscello. A minacciare l’integrità di quei luoghi è però una compagnia di Tokyo, pronta a rilevare un grosso appezzamento per costruirvi un campeggio di lusso (“glamping”) a destinazione turistica. Il film, che comincia con uno splendido scambio di battute “musicali” tra un drone e una steadycam lungo la fitta boscaglia che circonda il villaggio del protagonista, si muove successivamente su linee, sagome e profili delimitati da inquadrature geometricamente costruire per esplicitare il rapporto che i personaggi hanno instaurato con l’ambiente circostante. Ai colori dai toni più scuri e tersi, quasi incontaminati, del villaggio di Takumi si sovrappongono infatti quelli più caldi e innaturali degli uffici dell’agenzia Playmode (ironicamente, il nome della compagnia), dove a fare controcampo alla composizione cartesiana dell’inquadratura è una videochiamata con il legale che patrocina lo sviluppo del progetto del glamping, perfettamente integrata all’architettura visuale degli spazi della scena, come se ne fosse una prosecuzione spontanea. Inevitabile, pertanto, che l’arrivo della Playmode sul futuro sito di costruzione venga percepito come una minaccia ecologica, una contaminazione di un sistema ordinato e naturale, eloquentemente ripreso da Hamaguchi con una carrellata che sorvola un ruscello d’acqua pulita, preambolo di una progressione narrativa sempre più perturbante che culmina con la scomparsa della figlia di Takumi. La ricerca estenuante della bambina, che improvvisamente mette sullo sfondo il progetto del glamping, diventa un acuto stratagemma narrativo in grado di far interrogare i personaggi, rivelarne i rovelli etici e i furori personali la cui improvvisa eruzione riverbererà nelle forme del film, con luci soffuse che alimentano le ombre dei protagonisti, ne inscuriscono l’animo e lo fanno precipitare nella fitta foresta di sangue del finale, prolungamento simbolico di pulsioni inconsce e primordiali. Il male non esiste, secondo Hamaguchi. Esistono rapporti tra persone e natura, la rottura della cui ciclicità è inevitabilmente una delle grandi tragedie della contemporaneità.
Priscilla
O “di relazioni tra anima e spazio”. Parimenti in Concorso, l’ultimo film di Sofia Coppola adatta il libro Elvis e io scritto da Sandra Harmon e dalla stessa Priscilla Presley. Apparentemente classico nell’ordinaria distensione cronistorica del materiale narrato, il film fonda l’intera sua impalcatura visivo-drammaturgica sugli spazi in cui si muove Priscilla, tanto fisici quanto mentali. Sempre rinchiusa all’interno di un set (il diner americano a Wiesbaden, la cucina di casa, poi la tenuta di Elvis), impossibilitata a uscire dalla parte assegnatale, la protagonista vive un tormento interiore che amplifica il vuoto pneumatico degli stessi spazi cui è confinata. Solo Elvis è in grado di concederle una via di fuga, che sia una festa a cui la invita o, una volta sposati, la catarsi regalata da alcuni scatti osé, finalmente espressione di un desiderio altrimenti represso (in linea con quanto Sofia Coppola aveva messo in scena in L’inganno [The Beguiled, 2017]), sebbene anche il divo, alla lunga, assuma la medesima estraneità che regolamenta anche il rapporto della protagonista con la famiglia e con i pochi amici. La relazione tra Priscilla e gli spazi del suo vivere è metafora della distanza che la separa dagli altri, della solitudine che ne attanaglia l’animo al punto da indurla a rompere ogni convenzione, sia essa familiare (giocare con il cagnolino all’aperto, sotto gli occhi dei fan) o addirittura “iconica” (il concerto di Elvis senza musica, di spalle, con i fan invisibili come se fossero stati inghiottiti dal nero dell’anima di Priscilla). Lo costruzione dello spazio, pertanto, si modifica e amplifica progressivamente le distanze : solo nel finale, apparentemente convenzionale, Priscilla si riappropria di un suo spazio e relega Elvis in un angolo, così come faceva durante i loro accesi confronti sul letto nuziale1. Trova dunque una sua precisa funzione anche quella speciale pellicola 35mm adottata per rendere più scure e quasi funeree le stanze – fisiche e”interiori” – di Priscilla, anche in mezzo ai toni accesi e sgargianti della California di Elvis, proprio per questo ancor più artificiosi e dissonanti. Quasi un ritratto autobiografico (qualcuno al Lido suggerisce che l’Elvis del film sia quasi il fantasma di quel Quentin Tarantino che Sofia Coppola ha per un certo tempo frequentato); ma a differenza degli esordi, dove assenze e spazi vuoti lasciavano spazio alla speranza, oggi il cinema di Sofia Coppola è un’elegante, quasi calligrafica esplorazione delle stonature sentimentali dell’animo e di un modo tutto contemporaneo di concepire il cinema e i suoi ambienti. In fondo, come conclude Elvis nell’ultimo scambio del film, «maybe another time, another place». Il cinema di Sofia Coppola esiste proprio lì. In un altro tempo, in un altro luogo.
NOTE
1. [SPOILER ALERT!]: Nel finale, Priscilla esce da Graceland a bordo di un’auto scura, quasi a intonare il canto funebre di una parte di sé morta durante quegli anni.