Christine – La macchina infernale [Christine, 1983], come altri film dello statunitense John Carpenter, rappresenta una sfida alla narrazione classica, alle possibilità della narrazione cinematografica. Innumerevoli infatti sono le letture meta-testuali che innervano la cinematografia del regista, e tra esse non fa eccezione Christine, considerato dalla maggioranza della critica un lavoro secondario del regista. Eppure questo film, tratto da un romanzo di Stephen King uscito nel medesimo anno, sembra, tra le opere di Carpenter, una delle riflessioni più compiute e mature sulla società consumistica rappresentata attraverso i suoi feticci, nonostante si tratti di una pellicola sulla carta puramente “alimentare”, conseguente all’insuccesso ottenuto da La Cosa [The Thing, 1982] l’anno precedente. Come infatti scrive Lorenzo Esposito: «Tuttavia è perfettamente nelle sue corde, dopo l’insuccesso del suo film più personale (The Thing), procedere in questa spoliazione dell’horror attraverso la pratica ulteriormente classica del film su commissione, nel quale instillare il virus molto poco affine del proprio cinema»1

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Il capovolgimento di un immaginario

Attingendo all’estetica anni Cinquanta (una rappresentazione dell’immaginario collettivo contestualizzata dal rock’n’roll onnipresente) e agli stereotipi dei film di teenagers, rispettati ancora oggi in televisione e nel cinema di genere (American Graffiti [id., 1973] di George Lucas e la serie tv Happy Days [1974-1984, creata da Garry Marshall] sono riferimenti evidenti, come fa notare Fabrizio Liberti nel suo Castoro2 dedicato al regista), Carpenter sembra rielaborare i confini di questo stesso immaginario e rivoltarli dal di dentro, ricercando con attenzione alcuni motivi ricorrenti per fornirne nuove chiavi di lettura. L’operazione di decostruzione non può abdicare, infatti, alla puntuale ricostruzione di un mondo e di un certo modo di vivere, tanto più che i personaggi di Christine sono privi di ambiguità e di irregolarità: Dennis è il belloccio del liceo, Leigh è la più bella ragazza della scuola, Arnie lo “sfigato”.
Quest’ultimo è il protagonista del film, un ragazzo semplice della provincia americana, mentre Dennis, uno degli studenti più popolari della scuola, è il suo migliore amico. Leigh si è invece appena trasferita nel loro liceo, ed esercita il suo fascino su entrambi. La vita di Arnie verrà di lì a poco stravolta dall’incontro con  Christine, automobile anni Cinquanta misteriosamnete posseduta.
Partendo da premesse tutt’altro che originali, la tensione della riflessione carpenteriana si risolve invece tutta dentro all’immagine. Il personaggio di Arnie, nel corso del film assume una sempre maggiore consapevolezza di sé e del proprio corpo, mentre, per contrasto, il nefasto ascendente di Christine, posseduta da una forza misteriosa, lo rende vieppiù paranoico. Da studente impacciato eccolo trasformarsi in un giovane aggressivo e prepotente. Una metamorfosi repentina che lo getta in un abisso dai contorni oscuri. Ciò che più interessa al regista statunitense, però, è il risultato di questo processo di mutazione, capace di sovvertire le gerarchie valoriali di un mondo (la famiglia di Arnie è la perfetta rappresentante della media borghesia della provincia).

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Il visibile come pura superficie

Fa notare Lorenzo Esposito nella sua monografia Carpenter, Romero, Cronenberg. Discorso sulla cosa come, dopo The Thing, che accumula tensione con «un surplus di forme in-visibili», Carpenter passi al «corpo meccanico di Christine, che sembra coincidere con la stessa materia di cui è fatto il film […], metafora di un vedere che corrode dall’interno lo svolgersi stesso della pellicola in cui scorre.»3 È evidente dunque come il perno espressivo di Christine ruoti intorno alla diretta visibilità delle forme e dei soggetti, alla scorza dell’immagine. Eppure, in sequenze come quella dell’uccisione di Malcolm Danare, uno dei bulli della scuola, si manifesta anche una profonda tensione fra visibile e invisibile, fra l’orrore sopra e quello sotto la superficie. Da questo punto di vista, Christine non è meno teorico di The Thing.

