Data la grande fama di cui gode l’autore di questo libro e vista anche la grande spaccatura esistente tra cultori e detrattori della sua opera, ci preme innanzitutto proporre un approccio (un consiglio?) di lettura: considerarlo, cioè, prima di tutto per quello che non è (anche laddove tenta di esserlo): un testo di critica cinematografica. Del resto, è il titolo stesso a dirlo: una speculazione, cioè un’ipotesi. La sua. La sua visione del cinema così come lui lo intende e lo ama. Un’autobiografia, per certi versi, se è vero che, come disse lo stesso Tarantino di recente in un’intervista televisiva: «Se scrivi di cinema in un modo personale, è inevitabile raccontare anche la tua storia»1. A ricordarcelo ci pensa anche il linguaggio adottato, spesso colloquiale ed esuberante, un po’ come le sue sceneggiature, e in cui la parola fuck ricorre in tutte le sue declinazioni possibili.

Cinema Speculation (traduzione di Alberto Pezzotta, la nave di Teseo 2023) è innanzitutto un libro in cui l’autore, originario di Knoxville, Tennessee, ma losangelino per gran parte della sua vita, si racconta come spettatore e appassionato di cinema. C’è stato, sì, un periodo in cui si è cimentato nella critica cinematografica, ma il suo vero sogno era quello di farlo, il cinema. Così, dopo aver studiato per alcuni anni recitazione, ha cominciato a proporsi come sceneggiatore, per affermarsi poi, ben presto, non solo come regista, ma come autore totale dei suoi film, condizione quest’ultima imprescindibile per lui per poter affermare in piena libertà la propria visione e il proprio stile, oltre che il proprio insindacabile gusto. Gusto che si è formato durante l’infanzia, quando la sua giovane madre, Connie, e il suo patrigno Curt se lo portavano dietro nelle sale di Hollywood a vedere film spesso non propriamente adatti a un minore, una cosa di cui il piccolo Q amava vantarsi coi suoi compagni di classe. E poi in macchina, al ritorno verso Torrance – la cittadina a sud-ovest di Los Angeles in cui Quentin è cresciuto tra i due e gli otto anni – tutti insieme discutevano del film appena visto. I primi capitoli, forse i più belli, sicuramente i più divertenti, scorrono via con il piacere della scoperta, dell’incanto e della memoria. Il piccolo Quentin forma il suo gusto nel segno dell’irriverenza («Arte è sinonimo di trasgressione»2, scrive), nel pieno della rivoluzione della New Hollywood in quel decennio che va dalla fine degli anni Sessanta alla fine dei Settanta, quando per la prima volta sugli schermi americani si affacciavano non solo il sesso e la violenza in termini espliciti, ma anche una visione critica e radicale dell’American way of life.

cinema speculation tarantino bullittSteve McQueen in Bullitt [id., Peter Yates, 1968]

Tuttavia, i film che lo colpiscono maggiormente sono quelli che filtrano questa e altre importanti tematiche attraverso gli schemi del genere, soprattutto polizieschi, horror e limitrofi: grandi e piccoli film che appaiono finalmente liberi dalle pastoie del moralismo, prima della grande Restaurazione del decennio successivo, in cui si torna a formule consolidate, all’happy end e si assiste a un ritorno a quella che lui chiama l’«infantilizzazione» del cinema americano3. Sono quelli i titoli che formeranno la sua idea di cinema, nel momento in cui passerà a scrivere e poi anche a dirigere. Un’altra caratteristica che rende unica e peculiare la sua esperienza formativa è la frequentazione di sale all black in cui si proiettavano pellicole con attori neri pensate per un pubblico nero. Luoghi losangelini “oltreconfine”, in cui il giovane Tarantino si ritrovava spesso ad essere l’unico bianco presente, in una posizione privilegiata per assorbire umori, umorismo, insulti coloritissimi e quintali di testosterone. Il battesimo del fuoco fu una serata con Reggie, il nuovo compagno afroamericano di Connie, che lo portò a vedere un film di blaxploitation che per il piccolo cinefilo in erba rappresentò una delle esperienze più incredibili di tutta la sua vita:

E, in tutta onestà, devo dire che non fui più lo stesso. Da allora, in un modo o nell’altro, ho passato la mia vita di spettatore e di regista cercando di ricreare l’esperienza di vedere l’ultimo film di Jim Brown un sabato sera del 1972 in un cinema frequentato solo da neri4.

