Nel saggio più famoso della Feminist Film Theory (FFT), Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975)1, Laura Mulvey osserva come nel cinema classico l’atto del guardare sia costantemente scisso in attivo/maschile e passivo/femminile: la soggettiva viene riservata all’uomo, mentre la donna è ridotta a oggetto da guardare e possedere. Tuttavia, da un punto di vista psicoanalitico, l’immagine della donna non attiva soltanto il piacere nello spettatore maschile: «la figura femminile […] allude anche a qualcosa cui lo sguardo gira continuamente attorno ma disconosce: la sua mancanza di un pene, che implica una minaccia di castrazione e quindi un non piacere»2. Prendendo in esame il cinema di Josef von Sternberg con l’attrice Marlene Dietrich, Mulvey nota come nel film classico una delle opzioni per esorcizzare la minaccia della castrazione sia rappresentata dalla feticizzazione dell’immagine della donna, configurata come un oggetto perfetto e perciò rassicurante.
Marlene Dietrich, illuminata da Lee Garmes, all’apice del suo fascino glamour in Shanghai Express [id., 1932].
In un libro altrettanto cruciale per la FFT, intitolato In the Realm of Pleasure: Von Sternberg, Dietrich, and the Masochistic Aesthetic (1988)3, Gaylyn Studlar, a partire da Il freddo e il crudele (1967) del filosofo francese Gilles Deleuze4, avanza un’ipotesi interpretativa differente da quella proposta da Mulvey. Nei sei film hollywoodiani di Sternberg/Dietrich, l’attrice non verrebbe relegata al ruolo passivo di feticcio ma, come le eroine dei romanzi di Leopold von Sacher-Masoch, è sia oggetto che soggetto dello sguardo, «un personaggio sempre ambivalente che si muove tra gli estremi della sofferenza e dell’infliggere dolore»5.
Nei film di Sternberg/Dietrich, si alternano con una certa ripetitività sequenze in cui l’attrice viene tramutata dall’arte del regista in immagine ideale6, ad altre in cui la donna invece si ritrae, e si nega crudelmente allo sguardo. In questi momenti, osserva Studlar, il cinema di Sternberg propone un’esperienza spettatoriale differente da quella descritta in Visual Pleasure. Al contrario di Mulvey, che privilegia la teoria freudiana e la fase edipica, dominata dal Padre e dalla minaccia della castrazione, Studlar propone di considerare il piacere filmico e l’esperienza spettatoriale come un’attività «più vicina alla fase pre-edipica, in particolare quella orale, quando per il bambino la madre “rappresenta tutto”»7.
La tesi di Studlar è che la scissione del piacere della visione in attivo/maschile e passivo/femminile sia insufficiente per descrivere l’esperienza spettatoriale. Se Mulvey identifica l’atto di guardare con il sadismo o il feticismo, per Studlar il cinema di Sternberg/Dietrich costruisce un’esperienza di piacere per lo spettatore che non è fondata sul controllo dell’immagine della donna, ma che dipende dalla suspense e dalla minaccia della separazione, e che perciò ha la forma del masochismo8. Nei film realizzati dal regista di Venere bionda [Blonde Venus, 1932] avviene uno scambio continuo dei ruoli di potere tra soggetto guardante e oggetto guardato, con Dietrich – la “madre orale” della fase pre-edipica, ovvero colei con cui il soggetto masochista fantastica un’impossibile simbiosi – che è «simultaneamente oggetto d’amore e agente di controllo»9.
Venere bionda rappresenta un testo chiave dell’estetica masochista e della FFT10. La protagonista Helen, interpretata da Marlene Dietrich, è allo stesso tempo madre, performer, seduttrice e prostituta.
Sebbene l’estetica masochista del modello di analisi di Studlar caratterizzi, più o meno trasversalmente, l’intera filmografia di Sternberg e la configurazione visiva di attrici come Evelyn Brent11 (Le notti di Chicago [Underworld, 1927], Crepuscolo di gloria [The Last Command, 1928]), Gene Tierney/Ona Munson/Victor Mature (I misteri di Shanghai [The Shanghai Gesture, 1941]) e Akemi Negishi (L’isola della donna contesa [The Saga of Anatahan, 1953]), è intorno all’immagine di Dietrich che tale estetica ha prodotto i risultati più significativi, come nel caso di Capriccio spagnolo [The Devil Is a Woman12, 1935], adattamento cinematografico di un romanzo erotico di Pierre Louÿs, La donna e il burattino (1898)13, da cui lo spagnolo Luis Buñuel trarrà poi ispirazione per Quell’oscuro oggetto del desiderio [Cet obscur object du désir, 1977]14.
