«Filma gli omicidi come scene d’amore, e le scene d’amore come omicidi.» Chissà se il regista Paul Verhoeven, sul set del suo quarto lungometraggio americano, il controverso Basic Instinct [id., 1992], aveva in mente questa frase di Alfred Hitchcock. Ad ascoltare il regista olandese, sembrerebbe proprio di sì: «Le scene di sesso in Basic Instinct – dice – non volevano essere eccitanti. In realtà sono scene thriller»1. È noto l’apprezzamento di Verhoeven nei confronti del cinema di Hitchcock. In più di un’intervista, il regista olandese ha dichiarato che il suo film preferito è La donna che visse due volte [Vertigo, 1958]2. Ciò è particolarmente evidente in Basic Instinct: per tutta la durata del film, l’attrice Sharon Stone esibisce una pettinatura simile a quella di Kim Novak; come La donna che visse due volte, Basic Instinct è ambientato a San Francisco; anche la colonna sonora del film, ad opera di Jerry Goldsmith, riprende quella, immortale, di Bernard Herrmann.
Alcune citazioni de La donna che visse due volte.
Proprio perché i riferimenti al cinema di Hitchcock sono così espliciti, la maggioranza della critica, al momento dell’uscita di Basic Instinct nel 1992, non ha preso troppo sul serio quest’aspetto del film3, preferendo soffermarsi sulle incongruenze narrative della sceneggiatura da 3 milioni di dollari di Joe Eszterhas. Eppure, il rapporto del film di Verhoeven con i capolavori di Hitchcock non si limita al puro citazionismo. Come Brian De Palma con Vestito per uccidere [Dressed to Kill, 1980], Verhoeven, con la collaborazione del direttore della fotografia Jan De Bont, si mostra maggiormente interessato alla superficie – stilizzata, volutamente non realistica – del suo film. Non tanto alla linearità narrativa, quanto a quella che Roberto Nepoti chiama, sempre a proposito di De Palma, la «pura fenomenologia della suspense»4. Lo fa attraverso un neo-noir cinefilo ed eccessivo, un «thriller pornografico»5 che aggiorna Hitchcock e la figura della femme fatale all’ipersessualizzazione degli anni Novanta; una sorta di blockbuster d’autore, un divertissement in cui Verhoeven abbraccia nuovamente, dopo Il quarto uomo [De vierde man, 1983] e Atto di forza [Total Recall, 1990], la logica postmoderna6, forzando la verosimiglianza narrativa del cinema hollywoodiano classico (alla fine di Basic Instinct gli assassini potrebbero benissimo essere due) per costruire «un film senza senso»7 (come fa la scrittrice Catherine Tramell a conoscere il passato del detective Nick Curran e precedere tutte le sue mosse?), un esercizio di stile spettacolare che gioca, attraverso uno sguardo decisamente ironico, con gli stereotipi del thriller.
Le suggestioni postmoderne del cinema di Verhoeven sono evidenti già all’inizio del film, nella scena di dialogo fra il detective Nick Curran (Michael Douglas) e il suo collega Gus (George Dzundza), mentre accompagnano la sospettata Catherine Tramell (Sharon Stone) alla stazione di polizia. La donna, scrittrice, spiega ai due poliziotti come nei suoi libri un ruolo fondamentale sia giocato dalla “sospensione dell’incredulità”.
Da Caccia al ladro [To Catch a Thief, 1955] a Gli uccelli [The Birds, 1963], passando per La donna che visse due volte e Intrigo internazionale [North by Northwest, 1959], Hitchcock ha esplorato i rapporti di coppia e le devianze del desiderio attraverso la forma del thriller. La provocazione di Verhoeven con Basic Instinct – e il principale selling point del film – consiste nell’utilizzare quella stessa forma per “sospendere l’incredulità” dello spettatore (Verhoeven: «Basic Instinct non è realistico… Ma neanche la maggior parte dei thriller lo è!») e portare la suspense delle storie d’amore hitchcockiane direttamente in camera da letto, giocando esplicitamente con alcuni tabù del cinema americano mainstream in materia di rappresentazione della sessualità. Nelle intenzioni di Verhoeven, Basic Instinct è il film che Hitchcock avrebbe realizzato se fosse vissuto negli anni Novanta, senza le limitazioni della censura.
