Nel nuovo Blonde [id., 2022] del regista Andrew Dominik, biopic dedicato alla vita di Marilyn Monroe, il direttore della fotografia canadese Chayse Irvin (con già all’attivo la cinematografia di BlacKkKlansman [id., Spike Lee, 2018]) mette in scena una sorta di iperfetazione panottica che smargina per ogni dove.
Dalla schizofrenia dei formati: 1:1, 1,37:1, 1,85:1 e 2,39:1; svirgolati senza equilibrio, non per blocchi ma per pure intuizioni dettate dalle episodiche inquadrature, ad uno stile luministico al limite della ‘bruciatura’ ottica nell’uso della sovraesposizione controllata, fino alla mistura – anche qui piuttosto ‘parossistica’ – di B/W, colore e bi-cromia.
Una cinematografia che assomiglia di più a una serie di fotografie, di immagini statiche, nonostante le carte siano spesso mischiate con rapsodiche sfocature, tagli ‘giapponesi’, ‘shaking’ di camere-a-mano, ‘mosso’ emotivo continuo (anche appunto nei frame più frontali, iconici, fissi). Una cinematografia che vuole sottendersi sub specie imitatione all’instabilità, al movimento-da-fermo, alla ‘vibratilità’ interna, volatile della fragilità psichica interiore di Norma Jean-Marilyn Monroe.
L’a-strutturazione del flusso di immagini da parte di Irvin si vuole programmatica, pre-produttivamente pensata all’interno di un approccio caotico, decentrato; quello voluto dal regista Dominik nella scrittura medesima del soggetto.
Blonde è infatti, abbastanza banalmente, un biopic atipico: una romance senza intreccio; che procede come un teatro a stationen piuttosto che mediante il plot narrativo, diciamo, standardizzato del cinema contemporaneo.

Il digitale dissimulato

Irvin, dopo qualche tentennamento se girare il film in pellicola – opta per il digitale; impiegando – per gli shot in bianco-e-nero – la camera Arri Alexa XT monocromatica; ovvero una camera dal cui sensore sono stati rimossi il filtro infrarosso, il filtro passa-basso (optical low-pass filter) nonché il mascherino demosaicizzante Bayer; cosa che consente a ciascun fotosito del sensore stesso di catturare l’intero spettro della luce visibile, aumentando la sensibilità nativa fino a 2000iso. Queste camere speciali risultano essere più nitide e ‘contrastate’, arrivando a ‘stampare’ immagini molto simili a quelle che produce una fotocamera 35mm caricata con pellicola pancromatica. Oltre a ciò, una Alexa monocromatica, al di là della modalità di ripresa nativamente settata in bianco-nero, può acquisire anche immagini all’infrarosso: in tale configurazione il sensore ‘vede’ unicamente la luce riflessa, oltre la lunghezza d’onda spettrale del rosso, non visibile all’occhio umano.
A questo proposito, il set della scena in cui Marilyn viene ‘prelevata’ dalla sua camera da ‘loschi’ figuri, è totalmente buio e viene girata con il sensore dell’Alexa settato appunto all’infrarosso; al fine di ‘straniare’ la percezione in un affastellamento di visibilità e non-visibilità, dal quale la star hollywoodiana è annientata.
Per quanto riguarda invece la sopracitata ‘mimesi’ della pellicola 35mm pancromatica, è interessante sottolineare come l’emulsione fotografica pancromatica (in largo uso fino agli anni ’50 del ’900) sia un’emulsione in cui sono ‘raccolte’ tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile; a differenza di un’emulsione ortocromatica, in cui la lunghezza d’onda del rosso non viene raccolta. La fotografia pancromatica1 permette così di raggiungere risoluzioni spaziali maggiori, meglio anche della risoluzione multispettrale. In Blonde gli shot girati dalla Alexa in modalità monochrome ‘scimmiottano’ il pancromatismo di tutta un’intera estetica (appunto) della fotografia del dopoguerra e aggirano inoltre alcuni diktat editoriali di Netflix2.

Uno shot girato all’infrarosso

Per le parti del film girate a colori, al contrario, Irvin sceglie di utilizzare l’altra camera digitale Sony CineAlta Venice; sottilmente in grado di restituire quella variazione continua di grigi, biancastri, delicate sfumature pastello che riproducono la vulnerabilità del personaggio; colori sempre sul punto di diluirsi, di stemperarsi nell’’acquarellismo’, nello scipito.