Realizzato dopo l’insuccesso commerciale de L’imperatrice Caterina [The Scarlet Empress, 1934], Capriccio spagnolo è l’ultimo dei film di Sternberg/Dietrich. Al netto delle affinità con il romanzo di Louÿs, Capriccio spagnolo rappresenta a tutti gli effetti una summa dei loro sette film precedenti – lo stesso Sternberg, all’interno della sua autobiografia, definisce Capriccio spagnolo «un tributo finale»15 riservato alla diva de L’angelo azzurro [Der blaue Engel, 1930].
Servendosi delle risorse dello studio system, Sternberg ha realizzato a Hollywood una vera e propria trasfigurazione feticistica dell’immagine dell’attrice tedesca, che diventa proiezione del desiderio spettatoriale, sia maschile che femminile16. Negli ultimi due film di Sternberg/Dietrich, L’imperatrice Caterina e Capriccio spagnolo, l’attrice realizza l’ideale erotico ed estetico del regista, ma diventa anche maîtresse fredda e crudele – «una figura potente – scrive Studlar –, insieme pericolosa e confortante»17. In Capriccio spagnolo in particolare, Dietrich si mostra all’apice della sua bellezza e, contemporaneamente, si sottrae al male gaze, rinviando indefinitamente il soddisfacimento del desiderio scopico, che era invece al centro dell’esperienza spettatoriale in Visual Pleasure di Mulvey18.
In Capriccio spagnolo, Dietrich interpreta l’allemeuse Concha Pérez, metà enfant metà femme fatale.
Attraverso il modello di analisi proposto da Studlar, mostreremo brevemente come l’estetica masochista si condensi nell’incipit di Capriccio spagnolo.
Come già per gli altri lungometraggi di Sternberg/Dietrich, si può sostenere che le vicende raccontate e rappresentate in Capriccio spagnolo non siano altro che la messa in scena del desiderio masochista del protagonista maschile del film, il capitano Don Pasqual Castelar (interpretato da Lionel Atwill). L’uomo è stato infatti l’amante di Concha Pérez (Marlene Dietrich), bella cigarette girl famosa a Siviglia per la sua crudeltà in amore.
Favorendo l’immedesimazione dello spettatore con il personaggio di Don Pasqual – in Capriccio spagnolo, è Don Pasqual che racconta le umiliazioni subite all’amico Antonio (Cesar Romero) –, Sternberg adatta il romanzo di Louÿs proponendo un’esperienza di visione in cui i caratteri fondamentali dell’estetica masochista – fantasma, disconoscimento, feticismo e suspense19 – costituiscono una forma di piacere differente da quello descritto da Mulvey in Visual Pleasure. Ad esempio, il ménage à trois che occupa tutta la seconda parte di Capriccio spagnolo, con Don Pasqual e Antonio che si contendono Concha, rappresenta un tipico fantasma masochista: contrariamente a ciò che la logica narrativa imporrebbe, e come evidenzia peraltro alla perfezione l’incipit del film, il compito di Antonio non è possedere la bella Concha, prendendo il posto appartenuto un tempo a Don Pasqual, ma piuttosto prolungare «il gioco masochistico della sparizione e del ritorno, della separazione e dell’unione»20. Anzi, volendo andare più lontano, si può sostenere che già l’incipit di Capriccio spagnolo, in cui Antonio vede Concha per la prima volta, scaturisca direttamente dalla soggettività di Don Pasqual.