In alto: Basic Instinct. In basso: Psyco [Psycho, 1960].
La storia di Basic Instinct è nota: a San Francisco, il detective Nick Curran è alle prese con efferati crimini sessuali, e la prima sospettata è la scrittrice di thriller erotici Catherine Tramell. Ma sin dall’incipit, è evidente come la storia sia più complessa e labirintica di quel che sembra. Come è noto, Basic Instinct comincia con una scena di sesso che sottopone lo spettatore a un vero e proprio shock audiovisivo. Un uomo e una donna bionda (di cui non vedremo il volto per tutta la scena, ma che è interpretata da Sharon Stone) sono a letto, stretti in un energico amplesso. A un certo punto, la donna lega l’amante alla testiera del letto. Quando l’uomo sta per raggiungere l’orgasmo, lei lo pugnala ripetutamente con un rompighiaccio. La prima sequenza di Basic Instinct contiene gli elementi principali del film di Verhoeven: suspense, violenza e sesso esplicito. Contrariamente a quanto succedeva nella maggior parte dei lungometraggi hollywoodiani mainstream di quegli anni, nel film di Verhoeven le figure umane non vengono strategicamente “tagliate” dal regista attraverso l’uso di inquadrature ravvicinate; non sono neanche coperte dalle lenzuola, in modo tale da rendere possibile il nascondimento delle loro nudità. Al contrario, i corpi degli attori sono sempre perfettamente visibili, filmati in campo lungo (l’immagine allo specchio che apre il film) o in campo medio.
Alcuni fotogrammi dall’incipit di Basic Instinct: i corpi nudi degli attori sono in primo piano.
La prima provocazione di Verhoeven, rispetto all’opera di Hitchcock e al cinema mainstream di Hollywood, riguarda, dunque, ciò che viene mostrato. Non si tratta di una novità per il regista, che nella sua carriera ha sempre cerca di spostare in avanti il limite del rappresentabile, in ambito arthouse (il periodo olandese) e mainstream (i suoi film hollywoodiani). Ad esempio, il capolavoro Spruzzi [Spetters, 1980] è stato accolto polemicamente in Olanda anche per la sua rappresentazione esplicita della sessualità. A Hollywood, invece, RoboCop [RoboCop, 1987], a causa dell’eccessiva violenza, fu sottoposto per ben sette volte alla MPAA (Motion Picture Association of America), l’associazione deputata in America al rating system, ovvero a decidere se un film sia visionabile o meno da un minore. Un destino simile è toccato a Basic Instinct, che prima di poter essere distribuito in sala è stato sottoposto da Verhoeven addirittura dieci volte alla MPAA per modificare il rating emesso in prima istanza dall’associazione e passare dal temutissimo NC-17 (Adults Only: film solo per maggiorenni) al più morbido R (Restricted: film visionabile da un minore se accompagnato), ottenuto grazie ad alcuni brevi tagli (il director’s cut sarà distribuito in Europa, mentre negli Usa uscirà direttamente in DVD). Tuttavia, può essere interessante notare come il sesso di un film stilizzato come Basic Instinct sia molto diverso da quello di Spruzzi. Scritte e coreografate da Verhoeven attraverso l’utilizzo di dettagliati storyboard (la sceneggiatura originale di Eszterhas era decisamente più soft), le scene di sesso di Basic Instinct sono il luogo in cui i meccanismi hitchcockiani di suspense, di fatto, si concentrano. Ciò appare evidente non solo nell’incipit ma anche e soprattutto nella seconda grande scena di sesso di Basic Instinct, quella che vede coinvolti il detective Nick e la diabolica Catherine. Come vedremo tra poco, in questa scena la regia di Verhoeven, la fotografia di De Bont e la colonna sonora herrmanniana/stravinskijana di Goldsmith8 puntano non tanto a eccitare lo spettatore, quanto a costruire una tensione da thriller hitchcockiano.
