Così l’ottenebrato non sapeva più, non voleva più altro che inseguire all’infinito l’oggetto del suo ardore, sognare di lui quando era assente, rivolgere com’è uso degli amanti, parole dolci al fantasma che recava con sé.
Thomas Mann, La morte a Venezia1
Nel dodicesimo canto dell’Orlando Furioso, Ruggiero e Orlando giungono in un misterioso castello costruito come un bizzarro labirinto dalla geometria non euclidea. Rincorrono entrambi la propria amata (Bradamante per il primo, Angelica per il secondo) ma non sanno che queste ultime altro non sono che una proiezione illusoria. Un’immagine evanescente e aerea: la proiezione fantasmatica di un desiderio tutto mentale. Creato da un incantesimo del mago Atlante, questo castello è l’estroflessione spaziale di un sogno, la sua architettura ha la consistenza immateriale di un’allucinazione. L’oggetto del desiderio rimane sempre inafferrabile.
«Il desiderio è una corsa verso il nulla.», commenta a tal proposito Italo Calvino2.
Il desiderio è una corsa verso il nulla
A conferirgli quella sua aria da adolescente era la languida espressione del suo viso liscio, quasi femmineo nella sua purezza, anche se i rigori della vita di mare avevano rubato il colore del giglio e quella della rosa dalle sue guance rendendo loro in cambio un colorito abbronzato, come la tinta della pelle conciata.
Descrizione del marinaio Billy Budd in Billy Budd, marinaio di Herman Melville
Scrive Camille Dumoulié:«[…]all’orizzonte di tutti gli oggetti del desiderio c’è un oggetto perduto, la cui perdita, o mancanza, è tuttavia innalzata al rango di categoria o idea regolatrice del desiderio.»3
L’etimologia stessa ricollega il termine «desiderio» ad un’ideale mancanza: il latino desiderium è infatti un composto della particella de e del sostantivo sidus («stella») e significa, semplificando, «assenza di stelle». La cultura greca – ripresa in un secondo momento dalla riflessione psicanalitca – collegava questa particolare affezione ad un sentimento di nostalgia nei confronti del passato, destinato a rimanere inafferrabile proprio perché non più presente.
Beau travail [id., 1999] di Claire Denis è un film di brame inappagate, di desideri inconfessati, di aneliti repressi.
Lo spunto della sceneggiatura (scritta con l’abituale collaboratore Jean-Pol Fargeau) è il romanzo postumo di Herman Melville Billy Mudd, marinaio, ma del racconto biblico-omerico-shakespereano del grande narratore americano rimane quasi solo il canovaccio. La regista adotta il punto di vista dell’«antagonista» Claggart (Galoup, nel film), ripudia – com’è suo uso – ogni notazione psicologica («La psicologia del personaggio mi fa orrore»4) e lascia emergere la tensione omoerotica mantenendo inalterata la problematica (pessimistica?) riflessione sulla non integrabilità di un ideale stato di natura all’interno della società civile e delle istituzioni che la rappresentano. Il testo di Melville viene contaminato con una serie di referenze letterarie che vanno da La morte a Venezia di Thomas Mann5 e dagli scritti di Jean Genet al flusso di coscienza joyciano fino alla Sylvie di Nerval, altro racconto di desideri e ricordi narrato – riprendendo quanto scritto da Umberto Eco – come se fosse un gigantesco e proustiano effetto-nebbia.
Ambientato parzialmente in un lembo di terra del Golfo di Gibuti, molto simile ad una Waste Land di eliotiana memoria, e, parzialmente, in una povera abitazione di Marsiglia, il film alterna due dimensioni temporali, delle quali il presente rappresenta la cornice e il passato invece è predisposto secondo una successione di eventi che rimandano alla struttura tragica (dove – come acutamente ha notato Joanthan Rosenbaum6 – i personaggi femminili assolvono ai compiti del coro). Due funzioni destinate ad intrecciarsi inesorabilmente nell’epilogo.
Presente (Cornice)
Di stanza nella città portuale, l’ex-sergente istruttore Galoup – cui Denis Lavant dona il proprio corpo ferino e il proprio volto deturpato – è impegnato nella stesura delle sue memorie, concentrandosi in particolare sugli eventi che ne hanno comportato l’espulsione dalla Legione Straniera.
Passato (Tragedia)
Il film si apre con alcune immagini di pittura su roccia che sembrano collocare il film nella dimensione di un set teatrale.
