I’m not interested in reality, I’m interested in the images.

– Andrew Dominik1

Tratto dal fluviale romanzo omonimo di Joyce Carol Oates, Blonde [id., 2022] di Andrew Dominik esce (direttamente su Netflix, a poca distanza dalla presentazione alla 79a mostra del cinema di Venezia2) subito dopo Elvis [id., Baz Luhrmann, 2022]: due film su icone che hanno rivoluzionario l’immaginario divistico proprio nel cuore dell’America puritana degli anni ‘50, una donna e un uomo la cui «bellezza andava di pari passo con un’inedita sensualità»3, tant’è che il film di Luhrmann funziona soprattutto quando racconta la carica pulsionale di Elvis, una libido imbrigliata nelle maglie di un Paese diviso tra crescita economica e segregazione razziale. Eppure, è con un altro film che ha per protagonista la rockstar di Memphis che Blonde intrattiene paradossalmente un rapporto più stretto: si tratta dell’oramai quasi misconosciuto Bubba Ho-tep – Il re è qui [Bubba Ho-Tep, Don Coscarelli, 2002], adattamento di un folgorante racconto lungo di Joe R. Lansdale e geniale «trattato sul divismo in America e la fama che ne consuma i miti»4. Come Lansdale e Coscarelli, infatti, anche Oates e Dominik adottano una «struttura cronologica fiabesca» sfumata da «un continuo oscillare tra ricostruzione e allucinazione»5 e dalla «coesistenza inestricabile del reale e del fantastico»6alla cui conclusione il/la divo/a – e la sua immagine – finiscono inevitabilmente per ottenere una paradossale catarsi attraverso il sacrificio7.

Bubba Ho-tep – Il re è qui: l’immagine del divo

Sia l’Elvis di Bubba Ho-tep (magnificamente interpretato da Bruce Campbell) che la Marilyn di Blonde (altrettanto magnificamente interpretata da Ana de Armas) sono raccontati come protagonisti (non necessariamente vittime) di quel processo di «vetrinizzazione» – secondo la definizione di Vanni Codeluppi – che, iniziato in pieno Settecento proprio con l’esposizione della merce nelle vetrine di negozi e botteghe, ha «profondamente modificato anche il rapporto che gli individui instaurano con la loro immagine personale»8. Contingenza che ha inevitabilmente coinvolto anche il fenomeno del divismo di massa attraverso la creazione di uno star system composto da persone che si muovono in uno «spazio di sogno»9, uomini e donne la cui natura ibrida, secondo Edgar Morin, «li caratterizza per la loro capacità di congiungere in un unico corpo un attore e un personaggio e perciò di possedere un’affascinante aura mitica grazie al loro essere contemporaneamente reali e immaginari»10.


Così, se l’Elvis di Lansdale/Coscarelli ha disgiunto la sua anima in due corpi (il suo e quello del sosia Sebastian Haff), la Marilyn di Oates/Dominik ha in qualche misura duplicato la propria identità all’interno di un unico corpo in cui convivono la timida, insicura, problematica Norma Jean Baker (nome di battesimo)11 amante di Čechov e Dostoevskij e la florida, esuberante, inafferrabile Marilyn Monroe (nome d’arte:«è così finto, mi piace», le dice Cass Chaplin). Non solo: la Marilyn di Blonde si pone anche come vertice di un triangolo costituito dall’immagine dimidiata di sé, la percezione dello spettatore (che di questa figura occupa il vertice alto) e l’immagine di Marilyn successiva alla sua morte, divenuta «riproduzione fotografica, seriale, concepita col preciso intento di raggelare ogni barlume di sensualità»12. Non è un caso che per raccontare l’Io frammentato della protagonista e contemporaneamente lumeggiare l’immagine frastagliata dell’icona-Marilyn, la scrittrice abbia adottato una prosa che alterna caratteri della tradizione del romanzo psicologico e realista a improvvise irruzioni della voce «postuma» della protagonista, proveniente da un limbo non definito che ingloba la narrazione nei territori del fantastico trasformandola – come nel capolavoro dell’autrice, Il maledetto – in una fiaba gotica. In questo modo, «la biografia della star, così come reinventata da Oates “in a very obsessive way”, diventa quindi un viaggio agli inferi che si consuma all’insegna della disillusione e della demistificazione, non tanto di Marilyn quanto del processo di cui è stata oggetto per diventare una star. E quindi la vita e soprattutto la morte della diva diventano esemplari di quel meccanismo di seduzione esercitato dal cinema e dai divi sul proprio pubblico, di cui si sollecitano le pulsioni ossessive e compensative tipiche del fandom»13.