E così ora possiamo capire meglio perché a quel sottogenere, una volta regista, dedicò una delle sue creazioni più belle e ispirate: Jackie Brown [id., 1997]. Altrettanto centrale per il piccolo “Q” fu un tale, un certo Floyd, anche lui afroamericano, cinefilo e aspirante sceneggiatore, di cui Tarantino traccia un toccante ritratto nell’ultimo capitolo del libro, quello in cui più emergono le sue qualità letterarie.

cinema speculation black gunnJim Brown in Pistola nera… spara senza pietà [Black Gunn, Robert Hartford-Davis, 1972]

jackie brown cinema speculationPam Grier in Jackie Brown

Il punto cruciale per comprendere il punto di vista dell’autore, e il perché parli in un certo modo dei film di cui tratta, si trova in questa considerazione:

Registi come Sam Peckinpah e Don Siegel sono stati maestri del cinema di genere. Ma non facevano film di genere nello stesso modo di Jean-Pierre Melville. O di me. O di Walter Hill, o di John Woo, o di Eli Roth. Noi il cinema di genere lo conosciamo da intenditori, e facciamo film di genere perché amiamo i film di genere5.

E più avanti, parlando della generazione dei Movie Brats, e in particolare di Spielberg e dello Squalo [Jaws, 1975], puntualizza:

Per la prima volta alla regia non c’era un Richard Fleischer, un Jack Smight o un Michael Anderson che si limitavano a eseguire il lavoro che gli era stato affidato dallo studio, ma un regista nato, un genio, che impazziva proprio per questo genere di film (…)6.

Cioè a dire, il genere non è più un compromesso, un lavoro imposto dall’alto, ma una scelta volontaria, un ritorno al piacere del racconto, dei personaggi, dello stile, del ritmo. Perché con quei film lì si è cresciuti vedendoli dapprima in sala, poi in televisione e infine – per quanto concerne la generazione di Tarantino – visti e rivisti in videocassetta. Infatti, come molti sapranno anche prima di leggere questo libro, il suo autore ha lavorato per diversi anni in un negozio di noleggio di VHS. E’ questa passione primigenia che fa da motore primo al suo cinema e che non cessa neanche quando la Storia irrompe, da un certo momento in poi, nelle storie dei suoi personaggi. E’ attraverso questa griglia che Tarantino passa ad analizzare, nel corso dei vari capitoli, un certo numero di film che ha amato (alcuni assai famosi, altri meno) ma sui quali ha anche alcune riserve. Riserve che non sono da ascrivere tanto a un’analisi propriamente critica, come dicevamo all’inizio, ma all’occhio di chi i film li fa in prima persona, privilegiando il cinema di genere.

deliverance tarantino cinema speculationBurt Reynolds in Un tranquillo weekend di paura [Deliverance, 1972, John Boorman]

Ecco dunque che alcune pagine che possono apparire alquanto controverse – come quelle dedicate a Un tranquillo weekend di paura o a Hardcore [id., Paul Schrader, 1979] , sono quelle in cui Tarantino sostanzialmente rivela il proprio sguardo di sceneggiatore e regista che si mette a confronto con Boorman, Schrader o Scorsese e altri. E anche se non dice mai esplicitamente “io avrei fatto così”, di fatto lo lascia intendere. Ed è ciò che più ci dovrebbe interessare, perché pone l’accento, una volta di più, sul cinema dello stesso Tarantino, da cosa esso nasce, come si sviluppa, a cosa mira. È discutibile affermare che in Un tranquillo weekend di paura, tanto per fare un esempio, una volta messo fuori combattimento Burt Reynolds (che Tarantino ritiene il personaggio centrale e più interessante) il film inizi a perdere colpi approdando a un finale insoddisfacente? Certo che lo è, e all’autore si potrebbero muovere facilmente delle motivate obiezioni. Ma il punto, lo ripetiamo, è un altro: ciò che è interessante è immaginare quel film con i suoi occhi, e addirittura – volendo – provare a vederlo in azione al posto del regista in questione. È in questa prospettiva, dunque, che dovremmo mettere tra virgolette affermazioni tranchant come «Paul Schrader è uno splendido sceneggiatore, con un gigantesco punto debole. Non sa scrivere film di genere»7. Giudizi con i quali ci si può trovare in accordo o meno, ma che sono fondamentali per capire lo sguardo di uno dei registi più amati/odiati ma comunque influenti degli ultimi trent’anni. Fra tutte le “speculazioni” che compaiono nel testo, la più singolare e interessante è quella descritta nel capitolo che dà il titolo al libro, e nel quale Tarantino ipotizza come sarebbe stato Taxi Driver [id., 1976] se in cabina di regia ci fosse stato Brian De Palma, uno dei suoi registi preferiti. Del capolavoro di Scorsese ha già scritto in abbondanza nel capitolo precedente, sviscerandolo e mettendolo a confronto con la sceneggiatura originale di Schrader, rivelandone tutte le differenze. Qui invece il Nostro si diverte a immaginare un film che, nelle mani di De Palma (il primo a leggere e valutare lo script di Schrader), sarebbe stato senz’altro molto diverso da quello che tutti conosciamo.