Addestratore di reclute in un avamposto semidesertico del Nordafrica, perennemente baciato dal sole battente, Galoup nutre un’ammirazione incondizionata per il proprio comandante, Bruno Forestier (interpretato da Michel Subor)7. L’arrivo della nuova recluta Gilles Sentain (Grégoire Colin, uno degli attori-feticcio della regista), l’ammirazione che questi suscita in Forestier e l’invidia per la sua bellezza, il suo vigore giovanile e la considerazione che ispira tra i commilitoni provocano un sentimento misto di gelosia e frustrazione in Galoup. Così, quando Sentain accorrerà in soccorso di un compagno ingiustamente punito dal sergente, quest’ultimo non esiterà a punirlo condannandolo ad orientarsi senza bussola nel territorio desertico composto dalle concrezione saline prodotte dal Lago di Assal. Scoperto, Galoup viene ripreso duramente da Forestier ed espulso dalla Legione.
Raccolto dagli autoctoni in punto di morte per ipotermia, Sentain probabilmente sopravviverà ma non è dato conoscere con precisione il suo destino. Inevitabile sottolineare come il miliziano venga nutrito da una giovane donna africana: per la prima volta, una figura femminile da spettatrice diventa attante.
Epilogo
Una volta completato il memoriale, Galoup è oramai tutt’uno con i propri ricordi. Dopo essersi puntato una pistola alla tempia, lo vediamo ballare tra le pareti di specchi della discoteca che, un tempo, aveva frequentato insieme ai suoi allievi.
La dimensione tragica è ulteriormente scomponibile in altrettanti segmenti che rimandano addizionalmente alla scansione drammaturgica della tragedia classica (in questo senso, gli esercizi all’aperto dei soldati e i momenti di vita cameratesca rappresenterebbero gli stasimi), ma proprio qui sorge un’ulteriore problematizzazione. Contrariamente a Melville, più che esporre il resoconto asciutto e cronachistico dei fatti, Beau travail disegna invece il paesaggio mentale del suo protagonista, finendo per ammantare ogni inquadratura della patina atemporale («Ora devo far passare il tempo» è la prima frase che pronuncia Galoup in voice over) e soggettiva del ricordo. Quello che Galoup cerca di fare è, invero, rincorrere e afferrare proprio l’immagine dei suoi ricordi. Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad una mancanza e ad una perdita; ovvero, quanto, come ha ben messo in evidenza la rilettura lacaniana di Freud, è origine del desiderio stesso.
Più che sulla dialettica presente/passato, in definitiva, Beau travail è perciò un film fondato sulla dialettica presenza/assenza.
Uno “stasimo”
Dal suo appartamento marsigliese, Galoup compila le memorie rievocate poi nel film.
Il desiderio, tormentoso e angosciante, di Galoup è rivolto però verso tanti oggetti potenziali, è forza inesorabile che lo lega a Forestier, a Sentain (il campo/controcampo a bordo del natante che conduce i soldati al campo è inequivocabile), alla compagna (prostituta?) Rahel, ma non si incanala verso alcun oggetto preciso. Questo perché il suo desiderio è anzitutto condizione esistenziale, stato d’animo perpetuo e inalienabile, causa prima dell’agire che trascende il singolo oggetto: «le passioni e i desideri del corpo ci esiliano fuori dall’umana misura e dall’ordine sociale.» «In fondo – scrive sempre Dumoulié – l’intera filosofia ha detto una cosa: il desiderio è l’esilio. […] il vero desiderio ci riporta a ciò da cui siamo stati esiliati, il mondo delle Idee, Dio, l’Uno, e ci spinge quindi ad esiliarci dal mondo per ritrovare il non-luogo di quel «vero» luogo».8
La prima scena in cui Galoup e Sentain appaiono insieme. Un campo/controcampo in cui emergono sentimenti contraddittori di sfida, tensione e desiderio.
Inquadrato in questo contesto, il presumibile suicido finale assumerebbe perciò ulteriore rilevanza e la nuova dimensione (o, meglio, la non-dimensione) lumeggiata dalla scena conclusiva si costituirebbe come traguardo inevitabile di una ricerca tutta interiore (non bisogna dimenticare che le ampie vetrate del set diventano trasfigurazione di un luogo dove potersi finalmente vedere).
Non è impossibile, da questo punto di vista, pensare a Beau travail come ad un fratello in spirito di Teorema [1968] di Pier Paolo Pasolini, depurato di ogni sovrastruttura ideologica, religiosa e metafisica. Anche nell’opera di Pasolini («il film aveva un unico soggetto: il desiderio»9), la trasformazione dei personaggi in soggetti desideranti li conduceva lungo i binari dell’esilio, della fuga, dell’approdo in un luogo inevitabilmente deserto.