Quanto più aderisce alla biografia della star (e ai testi degli autori che l’hanno ricostruita: Gloria Steinem, Norman Mailer o Anthony Summers), quanto più si arricchisce di dettagli ed episodi apparentemente minimi (che il pur generoso minutaggio del film non può che riprodurre in minima parte14), tanto più il romanzo prende le distanze dalla controparte reale della sua protagonista per trasformarla in una maschera, un personaggio in cerca d’autore. La Marilyn letteraria non solo si costruisce in relazione alle immagini che lei stessa osserva sullo schermo – «Al cinema non esiste mai una sequenza cronologica ineluttabile, poiché tutto è al presente. Si può andare indietro nel tempo così come avanti. Ci sono scene che vengono tagliate, ci sono scene che vengono rimosse. Scene che immortalano quello che la memoria da sola non potrebbe preservare»15 – ma diventa a sua volta pura immagine, in certa misura altro-da-sé, «una leggera distorsione, come in quegli specchi da casa-degli-specchi dove l’immagine è quasi normale e perciò ci si fida e invece non si dovrebbe»16.

Il confronto fra Norma Jean e l’immagine di Marilyn diventa confronto tra l’interprete e l’immagine del personaggio interpretato.

L’operazione che Dominik compie sul testo – al netto di ogni giudizio di valore (il film può legittimamente essere rigettato in toto) e di necessità semplificatorie – è in fondo mimetica. Per raccontare il rapporto agonistico tra le varie proiezioni identitarie e immaginarie di Norma Jean/Marilyn, ricorre infatti a un linguaggio fondato su distorsioni percettive (a partire dalla scelta del formato: l’aspect ratio originale è 1.37 : 1, anche se nel corso del film si restringe o allarga) e polarità oppositive: in particolare, l’alternanza tra un bianconero che sembra riprodurre l’estetica pubblicitaria dei rotocalchi glamour e la loro «seduzione visiva, ambiguamente trasgressiva»17 – ovvero l’ennesima distorsione, riproduzione di un’immagine di cui è impossibile risalire al suo originale – e un colore che veleggia a metà tra accensioni espressioniste (come l’incendio iniziale che trasforma Los Angeles in una «città di sabbia») e il sogno forse impossibile di un impressionismo digitale (come accade per l’idillio tra Marilyn e l’Arthur Miller18 interpretato da Adrien Brody).

Due esempi dell’estetica dell’estetica da rotocalco glamour

L’incendio di Los Angeles nel 1933, destinato a lasciare un segno indelebile nella mente di Norma Jean/Marilyn

Distorsioni

Nella stessa scena, nello spazio virtuale di uno stacco di montaggio, non solo il passaggio da una fotografia espressionista a una di taglio naturalistico ma anche un cambio di formato.

Non solo: l’immagine di Marilyn si sfrangia ulteriormente tra ricostruzioni di scene dei suoi film più famosi, dove la figura di Ana de Armas (la cui interpretazione corteggia il mimetismo prossemico-vocale non per generare l’ennesima copia dell’originale ma per prenderne paradossalmente le distanze creando l’ennesima maschera) si sostituisce a quella della reale Marilyn, re-invenzioni dei più celebri dietro le quinte (tra cui, ovviamente, le riprese della gonna sollevata dal vento della sotterranea in Quando la moglie è in vacanza [The Seven Year Itch, Billy Wilder, 1955]), citazioni delle più note fotografie della diva (gli scatti di Milton Greene) che però vengono risemantizzate perché «la costruzione visiva del film è modellata sulla memoria collettiva»19.

Marilyn/Ana de Armas in Niagara [id., Henry Hathaway, 1953]

Marilyn/Ana de Armas in Gli uomini preferiscono le bionde [Gentlemen Prefer Blondes, Howard Hawks, 1953]

La celebre scena della sotterranea in Quando la moglie è in vacanza.