taxi driver scorsese tarantino de palmaRobert De Niro in Taxi Driver

L’amore di Tarantino per il cinema è a largo spettro, passa anche per attori come Steve McQueen (che compare sulla copertina originale americana insieme a Sam Peckinpah), autori cinefili come Peter Bogdanovich, registi action come John Flynn, ed è testimoniato anche dalle pagine in cui si sofferma su una delle penne della critica da lui preferite (insieme a Pauline Kael), ovvero Kevin Thomas, seconda firma del “Los Angeles Times”. A lui venivano affidate le recensioni dei film all’epoca considerati minori, ovvero quelli di genere e di exploitation, sia americani che esteri. E pur non concordando sempre con le valutazioni, è soprattutto grazie alle segnalazioni di Thomas che Tarantino ha scoperto i suoi punti di riferimento, venendo in contatto con autori di film bis quali Russ Meyer, Jess Franco e Dario Argento, e film come Alligator [Lewis Teague, 1980], del quale lo colpì a tal punto l’interpretazione di Robert Forster da volerlo ingaggiare diciassette anni dopo per il suo Jackie Brown.

organizzazioni crimini the outfit locandina cinema speculationLa locandina di Organizzazione crimini [The Outfit, John Flynn, 1973]

Ma soprattutto, attraverso la sua storia e la formazione del suo gusto (che non è solo cinematografico e musicale, ma anche una vera e propria visione del mondo) abbiamo modo di ripercorrere insieme a lui il cinema americano di un decennio8, quello degli anni Settanta, che in ogni suo film Tarantino ha tentato di resuscitare e attualizzare, forse anche per sfuggire, a modo suo, alle immagini smaterializzate di oggi, digitali, volatili, opponendogli una concretezza fatta di corpi (degli attori, ma anche degli stuntman e degli stuntman “promossi ad attori”, come nel caso dell’australiana Zoë Bell), sangue, metallo (che si tratti della macchina di Stuntman Mike o la katana di Hattori Hanzo), e soprattutto di pellicola (dagli effetti vintage di Grindhouse – A priva di morte [Death Proof, 2007] al 70mm Ultra Panavision di The Hateful Height), in una sorta di «regressione a un’epoca in cui il cinema e la musica si candidano a incarnare quella matericità della vita e della morte che l’era dei simulacri digitali tenderebbe a cancellare e rimuovere in un limbo in cui, non pulsando più la vera vita, non ha più senso neanche la morte»9.

In conclusione, va da sé che chi già ama i film di Tarantino amerà anche questo libro, mentre chi non lo sopporta non si convertirà, soprattutto davanti a certe prese di posizione dell’autore (come le “imperdonabili” frecciate a Michael Mann e al finale del suo Heat [id., 1995]). Ma di certo né l’uno né l’altro potranno negare non solo la sua ipertrofica e smodata passione per il cinema (e per la sala cinematografica), ma anche il fatto che sia terribilmente contagiosa.

hateful eight cinema speculationThe Hateful Eight [id.,  2015]

 

NOTE

2. Quentin Tarantino, Cinema Speculation, La Nave di Teseo, Milano, 2023, p. 127.

3. Ivi, p. 147.

4. Ivi, p. 36.

5. Ivi, p. 133.

6. Ivi, p. 203.

7. Ivi, p. 368.

8. E non solo americano: anche se restano perlopiù “fuori campo” in questo libro, ci sono anche innumerevoli film coevi di altri Paesi sui quali Tarantino si è formato: gli spaghetti western e i poliziotteschi italiani, i chanbara e gli yakuza eiga nipponici, i film di kung fu, gli wuxiapian e gli heroic bloodshed di Hong Kong, etc.

9. Christian Uva, Grindhouse – A prova di morte, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, Marsilio, Venezia, 2009, p. 123.