In occasione dell’uscita del remake di Suspiria, diretto dal regista Luca Guadagnino, «Lo Specchio Scuro» ha deciso di dedicare uno speciale al maestro del cinema horror Dario Argento attraverso l’analisi di quattro opere – Suspiria, Inferno, Tenebre e Opera – ed un saggio introduttivo.
Buona lettura.
Dario Argento: o della clandestinità senza nome, a cura di Pier Maria Bocchi.
Nel 1982 Dario Argento ambienta a Villa Ronconi un duplice omicidio: il film è Tenebre, la scena è celebre per l’uso della Louma. La casa porta la firma di Saverio Busiri Vici; i lavori di costruzione durano tre anni, e terminano nel 1973 a Casal Palocco, in viale Alessandro Magno. Argento racconta che raramente sceglie le location dalle fotografie: prende l’auto e gira. Villa Ronconi ha un aspetto futurista, tutta piani di cemento a incastro, e sembra già preludere al decostruttivismo. Inferno (1980) precede Tenebre, e funge da cerniera del cinema argentiano e dei suoi luoghi: un prima, dove il set e il colore creano un’immagine iperrealista nella quale la realtà, e in particolare la realtà topografica, subisce una parcellizzazione fantasiosa (tanto che la continuity geografica e d’interni si spezza); e un dopo, in cui la configurazione e la distribuzione dello spazio assumono caratteristiche più decise. A questo proposito, Tenebre è un prototipo, a cui Phenomena (1985) e –specialmente – Opera (1987) si ispirano per una mappatura dell’immaginario. Continua…
Suspiria, a cura di Alberto Libera.
Vladimir Propp, il celebre antropologo, ricorda le penose traversie censorie in cui incorse il genere letterario della fiaba, in epoca prima feudale e poi capitalista. Le «antiche fiabe […] sono perseguitate dalla chiesa e dal potere statale», tanto da innescare l’emanazione di «decreti contro i narratori professionali di fiabe».
Non c’è da stupirsene. Narrazione popolare di tradizione orale, la fiaba – illustra sempre Propp – conosce un legame ravvicinato con antichi riti e usanze arcaiche connesse alla fertilità e all’agricoltura in cui spesso erano previsti sacrifici propiziatori d’animali e, non infrequentemente, anche di uomini. Insomma: la fiaba si trascina appresso un legame saldissimo con il sangue e con l’orrore. Continua…
Inferno, a cura di Stefano Caselli.
Non sarebbe errato definire il rapporto tra Inferno [1980] e il cinema di Argento tutto a partire da una delle tante sequenze che il film propone fin dai primissimi minuti. Prendiamo come esempio in particolare una delle scene più iconiche della pellicola, quella che vede la giovane Rose Elliot addentrarsi in un sotterraneo alla ricerca di una misteriosa chiave. Qua già vediamo riproposti numerosi tra gli espedienti stilistici che definivano l’estetica del film precedente, il Suspiria del 1977: un uso delle luci e dei colori «aggressivamente innaturale» che tinge il vicolo con la grata di toni arancioni, neri e blu, e proietta da improbabili fonti luminose dei fasci altrettanto stranianti in tinta unita; un flusso di inquadrature nervoso e frammentario, che d’improvviso giustappone per esempio a un primo piano un’angolazione dal basso, che «suggerisce la presenza di una forza invisibile» come emissaria diretta di uno sguardo altrimenti inspiegabile; un comparto sonoro fatto di sferzate industriali e stridori elettronici che sopraggiungono a schiacciare dei rumori d’ambiente accentuati e innaturali, talvolta posti in secondo piano da voci fuori campo altisonanti. Continua…
Tenebre, a cura di Lorenzo Baldassari.
Parole come sadismo, voyeurismo e feticismo sono utilizzate frequentemente per analizzare i film di Dario Argento. Lo stesso regista non ha mai nascosto il carattere sadico-voyeurista dell’apparato cinematografico e dell’esperienza spettatoriale. Anche quando si è allontanato dal giallo (la Trilogia degli animali, Profondo rosso[1975]) per abitare i territori dell’horror soprannaturale con i capolavori Suspiria (1977) e Inferno (1980), le vittime della violenza argentiana restano prevalentemente le donne, soprattutto quando sono giovani e belle. Continua…
Opera, a cura di Nicolò Vigna.
Opera (1987) nasce in un periodo della vita particolarmente nefasto per Dario Argento. A livello professionale, il cineasta romano si è visto sfumare la possibilità di portare in scena Il Rigoletto di Giuseppe Verdi in una versione spregiudicata e ambiziosa: un’occasione unica per contaminare, con le proprie ossessioni e i propri “fantasmi”, l’amatissima opera lirica. Ma è soprattutto nella vita privata che il regista subisce il colpo più duro. Viene difatti a mancare il padre Salvatore, figura a lui vicinissima, che lo aiutò ad avvicinarsi al mondo del cinema, sostenendolo con la produzione dei suoi film fin dai tempi de L’uccello dalle piume di cristallo (1970). Dunque, non stupisce più di tanto l’estrema cupezza che contraddistingue la pellicola: un vero e proprio incubo metacinematografico attraversato dai dubbi e dai timori di un regista al culmine delle proprie inquietudini. Continua…