Stranieri in terra straniera
La tua risposta porta il marchio di una cineasta capace di interpretare e, allo stesso tempo, stabilire una certa distanza, adottando il punto di vista di un soggetto responsabile dell’organizzazione dell’intero film che però trova, ponendosi a distanza, una specie di tranquillità.
Jean-Luc Nancy, intervista a Claire Denis 10
L’Africa dei film di Claire Denis è più simile a quella raccontata nei primi film di Ousmane Sembene (in particolare La nera di… [La noire de…, 1966] e il cortometraggio Il carrettiere [Borom Sarret, 1969]) e Abderrahmane Sissako (Le chameau et les bâtons flottants [id., 1996]) che a quella descritta nelle opere di altri registi autoctoni, distante com’è dal velato misticismo etnografico e dal paganesimo rituale di Souleymane Cissé o dall’oculata frammistione di tradizioni popolari, impegno politico ed eredità letterarie di Haile Gerima. È anzitutto un locus animae, uno spazio inafferrabile dove si traduce il tentativo di una ricerca e interrogazione identitaria. Come nota Cornelia Ruhe, film come Chocolat [id., 1988] e White Material [id., 2009] «sfidano la problematica equazione che lega colonizzatori e colonizzati e passano al microscopio la dicotomica e in qualche modo semplicistica rappresentazione del mondo coloniale e post-coloniale»11 e raccontano invece di «identità scisse e apolidi come risultanti del colonialismo».12 In fondo, si tratta di un approccio inevitabile per la regista, nativa di Parigi che ha trascorso i suoi primi tredici anni tra Camerun, Somalia, Burkina Faso e lo stesso Gibuti. Il suo non può che essere uno sguardo periferico ed esplorativo, introflesso, rivolto ad un processo di maturazione autocosciente. Non stupisce, quindi, come Claire Denis faccia sovente ritorno all’Africa della sua infanzia e prima maturazione quando si tratta di trovare la legittimazione estetica di un punto di vista interiore.
Assai indicativamente il territorio viene presentato come visto attraverso uno schermo e filtrato da un punto di vista.
Lo stesso processo investe anche la genesi di Beau travail. Contattata dal canale televisivo francese ARTE per realizzare un film incentrato sul tema della «difficoltà di essere stranieri», Denis immediatamente pensa ad un’opera i cui personaggi siano membri della Legione Straniera, un corpo militare costituito da volontari provenienti da diverse parti del mondo e distaccati in reggimenti situati sia in patria che oltremare. Come racconta la stessa regista (vedi nota 11), a chiunque venga reclutato nella Légion étrangère è concessa la possibilità di veder azzerato il proprio passato. «Gli ufficiali della Legione Straniera non hanno altra patria che non sia la Legione Straniera.» (vedi nota 7)
I personaggi del film sono dunque stranieri in terra straniera. Beau travail viene realizzato dopo un’ideale trilogia che, come ha notato Judith Mayne, affronta tre diversi aspetti del discorso coloniale: la colonizzazione in Chocolat, l’immigrazione in Al diavolo la morte [S’en fout la mort, 1990] e la de-colonizzazione in J’ai pas sommeil [id., 1994] (gli ultimi due di ambientazione francese come Nénette e Boni [id., 1996]). Rispetto a quella di Chocolat, l’Africa di Beau travail è un territorio ancora più astratto e arcano, ripreso sempre in luce naturale (anche nelle sequenze notturne), anfiteatro capace di mettere a nudo anche le passioni più riposte, come quel «continuum che lega desiderio sessuale e violenza.»13 Una Terra Madre (in larga parte popolato – in Beau travail – da presenze femminili) e vergine, brulla e imperscrutabile, un luogo trasfigurato e scontornato dalla memoria, immerso in un tempo di sogno che coincide con l’indecifrabile paesaggio mentale di Galouop.
Racconto di corpi
Non si accede al mondo se non percorrendo quello spazio che il corpo dispiega intorno a sé nella forma della prossimità e della distanza delle cose.