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Sotto questo aspetto, è nodale la sequenza del primo inseguimento di Christine.
Moochie Welch (un altro dei ragazzi più prepotenti della scuola, protagonista di diverse aggressioni ai danni di Arnie) vede Christine in fondo a un gigantesco garage aperto. Qui Carpenter adopera un dolly laterale prolungato per una delle sequenze più sofisticate del film, controcampo oscuro della prima apparizione di Christine ad Arnie (lì una sequenza in esterno giorno, dove l’auto ha un aspetto ben poco attraente, qui una sequenza notturna, con Christine divenuta bellissima). Mentre la m.d.p. compie un percorso da sinistra verso destra, scorgiamo il veicolo nascosto dietro un muro divisorio. È una carrellata di diversi secondi, in cui non si vede quasi nulla. Eppure, Carpenter accumula con un’immagine vuota e buia un alto livello di suspence: è percependo il movimento della macchina da presa che abbiamo letteralmente paura di ciò che si nasconde dietro il muro. Sembra quasi di assistere al sollevarsi di un sipario, un palcoscenico dove Christine può finalmente mostrare tutto il terrore che si nasconde dietro lo splendore delle sue superifici cromate. Se poi pensiamo che l’inquadratura è una semi-soggettiva di Moochie, allora questa scena diventa la definitiva esplicitazione di un meccanismo puramente cinematografico che è il tessuto primario del film di Carpenter: la dialettica fra visibile e invisibile. 

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Punto di vista

Il punto di vista di questa sequenza, come detto, non è oggettivo ma adotta il regime, se vogliamo, della falsa soggettiva. Possiamo infatti notare in Christine che alcune sequenze, come dice Lorenzo Esposito a proposito dell’incipit di Halloween – La notte delle streghe [Halloween, 1978], rappresentano «il raggiungimento di una sorta di percezione alterata che impone e imporrà il proprio quadro visivo su ogni inquadratura […] Ciò che viene messo in gioco è un’originale teoria o poetica della visibilità, in cui il meccanismo film-spettatore-cinema diviene pura etica dello sguardo»4.

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Si prenda ad esempio la sequenza in cui Arnie viene aggredito nei corriodio della scuola: Buddy Repperton, uno degli assalitori, schiaccia, con un gesto plateale, gli occhiali di Arnie. Occhiali di cui presto lo stesso protagonista non avrà più bisogno. Quando Arnie è caduto a terra e guarda sopra di sé verso Buddy ripreso attravero un estremo contre-plongée, l’inquadratura metaforizza una condizione di pura sottomissione, sebbene Carpenter in questo caso non espliciti lo specifico punto di vista di Arnie, che invece ci aspetteremmo appannato e sfocato, data la mancanza degli occhiali.

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Non si elabora, insomma, quel lavoro di assunzione del punto di vista soggettivo come avverrà in Essi vivono [They Live, 1988], successivo di cinque anni, o come era avvenuto nell’incipit di Halloween (1978). Perché qui Carpenter non ha interesse ad assumere il materiale punto di vista di un personaggio. Christine rappresenta quasi un unicum nel cinema del regista perché è come se mettesse in scena la definitiva riduzione a puri significanti dei personaggi e degli oggetti. Una feticizzazione della Cosa. La creatura mutaforma e invisibile del film precedente sembra qui approdata ad una diversa forma di visibilità: è pronta ad affacciarsi sulla superficie delle cose, delle certezze dell’immaginario collettivo, si identifica definitivamente con i feticci di una società privata di valori e prigioniera dei propri simulacri. Significativo è dunque quanto separa Christine da They Live: lì degli occhiali mostrano fattivamente ciò che sta dietro la superficie, qui gli occhiali sono semplicemente uno strumento identificativo, il contrassegno visivo del “primo” Arnie del film. La gigantografia dei vari “Obbedisci”, “Riproduciti” etc. di They Live è in primo piano nell’American Way of Life, nelle credenze svuotate perché sedimentate e ripetute all’infinito.

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Essi vivono

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Christine

Estetica della mutazione

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Campo/controcampo

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«Non penso che i film debbano essere una serie di primi piani sui volti dei personaggi mentre stanno parlando. Non penso che il dialogo sia così importante. Penso che il cinema sia un mezzo di comunicazione visuale e che la m.d.p. debba quindi esprimere visivamente tutto ciò che accade. Il dialogo c’è per sostenere quello che si vede, ma è il vedere che conta», dice Carpenter.
La prima volta che vediamo Arnie senza occhiali è durante i primi tentativi di riparazione di Christine. L’effetto è straniante: l’auto ci appare come un rottame di cui non comprendiamo affatto il fascino, sebbene siamo memori dell’incipit in cui, come in una sfilata, Christine fa il suo ingresso a effetto vantando l’unica carrozzeria rossa dell’intera successione di automobili.

