0. L’identità di Norma Jeane alias Marilyn Monroe è strettamente connessa alla percezione del proprio corpo e alla sua dissoluzione: prima oggetto sessuale poi immagine, poi cadavere e infine ritorno all’immagine. Per capirlo procedo per digressioni e accumuli, come il regista Andrew Dominik nel suo Blonde, presentato a Venezia 79 e uscito su Netflix il 28 Settembre.
0.1 Il problema di come definire l’identità personale è squisitamente moderno. Se nell’antichità si dava per scontata una nozione molto vaga di “io” sottostante alla persona (si parlava spesso di “sostanza” che è appunto lo stare sotto), con lo scetticismo inglese, e in particolare con Hume 1 si mette in discussione l’effettiva presenza di un io identificabile e ben definibile che garantisca la persistenza (comunque presunta) di un individuo attraverso il tempo. Delegare la questione alla “interiorità” del soggetto non sposta di una virgola l’impossibilità di rilevare la fantomatica sostanza: l’interiorità come criterio di definizione dell’io è una chimera della modernità. Viene insomma “scalzato il mito dell’interiorità e dell’accesso privilegiato che ciascuno avrebbe di sé stesso [il che presupporrebbe essere in grado di conoscersi alla perfezione e quindi individuare l’io], mostrando che lo spazio dell’interiorità come spazio originario non esiste in quanto esso è sempre frutto di costruzione e di interpretazione e non è mai un dato”. 2
0.11 Interviene allora l’esterno (ecco il primo materiale utile per Blonde): sono gli altri a definire la nostra identità (approfondiremo in sez. 1); è nel nostro rifletterci negli altri e attraverso gli altri che costruiamo quell’io che ci identifica: senza l’altro non ci saremmo, o non percepiremmo un “collante” che unisce le nostre sensazioni e percezioni (se si accetta una forma di Bundle Theory, la “teoria del fascio”).
0.2 Eppure c’è un’altra soluzione: il corpo. La nostra esistenza (e persistenza) corporea può essere criterio di identità forte. E in effetti tale lo percepiamo nella vita di tutti i giorni. Possedere il proprio corpo e riconoscervisi è la chiave per “avere un io”, evitare che la nostra persona si frammenti (tutta la riflessione sul gender, la body positivity – e risalendo indietro fino all’Habeas Corpus – dà per assodata questa acquisizione, peraltro avallata dalla ricerca psichiatrica recente).
1. Norma Jeane sia come donna che come star/diva non possiede il proprio corpo e quindi non ha più un io. Blonde è l’impossibile dialogo tra due versioni differenti dello stesso io, che non si riconoscono l’un l’altra.
1.1 L’idea moderna è che “la consapevolezza di noi stessi non è il prodotto di una qualche conoscenza della nostra identità personale [dato che è un costrutto, v. 0.11] ma si presenta come un senso del proprio io e di sé stessi”, mettendo in rilievo l’aspetto sensibile (e quindi anche corporeo) della percezione di sé e del significato che attribuiamo a quel collante che è l’io, questa “connessione delle emozioni con il corpo”. 3
1.11 Gonzalez-Crussi nelle Note di un anatomopatologo 4 chiarisce – attraverso un’analisi del mestiere del medico addetto alle autopsie nel mondo anglosassone – la centralità del corpo diventato cadavere: scavando nelle frattaglie si trova la verità della morte, la quale contiene in sé anche la verità della vita intera di un individuo. Marilyn che si chiede, ironicamente, “Ma che sono, un cadavere?” sta cercando la verità su di sé. Joe DiMaggio che la definisce meat no, ma cerca – reificandola – di incasellarla, per capire come agire davanti al ricatto dei precedenti amanti.