Un’evaporazione di flare circonfonde impressionisticamente la figura di Marilyn

In questo frame il colore digitale sembra addirittura sulla soglia del dissolvimento atmosferico

La delicatezza di un piano medio, in cui i colori della natura morta impagliata creano una rima visiva con il personaggio

Se aggiungiamo a tutta quest’alchimia, l’uso di lenti di nuova generazione, come i Panavision PVintage (lenti tuttavia ‘ingegnerizzate’ con uno spiccato mood vintage, come denuncia l’etichetta) o le lenti Petzval: sorta di reinvenzione dell’originale obiettivo da ritratto di Joseph Petzval del XIX secolo (il primo obiettivo da ritratti fotografici della storia della fotografia), possiamo intravedere come nel film si venga realmente a instaurare quell’iperfetazione panottica di cui si dissertava all’inizio di quest’approfondimento; una sorta di ‘dimensionalità’ porosa, globulare; di permeabilità molecolare del ‘fotografico’ – negli intenti -; non solo come sfida delle singole immagini ma come ordinamento sintattico proprio del corpus intero dello sguardo cinematico… granulare, sintagmatico e paradigmatico insieme, fluidificato nella sua aderenza quasi ‘decalco-maniaca’ (mi si passi il calembour) alla fluttuazione psichica della diva.

Una mimesi allucinatoria

Statutariamente in Blonde c’è questo onnipresente velo di abbacinamento (veiling glare) a mezz’altezza nell’inquadratura, che ronza per sinestesia in buona parte del film; correspondance oniroide a declinare, in metafora visiva, lo stesso onnipresente flash dei paparazzi sparato in faccia; la ‘gloria’ e la denuncia dello stardom, delle potenze immaginifiche di Hollywood.

Il velo di abbacinamento che accompagna Marilyn ovunque

Il flash dei paparazzi

A quell’ottenebramento fa eco anche lo spot di luce teatrico che umetta in coni luminiferi l’eterna ‘corporeità’ traslucida di Marilyn; come del resto il gigantesco Minibrute (l’enorme faro di scena) molto spesso in campo, come ennesimo attante, a sottolineare il glam – ad un tempo ‘vetrinistico’ e disperato – della situazione:

L’icona e il suo riflesso allo specchio sono avvolti dallo spot ‘teatrico’ nella stessa membrana di luce-ombra

si tratta insomma di una cinematografia – quella di Irvin -, che si propone mimetica all’allucinatoria sequenza di immagini che Dominik ha prefigurato nel suo trattamento di sceneggiatura, riguardo al ‘mito’ monroniano. Irvin ha dichiarato infatti: “It was like a hallucination happening in a sequence” (‘Era come se l’allucinazione avvenisse in una sequenza’)3. Uno sguardo iperbolico, distorto; naturalista a tratti (di un naturalismo ‘bucato’, docile all’inconografismo dello star system e dei rotocalchi) ed espressionista per altri versi (laddove le ‘svisate’ bipolari della mente di Norma Jean aggrediscono, come in un incubo, la textura visiva).
“An eerie sense of cinematic déjà-vu” (un senso inquietante di déjà-vu cinematico’)4 si allaga nelle riprese: è, come detto, quel certo naturalismo di ritorno, secondo il quale Irvin ha usato le stesse lunghezze focali (almeno le ha ‘collimate’ ad occhio5), in gran parte 50mm, aperte a T1.0 (molte delle quali sono autentiche citazioni delle più note fotografie di Milton Greene di Marilyn), le stesse location, la stessa geometria di composizione delle riproduzioni fotografiche dell’epoca. All’uopo il DOP ha attinto a due fonti principali: il gigantesco diario di foto, ritagli, documenti vari che Dominik pare abbia accumulato in una decade di ricerche sulla vita della diva e le descrizioni del torrenziale romanzo di Joyce Carol Oates, su cui è basato il soggetto stesso di Blonde.