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Allo stesso tempo, Arnie ci appare cambiato. Senza occhiali – non ne ha più bisogno -, riesce ben presto a sistemare Christine e a riportarla ai suoi antichi splendori.
Subito dopo, però, Carpenter mette Arnie apparentemente in secondo piano, staccando sulla sequenza della biblioteca. Qui Dennis chiede a Leigh di uscire ma lei dichiara di essere impegnata. Non abbiamo il minimo sospetto che la ragazza si sia in verità promessa proprio ad Arnie. Non sappiamo mai veramente tutto in un film di Carpenter (si vedano ad esempio La cosa o Distretto 13 – Le brigate della morte [Assault on Precinct 13, 1976]). Perché nel cinema del regista avviene un «processo di decentramento e di indeterminazione dell’immagine, verso cui sembrano tendere le forme dell’horror e dell’immaginario fantastico tout court5.

La scoperta del rapporto fra Arnie e Leigh è una delle sequenze più potenti del film, nonostante Christine sia qui lasciata in secondo piano. Mentre è impegnato in una partita di football, Dennis vede Arnie e Leigh scendere dalla “macchina infernale”, e, subito dopo, baciarsi. Per mezzo di una carrellata frontale, ci avviciniamo ad Arnie e Leigh stretti nel bacio, in modo tale che il punto di vista dello spettatore coincida a tutti gli effetti con quello di Dennis. Carpenter mette subito le carte in tavola: la sfida fra i due personaggi è una sfida di “presenza” all’interno dell’immagine, espressa attraverso una differente consapevolezza che i personaggi hanno del proprio corpo. Infatti, durante questa scena, Dennis viene colpito duramente da un avversario subendo molteplici fratture, con il risultato di non poter più giocare: non vedremo più Dennis in piena salute, ma sempre più o meno zoppicante, e debole.

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Da quel momento in poi, Arnie sarà una presenza sempre più ingombrante, nel film. Con un atteggiamento vieppiù arrogante e presuntuoso, diventa a tutti gli effetti un personaggio negativo, l’insospettabile antagonista. È in questo frangente che si innamora di Christine, e Christine comincia a minacciare chiunque si metta fra di loro (in prima battuta, proprio la sfortunata Leigh), modellando e manipolando lo sguardo e il desiderio di Arnie. Dice Esposito:
«Christine è una pulsione deformativa che attinge direttamente al desiderio. […] È una carcassa che ricava le proprie possibilità finzionali dall’atto desiderante di Arnie, del quale diventa il mezzo stesso di visione, l’occhio e l’esperienza.»6

Erotismo ed esibizionismo

Sempre percorrendo il nervo metacinematografico che tanto gli è caro, Carpenter ambienta una sequenza successiva in un drive-in. La pioggia rende lo schermo poco visibile, ma Arnie e Leigh non lo stanno certo guardando. Mentre i due sono immersi in un bacio appassionato, Leigh d’improvviso si ferma come preoccupata dallo strano “comportamento” dell’auto, come soffermandosi a riflettere sulla perturbante ossessione di Arnie per la macchina stessa. Quello che Leigh interrompe, rinunciando a concedersi ad Arnie all’interno di Christine, è un vero e proprio ménage a trois, cui Christine partecipa tanto idealmente quanto fisicamente attraverso il movimento dei tergicristalli. Dice Fabrizio Liberti: «L’auto, già di per sé oggetto di natura femminile, viene appunto vista da Carpenter come colei in grado di gestire il rito di passaggio di Arnie alla vita adulta, come una femme fatale dalla sessualità prorompente, tanto che c’è chi ha paragonato l’insistita inquadratura del grigio muso della Plymouth ad una criptica vagina dentata»7.

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Sempre più gelosa, Christine arriverà a tentare di uccidere Leigh. L’aggressione è preannunciata dall’attivazione autonoma della radio (con quel rock’n’roll che, diversamente da come avviene in Elvis, il re del rock [Elvis, 1979], è, secondo Fabrizio Liberti, «associato a una forza del male che porta allo scatenamento di energie sessuali represse»8) e dall’innesco di una luminosissima luce interna che impedisce di distinguere la silhouette di Leigh.

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La luce accecante sarà un motivo visivo ricorrente nel film. Nella sequenza in cui la macchina si “aggiusta da sola” (sequenza oltretutto magnificamente orchestrata in termini di montaggio e di effetti speciali) i fari di Christine permettono ad Arnie di accedere al proprio personale palcoscenico, allo spazio scenico prepotentemente rivendicato con la sua metamorfosi. 