1.111 Gonzalez-Crussi cita la Teoria dei Tre Corpi di Paul Valery. Prima c’è il Mio-Corpo, l’esperienza personale che ne faccio, del quale percepisco solo frammenti. Una diva del cinema ne percepisce l’interezza quotidianamente, sui cartelloni, sui tabloid, sullo schermo, ma filtrato attraverso lo sguardo altrui, perlopiù maschile. Poi c’è il Corpo Riflesso, quello che gli altri vedono, completo ma non posseduto. Nel caso di Norma/Marilyn Mio-Corpo e Corpo Riflesso arrivano pericolosamente a coincidere. Infine c’è il Corpo Conosciuto, oggetto del sapere tecnico e della medicina, astrazione dal concreto del vissuto, che nessuno di noi per definizione può possedere. Valery ammette che per essere corretti andrebbe aggiunto un quarto corpo, quello “vero”, che trascende tutte le percezioni, inattingibile; ma pare avere lo stesso aspetto dell’io post-Hume: un figmento, un collante. Norma non possiede nessuno di questi corpi, perché ha dato la carne agli uomini e l’immagine a Marilyn, il suo io di celluloide.
1.12 Il nostro corpo è insieme emblema della singolarità e della generalità, sempre seguendo l’anatomopatologo: è il ricettacolo delle nostre specificità, ci appartiene e ci determina, non ne esistono due identici in tutto il mondo (cfr. quello che disse Moravia alla Cardinale nella famosa intervista in cui la “riduceva” al suo corpo). Osservandolo tuttavia il corpo rivela la sua ordinarietà, il suo essere simile a tutti gli altri, il segno che apparteniamo a una stessa specie; nel corpo (epidermide, arti, budella e viscere) ci riconosciamo uguali agli altri umani.
1.121 L’America ha deciso – negli anni ‘50 – che Marilyn fosse l’assoluta straordinarietà: non può esistere un’altra Marilyn certo, ma non è nemmeno una di noi, vale a dire una persona. La sarta di Norma la rimprovera, poco prima dell’arrivo della lettera del padre: “Chiunque al mondo vorrebbe essere al suo posto”. Ma Norma non sa quale sia il suo posto, sa solo dov’è il posto di Marilyn, cioè sullo schermo. Lei (Norma) non è né ordinaria né straordinaria: non è e basta. 5
1.122 L’unica situazione simile a quella di Marilyn viene direttamente dall’istituto monarchico. Il passaggio di Elizabeth (o Lilibet) da semplice ragazza a Regina, come descritto nella prima stagione di The Crown, è la metamorfosi dall’ordinario allo straordinario. Elizabeth deve abbandonare la sua identità e incarnarsi in un simbolo, scelto da Dio in persona. Le è proibito essere sé stessa perché deve adeguarsi all’icona che è diventata. Lei per diritto divino, Marilyn per diritto hollywoodiano. Solo che Norma per indossare la Corona ha dovuto anche rinunciare alla sua fisicità.
1.2 Norma fin dagli albori della carriera fa sesso per ottenere il successo. Ma Dominik non è così che ci mostra il percorso. Ci mostra una serie di abusi (fino ai vertici dello Stato: la terribile scena della fellatio al Presidente Kennedy) e la supina accettazione di Norma a essere “cosa” nelle mani degli altri. Dona il suo corpo e ottiene il riconoscimento a cui forse anelava fin da piccola; e subito l’abuso provoca una scissione. Ora quel pezzo di lei è diventata Marilyn, non vi si riconosce, ma di lei oltre l’oggetto scopico non rimane più nulla. Quando Norma trova, saltuariamente, l’amore disinteressato (Chaplin jr e Robinson jr, DiMaggio, Arthur Miller) diventa subito dopo di nuovo oggetto, inglobando in sé un altro corpo, quello dei figli non nati.
1.3 Possedere un corpo non vuol dire solo rispecchiarcisi, vuol dire anche autodeterminarsi. L’aborto è l’autodeterminazione per eccellenza nell’immaginario femminile, non foss’altro per le lunghe battaglie combattute per eleggerlo a diritto. Ed è autodeterminazione prima di tutto corporale, su come gestire i propri organi quando ospitano una vita in potenza.