Il paesaggio umano dell’inconscio

Naturalismo ‘screpolato’, espressionismo, poetica mimetica… in realtà è un paesaggio umano di facce quello che trascorre incessantemente sullo schermo; pochi gli shot in campo medio infatti: è tutta di primo-piano, di primissimo-piano oppure di campi lunghissimi, il taglio dell’inquadratura di Irvin; impastata in un B/W che inghiotte le silhouette o, in alternativa, rarefatta in quei colori pastellati che funzionano come lividi, ecchimosi luminose; vignette, iris simulate alla Billy Bitzer, giochi di warping lenticolari…

Tra i rari campi lunghissimi, un B/W ‘smerigliato’ anni ’30, di struggente, fitzgeraldiana mise-en-scène

Giochi di iride simulati

Il warping in camera

Paesaggi umani, enormi cartoneschi diorami che coprono un ideale arco cronologico dagli anni ’30 agli anni ’60. Dai giorni dorati del jazz al toupet kennediano… come in un liquame amniotico, in uno scope intra-intrusivo veicolato dall’inconscio; tanti in effetti sono i riferimenti – sia di Dominik che di Irvin – all’aver covato un film sotto la soglia del cosciente, al di là del ‘percetto’ e del ‘concetto’; un film da dentro la testa di Norma-Jean-Marilyn-Monroe. “A story of a person whose rational picture of the world [is] being overwhelmed by her unconsciousness6.”
Questo paesaggismo dell’inconscio funziona perlopiù alla stregua di un assalto sensoriale: “We created the film with the sentiment of chaos,” avrà modo di dichiarare ancora Irvin7. La congerie di centrifughe e vicissitudini si evince anche dai grandangoli estremi di certi take, dalle camere montate-sul corpo (body cam mounts), da alcuni passaggi algidi, quasi anodini.

Un grandangolo a 2,39:1

Il body camera mount di Joe Di Maggio/Bobby cannavale, durante un litigio con Marilyn

Un campo lungo alla Edward Hopper; freddo, disanimato

Gli artifici di un nuova maniera: dal ‘vedere-dappertutto’ al post-voyeurismo

La realtà, come marea dell’inconsapevolezza, spiove, imbibisce, inuma e germoglia da sé e per sé. “From my perspective it was about creating a flow, so we’re trying not to prescribe. It’s the way I like to work. Sometime cinematography can be like calculus. Blonde was about creating a flow where we replaced conscious thought with a more intuitive one8.”
Il biopic perde qui la sua intrinseca implicazione narrativa per immolarsi alla cattura del momento, con una panoplia di tecnicismi fuori dalla comfort-zone della cinematografia ‘ordinaria’9. Irvin in effetti, quando svisa in questo territorio selvaggio, dal punto di vista ancora più stretto dello sguardo mentale (inconscio) di Norma Jean, va alla deriva affidandosi all’informale, al destrutturato: impiega per esempio artifici ottici come il ‘Cinefade’; un filtro che consiste di due polarizzatori, uno dei quali è fisso e l’altro rotante, in modo da poter cambiare la profondità di campo nel mezzo di un take, senza cambiare l’esposizione10. Oppure ‘storna’ spesso l’omogeneità del lighting e della palette cromatica (principio di omogeneità cromo-luministico che costituisce uno dei dogmi più tetragoni della cinematografia11). Sembra inoltre che pure il workflow della correzione colore e il processo di digitalizzazione intermedia (DIT) del film siano stati stravolti; Irvin riferisce infatti di aver effettuato la gradazione del colore in camera e che il suo colorista di fiducia, Benny Estrada, in post-produzione, ha solo aggiunto halation12 e grana.
Per ciò che concerne inoltre i VFXs e la CGI, Irvin avalla qualcosa qui e là; dalla ‘farfallatura’ della scena dell’incendio nel prologo a poco altro. Ma è verso il finale

Il VFXs del prologo: le pagliuzze dorate che sono state aggiunte come textura, a mimare le scintille dell’incendio, sembrano quasi sbriciolare la superficie dell’immagine

che l’effettistica riprende la sua virulenza; e non è un caso; infatti è esattamente qui che la virtù del fotografico – fino ad allora sontuosa e trattenuta ad un tempo, in punta magistrale di fioretto – cerca una nemesi ‘viziosa’ nella surcodificazione. L’artificiosità ha il sopravvento. Cominciano a enumerarsi e a procedere per accumulo, gli scope ginecologici (già precedentemente disseminati in corrispondenza delle varie gravidanze-aborti di Marilyn) – esterni e interni – dell’isterismo (letteralmente greve) della star – ancora e ancora inchiodata al letto, al talamo come alla gogna -. Abbondano le camere-a-mano. Il montaggio accelera e il manierismo straborda… finisce per ingolfarsi; ma è un gesto di tremolante eleganza. L’ingerenza voyeuristica monta infatti sempre di più, col suo climax tragico, specificamente nell’epilogo del film; forse un quid stilato a fianco del voyeurismo stesso: l’agiografia di un visivo che si deposita sul corporeo…
Il corpo di Marilyn per l’appunto si auto-percepisce – propriocezione come martirio, vocazione sororale all’iper-visibilità da dentro, da fuori, da lato – e si danna, si condanna, si concede, cade, si attraversa.