L’incipit di Capriccio spagnolo
Nell’incipit di Capriccio spagnolo, che proviene direttamente dal romanzo di Louÿs, l’esule politico Antonio Galvan (Cesar Romero) intravede la cigarette girl Concha Pérez (Marlene Dietrich) durante i festeggiamenti del carnevale in una piazza di Siviglia. L’enunciazione filmica dell’immagine di Concha è paradigmatica: inquadrata con una soggettiva ravvicinata di Antonio – che, al pari dello spettatore, vede la bella cigarette girl per la prima volta –, Dietrich appare immediatamente come una delirante fantasia erotica grazie all’eccessiva prossimità della soggettiva al volto della donna.
L’enunciazione filmica dell’immagine di Concha, che entra nell’inquadratura perché vista da Antonio, e l’utilizzo della tecnica del campo-controcampo potrebbero indurre lo spettatore a leggere l’incipit di Capriccio spagnolo attraverso la tesi mulveyana contenuta in Visual Pleasure della donna come oggetto passivo del desiderio maschile: unendo il proprio sguardo a quello di Antonio, lo spettatore sarebbe in grado di possedere indirettamente la bella cigarette girl21. In realtà, la Concha di Dietrich, al pari dei personaggi femminili degli altri film di Sternberg, rappresenta la “madre orale” del testo masochista: nel campo-controcampo che apre Capriccio spagnolo, avviene un continuo scambio di ruoli tra soggetto guardante (Antonio) e oggetto guardato (Concha), che impedisce allo spettatore di esercitare con piacere il controlling gaze descritto da Mulvey in Visual Pleasure.
Nell’incipit di Capriccio spagnolo, anche lo spazio visivo è impregnato e permeato dall’impossibilità di Antonio di esercitare il controlling gaze mulveyano: non appena l’esule politico tanta di raggiungere Concha, sbarre, porte e finestre si frappongono fra lui e la bella cigarette girl. Insomma, nonostante Concha si offra platealmente allo sguardo desiderante di Antonio (la soggettiva iniziale), quest’ultimo non riesce a possederla.
Non sorprende, dunque, che la scena si concluda con un vero e proprio differimento del piacere: la bella cigarette girl lascia un biglietto ad Antonio, promettendo di incontrarlo più tardi.
Il modello di analisi proposto da Mulvey in Visual Pleasure risulta dunque insufficiente per descrivere l’incipit di Capriccio spagnolo. Il piacere visivo dell’ultimo dei film di Sternberg/Dietrich non deriva dal dominio del femminile, ma dall’impossibilità da parte dello spettatore di esercitare il controlling gaze. Come cantava Dietrich in una delle scene censurate del film, «if it isn’t pain, then it isn’t love»: in Capriccio spagnolo, ogni insoddisfazione coincide con la scoperta di un nuovo, doloroso piacere.
NOTE
1. L. Mulvey, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, in Screen, Vol. 16, Issue 3, 1975, pp. 6–18.
2. Ibid.
3. G. Studlar, In the Realm of Pleasure: Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, Chicago, University of Illinois Press, 1988.
4. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. Giuseppe De Col, Milano, SE, 2007.
5. V. Pravadelli, Le donne del cinema: Dive, registe, spettatrici, Lecce, Laterza, 2014, p. 35.
6. Cfr. Il cantico dei cantici [The Song of Songs, Robert Mamoulian, 1933].
7. V. Pravadelli, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie e analisi del film, Lecce, Laterza, 2014.
8. Secondo Deleuze, il masochismo è innanzitutto «formale e drammatico, ossia raggiunge una combinazione di dolore e piacere soltanto attraverso un particolare formalismo, e vive la colpa soltanto attraverso una storia specifica». G. Deleuze, op. cit., p. 120. «L’estetica masochista – scrive Studlar – si estende oltre il puro regno clinico nell’ambito della forma artistica, del linguaggio e della produzione del piacere attraverso un testo». G. Studlar, op. cit., p. 14. Sull’estetica masochista, si veda anche: Id., “Visual Pleasure and the Masochistc Aesthetic”, in Journal of Film and Video, Vol. 37, N. 2, Sexual Difference (Primavera 1985), pp. 5-26; Id., “Masochism and the Perverse Pleasures of the Cinema”, in Quarterly Review of Film Studies, Vol. 9, Issue 4, 1984.