1.31 Gran parte del film è il rovesciamento dell’idea femminista e liberale dell’aborto. Gli aborti di Norma sono sempre scelte di altri, mai sue. Non solo non ne rispettano le intenzioni, ma le fanno perdere contatto con quel poco del suo corpo che ancora sente di possedere. Emblematica la scena in cui, mentre in sala riceve gli applausi al termine della prima di Gli uomini preferiscono le bionde [Gentlemen Prefer Blondes, H. Hawks, 1953], la sua voce fuori campo si domanda sconcertata: “è per ottenere questo che ti ho ucciso?”. Se uniamo questa confessione alle varie volte in cui dichiara, rivolta allo schermo, “questa non sono io”, il gioco è fatto: Norma non ha rinunciato al bambino per sé stessa, ha rinunciato sia all’uno che all’altra.
1.311 Va poi detto che questi “altri” che decidono per lei non ci sono, sono ombre indefinite (come gran parte dei maschi che abusano); sono come forze esterne e sovrannaturali che la opprimono. In questo modo Dominik evita il facile meccanismo del capro espiatorio, che rischia sempre di deresponsabilizzare lo spettatore attribuendo la colpa all’agnello sacrificale che toglie i peccati del mondo (= Hollywood). Noi siamo colpevoli in quanto spettatori perché è anche il cinema ad aver sottratto a Norma la sua vita (vedremo meglio nella sez. 2).
1.32 Norma a un certo punto sembra identificarsi con uno dei feti che porta in grembo; egli le parla perché non vuole come lei essere privato del corpo e la accusa di non averlo fatto nascere la prima volta. E nonostante Norma gli dica “tu non sei lui [il suo primo figlio abortito] sei un altro bambino” egli nega: “Sono proprio lui!”. Perché il feto è l’idea di un corpo, come la povera Marilyn; è persona solo potenziale e può essere sostituito e scambiato, oppure può essere eterno come sua madre, sempre uguale a sé stesso, immobile in un frame temporale, in un trauma che ritorna incessantemente. Dominik insiste a mostrarci i feti e il sangue non per gusto dell’orrido né per citare Kubrick a caso (come già qualche critico ha detto), ma perché mostrandoci il corpo ci dice che è nel corpo che si consuma la tragedia, non sui rotocalchi, né in una mente esistente fuori dalla materia.
1.321 Blonde sarebbe il film più cronenberghiano dell’anno se il maestro canadese non avesse proprio questa estate interrotto il suo lungo silenzio visivo.
1.4 La ricerca del padre è infine un altro lato del prisma dell’identità. Non a caso Marilyn dice a Chaplin Jr. “almeno tu sai chi sei, perché hai un padre”. Avere un padre significa avere un nome, un primo retaggio di identità. Nonostante la banalità psicoanalitica di fondo (tutti gli uomini di Marilyn sono potenziali padri da sostituire a quello assente) Dominik riprende un elemento presente nel romanzo di partenza di Joyce Carol Oates: la finte lettere del padre, scritte in realtà da Cass. Tramite esse Norma può immaginare di avere il genitore nella sua vita, ma il contenuto delle missive diventa sempre più moralistico, l’ennesimo occhio giudicante Marilyn e non Norma. Più che essere una liberazione la “presenza” di un padre è l’ennesimo baratro in cui cade Marilyn e che trascina in una spirale il film fino alla morte. Il finto padre è un altro uomo che fagocita l’immagine esterna di Norma (la quale disperata gli vorrebbe dire “quella [sullo schermo] non sono io”, ancora una volta) e restituisce solo cenere.