Umberto Galimberti, Lo spazio del corpo14
«Non lo dico per scherzo. Catturare i corpi su pellicola è l’unica cosa che mi interessa», dice Claire Denis. E ancora:«Un film è una struttura espandibile dove lo spazio è invaso dagli attori.»15
Nei film di Claire Denis lo spazio è esperibile solamente attraverso i corpi delle persone che lo abitano. Il cinema di Denis è cinema di corpi, proprio perché questi ultimi sono anzitutto strumenti di conoscenza («[…] non esiste un uomo al di fuori del suo corpo, perché il suo corpo è lui stesso nella realizzazione della sua esistenza – scrive Umberto Galimberti16) e non solamente di recezione sinestesica (pomposamente e semplicisticamente si potrebbe parlare di fusione ideale di res extensa e res cogitans cartesiane). Lo sguardo diventa strumento indispensabile proprio perché il primo responsabile di un processo di svelamento. Non esiste alcuna possibilità di onnicomprensione spazio-temporale, piuttosto un continuo e mutevole rapporto tra la prospettiva (lo sguardo) del soggetto e le porzioni di spazio da comprendere (cum-prehendere, «prendere insieme»).17
Anche in Beau travail – come e più che in altri film dell’autrice – la profondità di campo lega e distanzia corpi e spazi in una prospettiva che tende ad annullare l’ordinaria percezione della distensione temporale. Il corpo nel cinema di Claire Denis non è solo corpo anatomico ma anche corpo ideale dove convivono istanze della coscienza e dell’inconscio. È un corpo territorializzato che diventa principio d’esperienza ed è messo in comunicazione con altri corpi. Il motore della tragedia, nel film, è attivato proprio nel momento in cui lo sguardo di Galoup è messo in relazione e turbato dalla bellezza eterea dei corpi diafani dei soldati, simili a figure della pittura preraffaellita. I loro esercizi rituali e solenni sono delle performance rappresentative in grado di investire e sollecitare (lasciando emergere una pluralità di significati più o meno celati) la sfera percettiva del sergente. Non a caso, Pier Maria Bocchi e Luca Malavasi18 li paragonano alle esibizioni del teatro kabuki giapponese, mentre Jonathan Rosenbaum (vedi nota 7) li assimila agli esercizi del teatro d’avanguardia (non bisogna qui dimenticare l’ammirazione più volte esternata dall’autrice per quell’Out 1 [id.,1971]19 diretto da uno dei suoi maestri: Jacques Rivette).
Persino la morte nel film diventa metafora della liberazione di energie potenziali attraverso una danza incontrollata ed eccessiva capace, paradossalmente, di far detonare tutta la vitalità inespressa. Una morte che diviene e-stasi e non più stasi, processo di scrittura da attuare attraverso il corpo (scrittura con il corpo e non del corpo), ultima meta del tragitto di liberazione e conoscenza di se stessi.
«Egli danza»: il ritmo della notte
Danzare è soffrire un mito, dunque sostituirlo con la realtà
Antonin Artuad20
Nell’introduzione del suo testo più volte citato, Camille Dumoulié connette il desiderio al cerimoniale esorcistico della danza. «Nulla come il desiderio dovrebbe essere vissuto nella realtà del corpo, individuale e sociale, e nella realtà concreta dello spirito. Nulla come il desiderio dovrebbe essere stimolo per far danzare il corpo e lo spirito»21.
La danza liberatoria sulle note di Rhythm of the Night di Corona non è solo – come più volte detto – una rappresentazione metaforica della morte e del passaggio in un altra dimensione del protagonista, non è solo la fatale congiunzione di eros e thanatos (in fondo, si tratta di una performance non dissimile da un amplesso: nel prefinale vediamo infatti Galoup puntarsi la pistola all’altezza del pube e, subito dopo, nel non-luogo della discoteca, eccolo volteggiare mentre fuma una sigaretta “post-coitale”). È anche sintesi, posta – con notevole intuizione – proprio nel finale, di tutti gli aspetti di cui si è precedentemente dibatutto: esteriorizzazione del desiderio, espressione del corpo, manifestazione di un legame inscindibile con lo spazio, testimonianza di un avvenuto affrancamento del proprio Io, congiunzione di uno sfuggente dato reale con l’universo mentale (la dance music ascoltata alla radio è uno dei pochi elementi che, durante l’esilio marsigliese, connettono Galoup al mondo esterno).
La danza comunica la totale adesione della regista alla materia narrata. Adesione che, come spesso nel suo cinema, passa attraverso il viatico «spirituale» della musica (o meglio: delle capacità di racconto della stessa). «La musica è il simbolo dell’attitudine della regista all’ammirazione, all’entusiasmo, al colpo di fulmine per l’uomo e per la vita.»22
Sovente i film di Denis sono modellati sulla musica, sono coreografie cinematiche: «I film “musical” di Claire Denis ballano sulle note di brani che sono il film. A volte si ispirano ad essi, a volte vi si attorcigliano come a un’ancora, altre ancora ne fanno un tessuto narrativo e morale.».23
Rispetto ad altri suoi film, in Beau travail la musica extra-diegetica è totalmente pre-esistente: da Neil Young ai canti dell’opera Billy Budd di Benjamin Britten alla musica disco degli anni Novanta (la già citata Rhythm of the Night e l’hit turca Șimarik di Tarkan). La musica diventa unica possibilità, per i corpi, di estrinsecare le tensioni che li agitano. In Beau travail i corpi non si toccano quasi mai, il loro erotismo («l’erotismo del non conosciuto, della possessione e al contempo della libertà dell’io più incognito»24) può rivelarsi solo attraverso l’esperienza dionisiaca ed estatica della danza.