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Christine assume dunque un’identità propria. Ancora una volta Carpenter mette in crisi la mitologia visuale collettiva (campi-controcampi nei dialoghi, primi piani enfatici, tutti stereotipi oggigiorno trasferitisi di netto in contesti più televisivi che cinematografici), e realizza una serie di sequenze in cui il carrello, come nel Kubrick di Shining [The Shining, 1980], diventa l’ideale allegoria dell’occhio terrorizzato dello spettatore.

christine 54In una scena in cui Christine insegue uno degli smargiassi ostili ad Arnie, il malcapitato si trova completamente da solo in mezzo alla strada, incalzato dell’auto. La sua figura però entra in regime di out of focus quando i fari dela Plymouth in fondo alla strada preannunciano l’ingresso in scena della stessa.

Anche Christine ha compiuto la sua mutazione interna al film. Da carcassa derelitta, imparagonabile ala vettura di Dennis, ad automobile perfetta e splendente.

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Christine, all’inizio del film, e l’auto di Dennis

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Christine distrugge l’auto di Buddy Repperton

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Inseguendo Repperton che corre in mezzo alla strada, dopo una breve sequenza in cui i fari illuminano la strada come avverà in futuro nell’incipit di Strade perdute [Lost Highway, David Lynch, 1997], Christine totalmente in fiamme raggiunge Buddy e lo investe, bruciandolo a sua volta. In questa scena la flagranza visuale della macchina raggiunge il suo apice: è un vero e proprio squarcio di luce nella notte. Il feticismo degli oggetti, in Christine, ha come unica possibile conseguenza la rivolta degli stessi, come avverrà nel 1990 con Adrenaline di Bompard, Assal e Dorison.

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Adrenaline

Amor fou autodistruttivo

Il rapporto fra Arnie e Christine diventa una vera e propria relazione d’amore, tanto che Leigh finisce per provare gelosia nei confronti della macchina. Un amour fou a tutti gli effetti, trasgressivo e impalpabilmente carnale, feticistico. Christine potrebbe infatti fare da ideale controcampo al Crash [id., 1996] cronenberghiano: in entrambi i film, l’alienazione ha il suo correlativo nel bruciarsi/accartocciarsi/deformarsi della “carne” metallica e degli “organi” meccanici delle automobili.«Qui la macchina di Carpenter anticipa l’organo biomeccanico con cui fondersi empaticamente di Crash»9, conferma Lorenzo Esposito.

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Christine /Crash

Lo scontro finale, un faccia a faccia leoniano col sottofondo di Rock’n’roll Is Here to Stay dei Danny & The Juniors nel garage dove è parcheggiata Christine, esplicita la metafora della macchina come specchio dell’identità del suo possessore. Christine, per quanto deformata (il muso è diventato definitivamente un volto con due occhi-fanali accigliati), rimane sempre la meravigliosa auto luccicante e dai fari luminosissimi, e a bordo di lei si trova il nuovo Arnie; dall’altra parte, a bordo di uno sgraziato Caterpillar, ecco Dennis, ancora invalido per l’incidente di football. 

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La sfida tra i due veicoli propone dinamiche quasi leoniane

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Christine rivela la sua vera natura

Con uno sberleffo, alla larga da qualunque manicheismo, Carpenter conclude il film con Dennis e Leigh che osservano la carcassa di Christine, compattata in un detrito squadrato. I due sentono una musica che sembra provenire dall’autoradio di Christine, ma in verità la sorgente è la radio portatile di un anonimo passante. Leigh dichiara: «Quanto odio il rock’n’roll». E così Carpenter impone un’epitome, a fine film, un sunto di quell’’ironia visuale che è il filo conduttore della pellicola. È una sorta di beffa che svela il sottotesto profondamento satirico dell’operazione: l’idea di realizzare la parodia, venata di un orrore profondo, di un intero immaginario (parodia come fu il Dark Star [id.] del 1974).

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Christine si presenta perciò come il film più beffardo e teorico di Carpenter, incunabolo ideale di alcuni riflessioni efficacemente svolte da Il signore del male [Prince of Darkness, 1987], di quattro anni successivo: l’inconscio che avverte del Male venturo tramite un macabro sogno collettivo (una ripresa amatoriale quasi capostipite di suggestioni mockumentary del cinema del Nuovo Millennio), e la messa in dubbio della propria identità tramite il confronto con l’immagine deformata rimandata dagli specchi. Come ricordato in precedenza, l’orrore in Christine risiede tanto in superficie quanto nello strato immediatamente inferiore ad essa. Il cilindro di Prince of Darkness è la rappresentazione perfetta di questa suggestione.

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Il signore del male

NOTE

1. L. Esposito, Carpenter, Romero, Cronenberg. Discorso sulla cosa, Editori Riuniti, Roma, 2004    

2. F. Liberti, John Carpenter, Il Castoro, Milano, 1997      

3. Vedi nota 1      

4. Ibidem     

5. Ivi     

6. Ivi    

7. vedi nota 2      

8. Ibidem    

9. vedi nota 1