1.41 Quando Cass, dall’oltretomba in un certo senso, le rivela che era lui l’autore delle lettere, le sottrae non solo la figura del padre ma anche il ricordo, la memoria. Senza memoria non c’è coscienza. Persi sia corpo che coscienza (per tutto quello detto in sez 1) Norma può finalmente, malauguratamente diventare oggetto, meat, cadavere. Soddisfare in morte l’immagine attribuitale fino a quel momento in vita.
2. Non sono solo il sesso e gli aborti a sottrarre a Norma la sua identità, ma anche il cinema. È il cinema peraltro a fare il passo in più: dopo averle sottratto un io gliene dona uno fittizio, la bionda Marilyn.
2.1 In Once Upon a Time…in Hollywood [Q. Tarantino, 2019] una scena riassume alla perfezione il lavoro sull’immaginario cinematografico che fa Tarantino: 6 Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie, va al cinema a vedere The Wrecking Crew [P. Karlson, 1969] l’ultimo film dell’attrice uscito in vita. Anche se vediamo in alcuni momenti Margot Robbie impersonare la Tate sul set del film mentre si esercita nel kung-fu, sullo schermo inaspettatamente appare la vera Sharon Tate. L’identificazione totale tra attrice e personaggio (entrambe giovani, belle, promettenti 7) produce per paradosso uno sdoppiamento. Caricando su di sé il peso iconico di Sharon, Margot la spoglia della sua aura e la vede “persona” sullo schermo. Ora è Margot Robbie vera a guardare la vera Sharon Tate, e forse per la prima volta nella sua carriera Tarantino ci accompagna fuori dal cinema (in una scena metacinematografica al massimo grado) per restituirci una persona fisica. Il cinema libera sia l’attrice che il personaggio dal peso dell’immaginario e ci mostra una giovane donna che guarda una collega.
2.11 Come dice Moravia alla Cardinale “Non c’è altro che il corpo in quanto il corpo è una forma in cui c’è tutto e fuori non c’è nulla”. Tarantino, moravianamente, mostra attraverso lo sdoppiamento di un corpo l’identità distinta di due donne, non due semplici icone.
2.12 Se c’è sdoppiamento può esserci, d’altronde, scissione interiore. Ana de Armas che interpreta Norma guarda al cinema Ana de Armas che interpreta Marilyn. La vera Marilyn non ci può essere, dato che il film fino a quel momento ne ha dichiarato l’inesistenza. Né c’è spazio per l’individualità dell’attrice (che qui è chiamata a svolgere un lavoro mimetico e “naturalistico”). Ma non c’è neanche il personaggio, che è pura immagine e ha perso il proprio io: ne ha maggiore contezza proprio davanti a una pellicola proiettata (cfr. 1.4).
2.121 Quello che Dominik fa accadere a Norma è l’opposto del lavoro di Tarantino su Sharon Tate e Margot Robbie. Lì lo sdoppiamento da uno faceva due individui. Qui si appiattisce la persona sull’icona, e da due si diventa uno, ma un uno privo di sostanza. E quindi si diventa zero, per come la stessa Norma si percepisce.
2.122 Se per Tarantino il cinema è liberazione, per Dominik è condanna, prigione senza scampo e alla fine esecuzione capitale.
2.2 La consapevolezza metanarrativa di alcune battute (Norma che si chiede spesso se ciò che sta vivendo non sia la scena di un film) non è ludico postmodernismo o rebus con lo spettatore (Dominik ha senza dubbio abbandonato il ‘900) ma è la presa di coscienza personale e radicale di una vita che non esiste più fuori dallo schermo, sia perché il corpo è diventato immagine e sia perché la persona è mutata in cadavere.
3. Il dramma fondamentale di Marilyn, che il film vuole incarnare anche a livello strutturale, è il passaggio da un io corporeo a un io incorporeo.