9. Id., In the Realm of Pleasure, cit., p. 15.
10. Su Venere bionda, si veda almeno: L. Jacobs, “The Censorship of ‘Blonde Venus’: Textual Analysis and Historical Method”, in Cinema Journal, Vol. 27, N. 3 (Primavera 1988), pp. 21-31; B. Nichols, “Blonde Venus: Playing with Performance”, in Id., Ideology and the Image, Bloomington, Indiana University Press, 1981, pp. 104-132; V. Pravadelli, La grande Hollywood: Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, pp. 67-71; G. Studlar, In the Realm of Pleasure, cit.
11. Sul cinema di Sternberg prima di Marlene Dietrich, cfr. l’articolo di Vittorio Renzi: https://specchioscuro.it/prima-di-marlene-e-del-sonoro-sternberg-e-il-sistema-hollywood/.
12. Il titolo originale del film è stato scelto da Ernst Lubitsch, all’epoca production manager degli studi Paramount, per ragioni prettamente commerciali. Sostituisce il preferito del regista, Capriccio Espagnol, che fa riferimento alla composizione musicale di Rimsky-Korsakov che occupa quasi per intero il soundtrack del film.
13. P. Louÿs, La donna e il burattino (1898), trad. Martino Conserva, SE, Milano, 2001.
14. Tra gli adattamenti cinematografici del romanzo di Louÿs, vale la pena ricordare il muto Conchita [La Femme et le Pantin, Jacques de Baroncelli, 1929] e Femmina [La Femme et le Pantin, Julien Duvivier, 1959] con Brigitte Bardot.
15. J. von Sternberg, Follie in una lavanderia cinese, Roma, Lithos Editrice, 2009, p. 228.
16. Al contrario di quanto osservato da Mulvey in Visual Pleasure, Studlar ritiene che la configurazione visiva di Dietrich nei film di Sternberg non sia caratterizzata da un «eccesso di femminilità» (Mary Ann Doane, Film and the Masquerade), ma da un «erotismo androgino caricato da un’intensa ambiguità sessuale» (G. Studlar, In the Realm of Pleasure: Von Sternberg, Dietrich and the Masochistic Aesthetic, cit., pp. 48-49). Scrive Julia Lesage: «Dietrich rappresenta per alcune donne una sorta di icona sottoculturale […] Dietrich seduce le donne perché rappresenta una figura lesbica con cui si identificano» (Cit. in S. Bovenschen, “Women and Film”, in New German Critique, N. 13, Inverno 1978, pp. 89-90). In effetti, il cinema dei primi anni Trenta promuoveva il desiderio di emancipazione e autoaffermazione del soggetto femminile. Studi dell’epoca hanno rivelato che il pubblico femminile costituiva, almeno fino al 1934, la maggioranza del pubblico cinematografico, e che l’industria operava in tal senso, investendo maggiormente nei film che attraevano le donne. Per questo, la Dietrich in pantaloni di Marocco [Morocco, 1930], piuttosto che suscitare scandalo, fu protagonista di una campagna pubblicitaria finanziata dagli studios, dall’eloquente frase di lancio: «The Woman Even Women Can Adore». Per approfondire, cfr. V. Pravedelli, La grande Hollywood, cit., pp. 49-77.
17. G. Studlar, In the Realm of Pleasure, cit., pp. 21-22.
18. «La fantasia masochista e` dominata dal piacere orale, dal desiderio di ritornare allo stato di indifferenziazione del corpo della madre da quello del bambino e dalla paura dell’abbandono (lo stato della mancanza di seno, della mancanza di pienezza)». Id., Masochism and the Perverse Pleasures of the Cinema (1984), ristampato in G. Mast, M. Cohen e L. Braudy (a cura di), Film Theory and Criticism, New York, Oxford University Press, 1992, p. 787. Il saggio è stato tradotto in italiano per G. Fanara, F. Giovannelli (a cura di), Eretiche ed erotiche: le donne, le idee, il cinema, Napoli, Liguori Editori, 2004.
19. Ibid.
20. Ibid., p. 116.
21. «Per mezzo dell’identificazione con lui [la star maschile], tramite la partecipazione al suo potere, anche lo spettatore può indirettamente possederla [la donna]». L. Mulvey, op. cit.