Questi procedimenti retorico-formali aderiscono tutti quanti a un’unica idea di fondo: quella di trasformare l’intero racconto del film nello spazio mentale di Norma Jean/Marilyn. La prospettiva della narrazione – ancora una volta rispettando le intuizioni di Joyce Carol Oates – è quindi da una parte quella semi-soggettiva («è un film sull’inconscio»20, ha di fatto dichiarato – un po’ banalizzando l’assunto – il regista) di un personaggio affetto da turbe psichiche (le pulsioni suicide, la paura dell’ereditarietà delle tare che affliggono la madre)21, dall’altro quella – ancora una volta – del fantasma che vede la propria vita passare come proiettata su enorme schermo cinematografico (prospettiva ironicamente sottolineata dalla scena della fellatio al Presidente Kennedy, proiettata su un maxi-schermo di fronte a una platea anonima). Momenti significativi (l’abbandono da parte della madre, l’orfanotrofio, la breve carriera da pin-up, le lezioni di recitazione, l’assunzione al firmamento hollywoodiano, il matrimonio con Arthur Miller, la morte) e personaggi (Darryl F. Zanuck, Joe DiMaggio, i figli di Charlie Chaplin ed Edward G. Robinson con cui vive un peculiare menage à trois) si succedono senza alcuna precisa soluzione di continuità, mentre l’unico vero collante del racconto è dato – e non potrebbe essere altrimenti – dal desiderio di colmare il vuoto di un’immagine perduta, ovvero quella del padre, di cui Marilyn conserva solo il ricordo di una fotografia mostratale dalla madre.


Blonde
, di fatto, non è una biografia, se non nei termini descritti dalla stessa Oates, ovvero costituendosi come racconto di «una “vita” radicalmente distillata in forma di romanzo e ricostruita con l’ausilio della sineddoche»22. Piuttosto, è una sorta di happening metafisico, un kammerspiel funebre e onirico più vicino a Carnevale di anime [Carnival of Souls, Herk Harvey, 1962] che alla lunga filza di biopic – spesso di produzione televisiva – dedicati alla protagonista di A qualcuno piace caldo [Some Like It Hot, Billy Wilder, 1959], compresa la miniserie Blonde [id., Joyce Chopra, 2001] che adattava per la prima volta il romanzo. Qui a contare non sono le superficiali notazioni psicoanalitiche (a partire dalla morbosa inflessione con cui la protagonista si rivolge ai suoi amanti chiamandoli «daddy») – lo stesso Dominik ha dichiarato di essere stato sedotto da suggestioni freudiane e lacaniane23 – quanto lo sfalsamento continuo prodotto sulla superficie dell’immagine che porta esperienze, sogni, visioni a scambiarsi di piano, il reale a coincidere col fantastico, il mondo con la sua rappresentazione, il dato psichico con quello fenomenico. Tant’è che la nitidezza del panfocus e del campo totale presente nella prima parte stinge nell’indeterminatezza dell’out of focus, del dettaglio e del particolare che governa l’ultimo quarto del film. Quest’ultima non semplicemente riproduzione mimetica di una degenerazione percettiva e cognitiva (quella di una mente ormai annebbiata dagli stupefacenti), quanto presa di coscienza dell’impossibilità per il cinema di penetrare lo spazio interiore dei suoi personaggi e quindi della necessità di trovare una distanza di sguardo; distanza che a sua volta diventa una forma di rispetto per la materia.

Il finale del film è contrassegnato dal ricorso al fuori fuoco e al particolare

Perché in fondo il film – così come il romanzo – è anzitutto un enorme atto d’amore per Norma Jean/Marilyn. Sbaglia chi vi legge solamente una prosecuzione del discorso che Dominik ha da sempre portato avanti sulla decostruzione del mito (e che trova ne L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford [The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, 2007] il suo momento più significativo): il mito di Marilyn esiste qui solamente nella misura in cui viene profanato, ovvero nell’istante in cui l’immagine testimonia la sua impossibilità di replicarlo (come detto, esistono solamente copie di Marilyn, infiniti cloni a cui Ana de Armas presta a propria volta il suo corpo e la sua immagine). In questo, in Blonde Dominik, si parva licet, sembra avvicinarsi più ad alcuni lavori di Matthew Barney, dove il recupero di «certi motivi Pop, cari al consumo popolare»24 si trasforma in un vero e proprio processo di riscrittura del modello. La Marilyn di Blonde non è la Marilyn di Warhol o di de Kooning, di Bruce Conner o di Debord, di Milton Greene o di Wegee. È piuttosto una nuova costellazione immaginaria la cui irrequieta multiformità rimanda a un’epoca in cui l’immagine di sé e del mondo è sempre più inafferrabile proprio perché continuamente moltiplicata, reduplicata, vista: «l’epoca dei frammenti ottici e delle protesi ottiche de Sé»25 dove per consolidare e rafforzare la propria identità e la percezione di sé bisogna «renderli visibili»26 e tutto è riassumibile nella formula «sono visto dunque sono»27.