Come è noto, la suspense nel cinema di Hitchcock nasce dal fatto che lo spettatore detiene un numero di informazioni maggiore rispetto al protagonista. Nella sua famosa intervista con François Truffaut, il maestro inglese cita come esempio di suspense proprio una sequenza de La donna che visse due volte: quelle informazioni che un altro regista avrebbe tenuto per la conclusione della storia, in modo tale da avere un colpo di scena – Judy (Kim Novak) non solo somiglia alla morta Madeleine, ma è proprio lei –, vengono immediatamente rivelate da Hitchcock allo spettatore, mentre il protagonista del film, Scottie (James Stewart), le scoprirà soltanto alla fine, nell’ultima sequenza. In Basic Instinct, lo spettatore, al pari del personaggio interpretato da Douglas, non avrà mai la certezza che Catherine Tramell sia l’assassina: la sceneggiatura di Eszterhas lascia aperte diverse possibilità. Lo stesso Verhoeven ha confessato di aver pensato a differenti versioni del finale, a conferma del fatto che qualunque risoluzione dell’intreccio sarebbe stata effettivamente plausibile9.
Nella sequenza in cui Nick fa per la prima volta sesso con Catherine, l’uomo, al pari dello spettatore, non può sapere se la donna nasconde, sotto le lenzuola, un rompighiaccio. Vi sono, però, delle informazioni aggiuntive che lo spettatore possiede rispetto a Nick; informazioni che, come nei capolavori di Hitchcock, danno luogo a uno stato di tensione più forte, tanto che lo stesso Verhoeven descrive questa sequenza come «una scena thriller realizzata attraverso il sesso»10. La sequenza, infatti, riprende alcuni degli elementi più importanti dell’incipit di Basic Instinct, elementi di cui Nick, a differenza dello spettatore, è solo parzialmente a conoscenza. Ad esempio, l’amplesso è coreografato in modo pressoché identico; nel soffitto della camera di Catherine vi è un enorme specchio, come nella stanza dell’uomo assassinato; Catherine poi è bionda, come l’assassina. È, però, il ripetersi di alcuni elementi strettamente filmici (la colonna sonora di Goldsmith, l’immagine in plongée degli amanti allo specchio) che finisce con l’accrescere la tensione.
Il découpage della sequenza dell’amplesso tra il detective Curran e Catherine (a sinistra) e quello dell’incipit (a destra) a confronto.
All’epoca dell’uscita di Basic Instinct, la critica ha avanzato principalmente due accuse nei confronti del film: la prima riguardava la sceneggiatura di Eszterhas – troppe incongruenze narrative –, la seconda la rappresentazione della sessualità – troppo violenta. In entrambi i casi, a essere sotto accusa è la mancanza di realismo del film. Eppure, insieme alla nozione hitchcockiana di suspense, uno dei modelli dichiarati del film di Verhoeven è proprio il cinema americano noir dei primi anni Quaranta, quello che va da La fiamma del peccato [Double Indemnity, Billy Wilder, 1944] per arrivare a Femmina folle [Leave Her to Heaven, John M. Stahl, 1945]. Non è solo il sesso ad essere poco realistico, in Basic Instinct, ma anche la recitazione degli attori – in primis la diabolica Sharon Stone, parente stretta di una lunga schiera di bionde femme fatale, da Barbara Stanwyck (La fiamma del peccato) a Lana Turner (Il postino suona sempre due volte [The Postman Always Rings Twice, Tay Garnett, 1946]), sino a Lizabeth Scott (Solo chi cade può risorgere [Dead Reckoning, John Cromwell, 1947]).
Come con Hitchcock e La donna che visse due volte, il dialogo di Basic Instinct con il cinema noir hollywoodiano si svolge all’insegna dell’esplicitazione, come nella sequenza dell’interrogatorio, in cui una degli elementi ricorrenti del genere, il confronto fra il protagonista maschile e la femme fatale, si risolve con la plateale sconfitta del primo, che vede la propria pulsione scopica ritorcerglisi diabolicamente contro quando la donna allarga maliziosamente le gambe e lascia intravedere di non portare le mutandine (un’idea, questa, che non era presente nella sceneggiatura originale di Eszterhas, e che appartiene a Verhoeven). Anche sul piano visivo, lo spettatore assiste a una rielaborazione di alcune elementi caratteristici del noir: le ombre non vengono più proiettate sulla diabolica femme fatale, ma sui poliziotti, disegnando sui loro volti le sagome di una gabbia – metafora neppure troppo nascosta di come sia Catherine, con la sua provocante sensualità, a dominare i poliziotti. Infine, può essere interessante osservare come anche in questa sequenza, al pari delle altre del film a tema sessuale, Verhoeven giochi con l’idea hitchcockiana di suspense, visto che lo spettatore, a differenza dei poliziotti (con l’eccezione di Nick), sa che la donna non porta la biancheria intima.