Uno shot dove si sommano la presenza in campo del proiettore MiniBrute e la ‘violenza’ ‘ginecologica’ del voyeurismo

Diversi sono gli interventi di CGI che ritraggono le varie gravidanze e gli aborti di Norma-Marilyn, nei take più azzardati (e forse più squisitamente manieristi e discutibili) del film

È allora, in qualche misura, un ‘vedere’-’dappertutto’, quello che Irvin introduce alla fine di Blonde, al servizio, crediamo, della mano pantocratrice di Dominik; una ‘super-visività’ che tuttavia non sancisce il pompier della totalità-in-vista, piuttosto ne va rastremando la tessitura interna: dalle maglie sottili di questa rete visiva si sdruciscono appunto ‘artifici’, distorsioni lenticolari, sfrondature di movimenti-di-macchina incerti, quasi insicuri, lembi di panneggio, cartilagini liofilizzate di luce, vetrini, linfe reflue; a smarginare, a scomporre, a scorticare con insaziabile ma tenera delicatezza perversa lo statuto medesimo del voyeurismo. Si vede, si stra-vede ma in fondo la ‘pasta’ ottica è sindone corporea.
La morte della Monroe, alla fine del film, è un glissare della mdp nella stanza; si scivola come in una cinetosi… fioriscono solo dettagli funerei, metonimie non-totalizzabili, velami di soft-focus… Il corpo della diva; il corpo del cinema, il corpo dell’immagine. Da dove entra ed esce tutto ma che infine si parcellizza, diviene sineddoche, si rabbuia, si sfrolla. Una dichiarazione sottile eppure di feroce durezza quella di Irvin in Blonde; uno statement di cinematografia di mirifica raffinatezza e di attualità implacabile.

Il soft-focus abbacinato e metonimico del finale, che andrà in chiusura d’iride verso il buio.

NOTE

1. Sulla fotografia pancromatica si vedano: https://it.wikipedia.org/wiki/Pancromatico, https://en.wikipedia.org/wiki/Panchromatic_film, https://eos.com/make-an-analysis/panchromatic/

2. Si veda a tale proposito l’intervista rilasciata da Irvin a FilmmakerMagazine, dove il DOP canadese racconta dell’equazione proposta a Netflix che dimostra la piena ottemperanza di Blonde all’imposizione del 4K: una dimostrazione ‘bizantina’; forse non scevra di una certa vis polemica. Chayse Irvin on Shooting Blonde in Digital Black and White and God’s Creatures in 35mm Color

https://filmmakermagazine.com/116744-interview-cinematographer-chayse-irvin-blonde-gods-c reatures/ “There were a lot of questions early on, because Netflix has a rule [about shooting in] 4K and the black and white Alexa camera that we were shooting with [the Alexa XT B+W] was not 4K natively. So, they wanted to know exactly the percentage that was going to be black and white because they allow a certain percentage [to be less than 4K]. Later in the preparation of the film, I explained to them something technical about how the black and white Alexa has no Bayer pattern filter. It just captures luminance, whereas all digital cameras that are not monochrome have a Bayer pattern. It basically uses a filter to diffract the light into a pattern of red, green and blue, then it blends those together to make an image. But say you’re composing an individual’s face—well, their face is primarily made up of red. If you’re capturing mostly red, there’s only 1K of red in the Bayer pattern. So, I said to the Netflix, “If you use that equation, the way you need to think about the black and white camera is that the Alexa monochrome is the highest resolution [black and white] camera in existence right now, because it’s just capturing all that red, green, and blue information at the highest resolution it can capture it, because it’s not using the Bayer pattern.” They agreed, and after that we were free on the set to do whatever we liked”.