NOTE

1. C. Newland, “I’m not interested in reality, I’m interested in the images: Andrew Dominik on Blonde, www. bfi.org: https://www.bfi.org.uk/sight-and-sound/interviews/im-not-interested-reality-im-interested-images-andrew-dominik-blonde?fbclid=IwAR24XF7PtLxCoUsI17sEtdDu9GC4XzzGcoj3FupiXyc71t13ZiI-AR32UwM

2. Vedi lo speciale dedicato alla manifestazione su queste pagine: https://specchioscuro.it/venezia-2022/

3. M. Pierini, Lettera d’amore alle star: qualche nota su Joyce Carol Oates, Marilyn Monroe e Marlon Brando, in Sinestesie. Rivista di studi sulle letterature e le arti europee, Anno XX, 2020, Numero speciale, p. 170

4. D. Denta, Conversazione privata

5. M. Pierini, Ibidem, p. 172

6. Secondo Luca Briasco, uno dei temi-chiave della produzione di Joyce Carol Oates. La citazione è tratta da L. Briasco, Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, Minimum Fax, Roma, p. 212

7. Blonde’s central irony is that this celebrity is just one more member of the audience, a devotee of a contemporary religion, who finds herself the latest goddess to be sacrificed

in G. Cologne-Brookes, Dark Eyes on America: The Novels of Joyce Carol Oates, Louisiana University Press, Baton Rouge LA, 2005, pp. 215-20 ora in M. Pierini, Op. cit., p. 174

8. V. Codeluppi, Vetrinizzazione. Individui e società in scena, Bollati Boringheri, Torino, 2021, p. 19

9. Ibidem, p. 11

10. Ivi, pp.24-25

11. Secondo Anthony Summers, uno dei biografi di Marilyn – il cui nome completo, all’anagrafe, è Norma Jean Mortensen Baker –, il vero padre di Marilyn era un non meglio identificato signor Mortensen mentre il signor Baker fu un altro degli uomini frequentati dalla madre di Norma, Gladys.

12. T. Pincio, About a Painting: della Marilyn di Willelm de Kooning, in G. Carluccio e M. Pierini (a cura di) Miti d’oggi. L’immagine di Marilyn in La valle dell’Eden. Semestrale di cinema e audiovisivi, nn.28-29, Università degli Studi di Torino

13. M. Pierini, Op. cit., p. 174

14. Viene ad esempio sacrificato il primo marito di Norma/Marilyn, Jim Dougherty, rinominato nel romanzo Bucky Glazer.

15. J. C. Oates, Blonde, Bompiani, Milani, 2000, p. 173

16. Ibidem, p. 122

17. E. Morreale, Marilyn: un capitolo di storia del glamour, in G. Carluccio e M. Pierini (a cura di), Op. cit.

18. In realtà, il personaggio, al pari di Joe DiMaggio (Bobby Cannavale) nel libro come nel film rimane innominato.

19. Lo dichiara lo stesso Dominik nell’intervista citata nella nota 1

20. cfr. nota 1

21. Si tratta di un argomento già affrontato in questa sede. Vedi A. Libera, L’uno e l’altro: Blonde di Andrew Dominik e Trenque Lauquen di Laura Citarella, Lo Specchio Scuro – Rivista di cinema e altre arti audiovisive, 10 settembre 2022: https://specchioscuro.it/luno-e-laltro-blonde-di-andrew-dominik-e-trenque-lauquen-di-laura-citarella/

22. J.C. Oates, Op. cit., p. 7

23. cfr. nota 1

24. R. Barilli, Tutto sul postmoderno, Guaraldi, Rimini, 2013

25. G. Stanghellini, Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano, 2019, p. 122

26. Ibidem, p. 119

27. Ivi