La sequenza chiave dell’interrogatorio: le ombre sono proiettate sui poliziotti.
Un altro esempio di suspense nella rappresentazione della sessualità: lo spettatore sa che Catherine non porta la biancheria intima.
La presenza così programmatica di figure-tipo del noir (il detective dal passato oscuro, la femme fatale, ecc.) non impedisce a Verhoeven, congiuntamente con il direttore della fotografia Jan De Bont, di sperimentare, sempre a partire dal cinema americano degli anni Quaranta, nuove traiettorie visive. Il risultato è un’opera che da un punto di vista figurativo è senz’altro più vicina a melodrammi come Femmina folle o lo splendido Niagara [id., Henry Hathaway, 1953], piuttosto che a capolavori in bianco e nero come La fiamma del peccato. Non a caso, tra i riferimenti figurativi di Basic Instinct vi sono, oltre che La donna che visse due volte, la pittura di David Hockney (Verhoeven: «Uno può chiamare Basic Instinct un film noir, ma per me il principale riferimento visivo erano i quadri di David Hockney») e gli esperimenti cromatici del melodramma di Russel Metty e Douglas Sirk all’Universal-International negli anni Cinquanta (soprattutto Come le foglie al vento [Written on the Wind, 1956], evocato tramite la presenza dell’attrice Dorothy Malone, nella parte di un’amica di Catherine). L’intenzione di Verhoeven e De Bont era di realizzare un film clair, ovvero un noir aggiornato all’estetica di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, in cui la luce bianca (o al più blu, come nell’hockneyano Sur la Terrasse [1971]) e l’ambientazione diurna di Basic Instinct sostituiscono il bianco e nero contrastato del cinema noir americano degli anni Quaranta11.
Opposizione di colori caldi e freddi in Basic Instinct e Come le foglie al vento.
Sur la Terrasse di David Hockney.
Nei precedenti paragrafi, abbiamo mostrato come Basic Instinct rappresenti innanzitutto il tributo di Verhoeven a due suoi grandi amori cinematografici: il cinema di Alfred Hitchcock (in particolare La donna che visse due volte) e il film noir americano degli anni Quaranta. Del primo, il regista olandese estende la nozione di suspense alla rappresentazione della sessualità, in un regime visivo, quello del cinema mainstream hollywoodiano, in cui la messa in scena del sesso è spesso edulcorata; del film noir americano, invece, Verhoeven riprende alcun figure-tipo (la femme fatale), aggiornandole all’America ipersessualizzata degli anni Novanta (sul ruolo del sesso nella società dello spettacolo americana la parola definitiva spetterà al successivo film del regista, Showgirls [id., 1995]). Abbiamo poi sottolineato come Verhoeven costruisca per Basic Instinct un fitto sistema di riferimenti visivi tra loro eterogenei: si va dalla pittura dell’inglese Hockney ai giochi di luci e ombre del cinema noir, da una mobilità della macchina da presa di derivazione wellesiana nelle scene più movimentate (Verhoeven e De Bont citano L’infernale Quinlan [Touch of Evil, 1958] come un riferimento) al montaggio analitico alla Hitchcock nelle sequenze di sesso (con tanto di dettagliati storyboard).
