Che spesso e volentieri il cinema contemporaneo abbia scelto la forma del frammento per descrivere una realtà sempre più inafferrabile lo abbiamo costantemente ribadito sulle pagine di questa rivista. Ne danno conferma alcuni tra i primi film visti finora alla Mostra. A volte con la propensione all’irrigidimento delle forme del racconto come in Tár [id., 2022] di Todd Field; a volte attraverso continui strappi e improvvise aperture, incrollabile eredità postmoderna, come in White Noise [id., 2022] di Noah Baumbach (guarda caso tratto da un romanzo di Don DeLillo); a volte con una sorta di irradiazione concentrica di tempi e spazi come per Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades [id., 2022] di Alejandro González Iñárritu. Diseguali per ambizioni e risultati, ognuno di questi tre film rende esplicito un libero gioco di associazioni, equivoci, antinomie, deviazioni dall’ordinaria orchestrazione della fabula. In Tár, il percorso di contemporanea gogna mediatica e autodistruzione psichica dell’eponima protagonista è raccontato attraverso una struttura che inizialmente accumula fastelli apparentemente irrelati ma che finiranno invariabilmente per comporre un mosaico in grado di tenerli insieme tutti; in White Noise, la programmatica dissoluzione dei grandi miti della borghesia americana di fronte all’ineluttabilità della morte (e non, delillianamente, all’imponderabilità dell’eterno) passa attraverso un continuo ingombro di situazioni a tutta prima sconnesse (immagini d’incidenti automobilistici sorbite passivamente alla tv, nubi tossiche che sprigionano misteriose sostanze chimiche dagli effetti potenzialmente letali, droghe sperimentali in grado di alterare la percezione della paura della fine); in Bardo, ambientato in uno spazio sospeso tra la vita e la morte, ogni dimensione collassa su stessa e si fonde in un magma indistinto (l’immaginazione diventa sogno, il sogno diventa realtà, il passato diventa presente, il presente – forse – diventa pura possibilità). Non stupisca la differenza dei registri: Tár sembra a volte proseguire come fosse una collazione di appunti di sedute di psicoterapia; White Noise adotta una specie di epica del quotidiano (che per giunta tradisce la raggelata malinconia di DeLillo); Bardo è infuso di un picarismo onirico che guarda tanto all’ovvio Fellini di 8½ (1963) che al realismo magico sudamericano. In tutti e tre i casi il risultato è infatti un effetto di realtà “derealizzata” (espressione cara proprio allo stesso Fellini, specialmente nell’ultimo ventennio della sua vita) che porta alle estreme conseguenze l’idea di un mondo dove le forme del virtuale guidano ormai la percezione delle cose. Così, persa ogni separazione, ogni linea di confine, ogni possibilità di demarcazione, la risposta che il cinema formula sembra una (conservativa ma affascinante) riduzione dall’uno al molteplice, scomponendo la realtà in un fascio di percezioni. Forse unico modo, ingenuo e superficiale quanto si voglia, per provare a leggerla.