Nella danza25 l’uomo può sentirsi finalmente libero, ritrovare se stesso uscendo metaforicamente da sé. Nella danza l’uomo può appagare il proprio desiderio, riempiendo quella mancanza che in Beau travail trova il proprio significato nella comprensione dell’esperienza della morte.
NOTE
1. in T. Mann. La morte a Venezia, Mondadori (Milano), p. 61
2. I. Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Mondadori (Milano), 1975-2002, p. 172
3. C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi (Torino), 2002, p. 134
4. dichiarazione presente in J. Mayne, Claire Denis, University of Illiniois Press, 2005, p. 23
5. echi del personaggio di Gustav von Aschenbach sono rintracciabili sia nel personaggio di Galoup che in quelli di Forestier. Chiaramente, la complessità introspettiva e la riflessione sul ruolo dell’intellettuale nella società non sono tasti che interessino a Denis.
Oltre a Billy Budd, la regista si è ispirata anche a due poesie di Melville: Gold in the Mountain e The Night March
6. http://www.chicagoreader.com/chicago/unsatisfied-men/Content?oid=902343
7. Subor interpreta un personaggio che ha lo stesso nome di quello da lui sbozzato in Le Petit Soldat [id., 1960] di Jean-Luc Godard. Al di là delle assonanze tra le due pellicole (in soldoni: l’esternazione dei pensieri del protagonista attraverso la voice over, la riflessione sul colonialismo francese), Claire Denis ha dichiatato che il personaggio di Forestier del suo film coincide, nella sua visione, con quello del film di Godard:«Ho pensato che il suo destino sarebbe stato quello di arruolarsi nella Legione Straniera.»
https://www.youtube.com/watch?v=jc-eoMD8tkU
Jonathan Rosenbaum, inoltre, ha evidenziato una flebile assonanza tra Beau travail e Muriel, il tempo di un ritorno [Muriel, ou le temps d’un retour, 1963] di Alain Resnais.
8. C. Dumoulié, op. cit., pp. 306-307
9. Ibidem, p. 305
10. contenuta in M. Vecchio (a cura di), The Films of Claire Denis: Intimacy of the Border, I.B. Taurus (Londra-New York), p. 147
Da un memoriale di Nancy, Denis ha inoltre tratto il suo film L’intrus [id., 2004]
11. C. Ruhe, Beyond Post-Colonialism? From Chocolat to White Material in M. Vecchio (a cura di), op. cit., p. 313
12. Ibidem, p. 336
13. J. Mayne, op. cit., p. X
14. in U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli (Milano), 1983, p. 149
15. in J. Mayne, op. cit., p. 25
16. U. Galimberti, op. cit., p. 15
17. Un film come Vendredi soir [id., 2002] è in questi termini emblematico. Il rapporto soggetto-spazio è qui rappresentato come un continuo scollamento e, parimenti, caratterizzato da un continuo tentativo del primo di acciuffare, captare, segmentare e comprendere il secondo. La risultante è una percezione parziale di sé e dello spazio, come testimonia la scena dell’amplesso in cui – godardianamente – esistono solamente particolari e non figure intere.
18. P.M. Bocchi e L. Malavasi, Claire Denis: un’innamorata in P.M. Bocchi e L. Malavasi (a cura di), Claire Denis, Bergamo Film Meeting (Bergamo), 2009
19. Lili (Michéle Moretti) e Thomas (Michael Lonsdale), nel film di Rivette, stanno allestendo una versione de I sette contro Tebe la cui messinscena rimanda esplicitamente alle avanguardie teatrali degli anni Sessanta. A Rivette la regista ha inoltre dedicato l’interessante documentario Jacques Rivette, le veilleur [id., 1990]
20. A. Artaud, Lettera sulle deportazioni, Mimesis, Milano 2003, p. 101.
21. C. Dumoulié, op. cit., p. XII
22. P.M.Bocchi e L. Malavasi, op. cit., p. 10
23. Ibidem, p. 9
24. Ivi, p. 12
25. La danza è anche liberazione di energia potenziale e momento in cui letteralmente potersi esprimere. Si confronti con le scene di danza presenti in 35 rhums [id., 2008] e in J’ai pas sommeil.