Vogliamo ora concludere quest’articolo evidenziando un aspetto tematico della sceneggiatura di Eszterhas che avvicina Basic Instinct al cinema olandese del regista, ovvero la presenza nel film di una sorta di simbologia religiosa, per cui Catherine sarebbe una «personificazione del Demonio»12, mentre la detection di Nick racconterebbe, per dirla con le parole dello stesso Douglas, «la lotta contro il peccato»13. Per quanto possa apparire sorprendente, sono numerosi gli elementi di Basic Instinct che suggeriscono un’interpretazione simbolico-religiosa del film: i colori «infernali», virati verso l’arancione e il marrone, dell’abitazione dell’uomo assassinato nell’incipit; l’ovvio binomio sesso/morte; la natura manipolatrice e onnisciente del personaggio di Catherine; la presenza nella sceneggiatura di di Eszterhas della musica Sympathy for the Devil dei Rolling Stones nelle scene chiave. Infine, la scelta di ambientare la sequenza immediatamente precedente al primo amplesso tra Nick e Catherine in una discoteca situata all’interno di una chiesa sconsacrata (un set ricostruito in studio che si ispira al Limelight Club di New York) e altre ovvie simbologie (la paura della castrazione e la forma fallica del rompighiaccio; il bacio tra Nick e Catherine dietro le fiamme) fanno di Basic Instinct non solo uno spettacolare divertissement intorno all’immaginario cinematografico americano, ma anche l’evoluzione naturale delle ossessioni religiose del regista del Quarto uomo, e un perfetto controcampo di quel film sul «Paradiso perduto»14 che è RoboCop.
NOTE
1. P. Verhoeven, in M. Barton-Fumo (a cura di), Paul Verhoeven: Interviews, Mississippi University Press, 2016.
2. «Quando avevo diciottanni, ho studiato La donna che visse due volte. Devo averlo visto almeno quindici volte. Conosco ogni inquadratura a memoria, al punto che mentre giravo Basic Instinct, intere scene dal film di Hitchcock mi tornavano alla mente» https://www.youtube.com/watch?v=kHUJ1Fg9W4w.
3. Sul rapporto del film con il cinema hitchcockiano, si veda G. Simbula, http://www.offscreen.it/american/basicinstinct.htm.
4. R. Nepoti, Brian De Palma, Il Castoro, Milano, 1995, p. 59.
5. J. Rosenbaum, https://www.chicagoreader.com/chicago/basic-instinct/Film?oid=1074339
6. «Pensavo che, come nel caso di Atto di forza, ci dovesse essere dell’ambiguità. È reale o no? Si tratta di un sogno? Chi è il killer, Catherine o l’altra donna? Da un punto di vista artistico, ho pensato che sarebbe stato divertente, postmoderno, se il mistero non fosse stato risolto. [Michael] Haneke ha fatto la stessa cosa in Niente da nascondere [Caché, 2005]. Penso che sia un retaggio della logica postmoderna: non esiste un’unica verità; ci possono essere due, tre verità; non si può più dire “questa è la vera verità”. Di nuovo, penso che tutto ciò abbia a che fare con la filosofia postmoderna. Quando ho cominciato a lavorare ad Atto di forza, mi sono detto, “Voglio che entrambe le possibilità siano vere: [quello del protagonista] è un sogno e la realtà”. E per Basic Instinct vale lo stesso: [il killer] è Sharon Stone e Jeanne Tripplehorn» (P. Verhoeven, https://www.youtube.com/watch?v=v7yK4mAsLME).
7. P. Verhoeven, https://www.youtube.com/watch?v=kHUJ1Fg9W4w
8. Verhoeven ha dichiarato che una delle principali fonti di ispirazione per la colonna sonora di Goldsmith fu l’Apollon Musagète (1928) di Igor Stravinsky (https://www.youtube.com/watch?v=bd_1uwD4v-I&list=RDbd_1uwD4v-I&index=1), musicista peraltro apprezzato dallo stesso Herrmann.
9. Cfr. Nota 6.
10. P. Verhoeven, in M. Barton-Fumo (a cura di), op. cit.
11. «Per Basic Instinct, ci siamo ispirati al lavoro di David Hockney, alle pitture che ritraggono le piscine californiane, ai suoi blu. Basic Instinct è un film noir, ma non volevamo che le ombre fossero onnipresenti. Volevamo usare una tavolozza di blu e di bianchi» (P. Verhoeven, https://www.accreds.fr/2013/02/09/paul-verhoeven-les-remakes-de-mes-films-me-donnent-limpression-detre-deja-mort.html).
12. S. Simkin, Basic Instinct, New York, Palgrave Macmillan, 2013, p. 20.
13. Cfr. http://articles.latimes.com/1993-04-30/entertainment/ca-29376_1_basic-instinct
14. P. Verhoeven, https://theplaylist.net/paul-verhoeven-talks-elle-robocop-jesus-metaphor-infamous-scene-basic-instinct-interview-20161213/