3. Irvin in Created in Chaos: The Cinematography of ‘Blonde’ https://www.indiewire.com/2022/09/blonde-cinematography-netflix-marilyn-monroe-1234766933/

4. Ibidem.

5. “I was using the same focal lengths – I didn’t know exactly, but I was guessing what they could be – and we were shooting in a lot of the real locations where those images were taken” – Usavo le stesse lunghezze focali – non lo sapevo esattamente, ma stavo presumendo quali potessero essere – e stavamo girando in molti dei luoghi reali in cui sono state scattate quelle immagini”. Irvin da Behind the Scenes – Blonde – by Adrian Pennington https://www.ibc.org/features/behind-the-scenes-blonde/9185.article

6. “La storia di una persona la cui immagine razionale del mondo [è] sopraffatta dal suo incoscio” – Chayse Irvin on Shooting Blonde in Digital Black and White and God’s Creatures in 35mm Color https://filmmakermagazine.com/116744-interview-cinematographer-chayse-irvin-blonde-gods-creature s/

7 .“Abbiamo creato il film con un sentimento di caos” – Created in Chaos: The Cinematography of ‘Blonde’

https://www.indiewire.com/2022/09/blonde-cinematography-netflix-marilyn-monroe-123476 6933/

8. “Dal mio punto di vista si trattava di creare un flusso, quindi stavamo cercando di non pre-ordinare. È il modo in cui mi piace lavorare. A volte la cinematografia può essere come il calcolo. Blonde riguardava la creazione di un flusso in cui abbiamo sostituito il pensiero cosciente con uno più intuitivo” – Created in Chaos: The Cinematography of ‘Blonde’

https://www.indiewire.com/2022/09/blonde-cinematography-netflix-marilyn-monroe-1234766933/

9. “It was tricky on Blonde because I do this thing I call woodshedding. It’s a jazz term where you isolate yourself and come up with harmonic devices that take you out of the ordinary and keep them in your pockets so you can pull them out during a set”. ““È stato difficile con Blonde perché faccio questa cosa che chiamo ‘woodshedding’. È un termine del jazz in cui ti isoli e crei dispositivi armonici che ti portano fuori dall’ordinario e li tieni in tasca in modo da poterli tirare fuori durante un set”. – Irvin nell’intervista rilasciata a FilmmakerMagazine; Chayse Irvin on Shooting Blonde in Digital Black and White and God’s Creatures in 35mm Color

https://filmmakermagazine.com/116744-interview-cinematographer-chayse-irvin-blonde-gods-creature s/

11. “An identity for a film based off a consistent use of lighting or palette. We were basically throwing all those rules out the windows”. – “L’identità di un film è basata su un uso omogeneo dell’illuminazione o della tavolozza cromatica. Fondamentalmente stavamo buttando tutte quelle regole dalla finestra” – Irvin in Chayse Irvin on Shooting Blonde in Digital Black and White and God’s Creatures in 35mm Color. https://filmmakermagazine.com/116744-interview-cinematographer-chayse-irvin-blonde-gods-creature s/

12. Per halation s’intende la diffusione della luce oltre i suoi confini appropriati a formare un alone attorno ai bordi delle alte luci dell’immagine. Caratteristica peculiare dell’emulsione di celluloide a tre strati.

RIFERIMENTI

Created in Chaos: The Cinematography of ‘Blonde’ https://www.indiewire.com/2022/09/blonde-cinematography-netflix-marilyn-monroe-123476 6933/

Behind the Scenes – Blonde – by Adrian Pennington https://www.ibc.org/features/behind-the-scenes-blonde/9185.article

Chayse Irvin on Shooting Blonde in Digital Black and White and God’s Creatures in 35mm Color https://filmmakermagazine.com/116744-interview-cinematographer-chayse-irvin-blonde-gods- creatures/

L’AUTORE

Scrittore, giornalista, artista visivo, musicista, filmmaker, Riccardo Vaia fonda e/o collabora negli anni a numerosi progetti: Marat, sadoMarta, Ludione della Lampada Productions (http://www.ludioneproductions.it/) con Cristina Pizzamiglio e Andrea Piazza. Ha all’attivo anche mostre, scritti, libri e saggi vari, apparsi in svariate pubblicazioni. Dal 2013 lavora soprattutto nel campo del cinema digitale (https://vimeo.com/user36732166).