3.1 La distinzione tra le due tipologie di io la riprendo da un classico testo di Ronald Laing: “Tutti, anche la più incorporea delle persone, vivono se stessi come qualcosa di inestricabilmente legato al proprio corpo. In circostanze normali ci si sente vivi, reali e sostanziali nella stessa misura in cui si sente vivo, reale e sostanziale il proprio corpo. La maggior parte di noi sente di aver avuto inizio insieme col proprio corpo e sente che con esso perirà. Questo è un modo di sentirsi che possiamo chiamare corporeo. Ma non è necessariamente l’unico modo. […] esistono individui la cui vita non trascorre nel modo suddetto di sentire il proprio corpo, ma che ne sono, e ne sono sempre stati, in qualche misura staccati. Di un individuo come questo si potrebbe dire che non si è mai veramente incarnato, ed egli stesso può parlare di sé come di uno più o meno incorporeo.”8
3.11 Norma passa da essere corporea a incorporea nel senso di Laing: fatta di celluloide o di desideri altrui, usata come oggetto, reificata e al contempo idealizzata (due facce della stessa medaglia, come la migliore filosofia femminista ci ha insegnato). La cessione del proprio corpo (sez. 1) ha un corrispettivo nella cessione della propria immagine (sez. 2).
3.2 Nella condizione dell’io incorporeo “il corpo è vissuto, più che come il nucleo stesso dell’essere, come un oggetto fra i tanti altri oggetti del mondo. Invece di essere il centro del vero io, il corpo è vissuto come il centro di un falso io, che l’io «vero», l’io «interiore», incorporeo e distaccato, può vedere, secondo i casi, con tenerezza, con curiosità, con odio”. 9 Questo passaggio descrive perfettamente la situazione di Norma; emblematica la scena in cui guardandosi allo specchio vede il suo riflesso oggettificato da Chaplin Jr che la abbraccia da dietro. Non più il corpo moraviano-tarantiniano (criterio di identità, cfr. 2.1) ma il corpo come sintomo di una patologica indistinguibilità dal mondo intorno.
3.21 Ma c’è un’ulteriore anomalia: in quanto idealizzato, in quanto incarnante un ideale (come il detentore della Corona, cfr. 1.132) il corpo di Norma/Marilyn non è cosa fra le cose ma cosa superiore alle altre cose, e quindi non solo lei non vi si riconosce ma le è impossibile comunicare a chiunque altro il suo status, le è impossibile farsi comprendere (forse avrebbe potuto solo Lilibet, peraltro sua coetanea).
3.3 La messinscena abbandona sia le convenzioni del biopic (e questo era pacifico fin dall’inizio) che le convenzioni della rappresentazione onirica o mediata da una preponderante soggettività. Ci sono delle soggettività nel film, molteplici, e al contempo sembra un coacervo di frammenti di un unico flusso visivo privo di soggetto ma privo anche di qualunque aderenza alla realtà che non sia quella della propria percezione corporea. Persa nell’immaginario, mai più ritrovata, ma metrica su cui l’intero film si misura.
4. In base alla terminologia lainghiana diremmo allora che Blonde è l’io corporeo di un io incorporeo.
NOTE
1 In particolare D. Hume, Treatise on human nature, Parte IV, sezione 6 (ed. it. a cura di E. Lecaldano, Laterza 1987).
2 E. Lecaldano, Identità personale. Storia e critica di un’idea, Carocci 2021, p. 185.
3 E. Lecaldano, op. cit., p. 132.
4 F. Gonzalez-Crussi, Note di un anatomopatologo, Adelphi, 1991.
5 Sull’immaginario americano e la distruzione dei miti rimando all’analisi del film di Alberto Libera.
6 Per approfondire questa parte mi permetto di rinviare a una mia analisi della scena.
7 “Margot Robbie, già icona, corpo significante, attrice angelica e splendida, nel pieno di uno scoppiettante inizio di carriera, osserva il suo personaggio in un momento della vita simile al suo e lo vede come lo vediamo noi: la vera Sharon” [art. cit.].
8 R. D. Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, (1959), trad. it. di D. Mezzacapa, 2010, p. 60.
9 R. D. Laing, op. cit., p. 63.