Tutto quello che è senza vestito non è necessariamente nudo.
Emmanuel Lévinas, Dell’evasione
Assicurando una traduzione pratica ai principi di teoria fissati con il saggio del 1972 dal titolo Trascendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer, American Gigolo [id., 1980] ha il merito di riuscire in una prima rappresentazione esaustiva, quasi una descrizione fenomenologica, della scelta solipsistica con cui l’eroe schraderiano, un prototipo umano chiamato a una dimostrazione di amore cristiano per l’altro, in un primo momento allontana se stesso dal mondo per abitare la prigione dell’autocompiacimento. Il film del 1980, oltre a fissare le coordinate estetiche di un cinema che fa della pulizia visiva e dell’eleganza scenica il proprio marchio di fabbrica — riproposto da Schrader per la realizzazione di film sexual chic come Cortesie per gli ospiti [Comfort of the Strangers, 1990], Le due verità – Forever Mine [Forever Mine, 1999] e The Canyons [id., 2013] —, sancisce l’elaborazione di uno specifico approccio alla materia filmica, di un modus operandi risultante dal riconoscimento di tre momenti successivi propiziati nella prassi registica dei maestri studiati: la quotidianità, la scissione e la stasi. Si tratta di tre tappe, stadi di un movimento triadico foriero di un rinnovamento spirituale in grado di restituire l’uomo a se stesso facendolo incontrare con il soprasensibile, altrimenti inteso nelle accezioni di “Completamente Altro” (Rudolf Otto), di Dio, di sacro o, appunto, di trascendente.
Quotidianità in L’autunno della famiglia Kohayagawa [Kohayagawa-ke no aki, 1961] di Yasujirô Ozu; scissione in Ordet – La parola [Ordet, 1955] di Carl Theodor Dreyer; stasi in Diario di un curato di campagna [Journal d’un curé de campagne, 1951] di Robert Bresson.
La quotidiana ricerca di disinibizione
In questo moto d’ascesa suggellato dall’incontro con il numinoso, la quotidianità riflette una condizione esistenziale tipica, in quello che potrebbe essere chiamato il grado zero della sua espressività o dell’insieme delle sue declinazioni fenomeniche. Sottoposta a un processo di stilizzazione sviluppato aderendo a certo formalismo cinematografico, essa ha il compito di raffigurare il mondo del protagonista, di caratterizzarne nel modo più dettagliato e lineare possibile l’esteriorità, ovvero ciascuna delle manifestazioni abituali da cui attingere un carattere di immanenza per le azioni compiute dal soggetto. L’autore ne dà una definizione paragonandola a una «meticolosa rappresentazione dei banali, insulsi luoghi comuni della vita di tutti i giorni»1.
Aitante, poliglotta e chic, ma soprattutto disinibito, Julian Kay è un avvenente gigolò sulla trentina, dedito al culto dell’esteriorità riflessa nel gusto codificato dalla società narcisistica di Los Angeles, «luogo mondiale dell’inautentico»2. Per accattivarsi l’interesse del gentil sesso, egli dedica la maggior parte del suo tempo all’apprendimento di un protocollo di forme sessuali e linguistiche tanto esteso quanto banale, raffinato e vuoto. Il suo approccio alla quotidianità si svolge, pertanto, sotto il segno di un bisogno inappagabile: la perdita dell’intimità. Il protagonista di American Gigolo è infatti un uomo ossessionato dalla paura di rimanere nudo di fronte a se stesso, circostanza da evitare poiché esperita alla maniera di una relegazione dell’io al proprio essere. Non a caso, lo vediamo cambiare look, agghindarsi con disinvoltura, rivolgere un’attenzione e un’ammirazione inusitate verso tutto ciò che copre, ammanta, vela; i completi griffati che indossa e le vistose carrozzerie delle automobile guidate — meri involucri — designano gli oggetti della sua venerazione.
Ma anche quando costretto a fare a meno dei suoi abiti firmati, cioè anche quando concretamente senza vestiti, spogliato perché al lavoro per sedurre e soddisfare le facoltose signore che la sua maîtresse gli procura, Julian sembra riuscire a tollerare perfettamente la nudità di un corpo al quale ha ormai perso aderenza, oltre che per la mancanza di dirittura morale, per abitudine a uno sguardo superficiale. In una funzione sociale, e in quella pseudo-professionale ad essa correlata, viene trovato così temporaneo alleggerimento al peso dell’attribuzione di valori identitari per il corpo della persona: quella escogitata dal gigolò con irreale nonchalance si rivela essere una tattica di differimento della vergogna, messa in atto nel tentativo di eludere l’impaccio derivante dalla prossimità a se stesso di ostacolo alla quotidiana ricerca di disinibizione.
Un esame dell’ampio quadro sintomatico in cui annoverare il sentimento della vergogna ai fini di una corretta comprensione dei suoi meccanismi riporta, senza troppe difficoltà, ad alcune suggestioni frutto della riflessione filosofica scaturita in Francia a partire dagli anni Trenta del Novecento, in un momento di grande eco, nonché di fervida rielaborazione dell’esistenzialismo di Heidegger, prima con Lévinas e poi con Sartre (quest’ultimo autore di opere, come il romanzo pubblicato nel 1938 La Nausée, approfondite da Schrader già ai tempi della sceneggiatura stesa per Taxi Driver [id., Martin Scorsese, 1976.]).
Nello studio del 1936 dal titolo De l’évasion Emmanuel Lévinas, esortando a una ridefinizione del concetto di essere, avanza un abbozzo fenomenologico grazie al quale procedere verso la formulazione di un nuovo paradigma interpretativo. Ciò che per Lévinas rappresenta «la più radicale condanna della filosofia dell’essere»3 esula dalla sfera del sentire in relazione a una volontà singola, a un’istanza di pensiero autonomo, a una morale individuale, e collima piuttosto con l’esaudimento di una richiesta di infingimento per l’io, sotto l’auspicio dell’emancipazione effettiva dalle rassomiglianze con il sé: «L’esistenza è un assoluto che si afferma senza riferirsi a nient’altro. È l’identità. Ma in questo riferimento a se stesso, l’uomo distingue una specie di dualità. La sua identità con se stesso perde il carattere di una forma logica o tautologica; essa sogna, come stiamo per mostrare, una forma drammatica. Nell’identità dell’io, l’identità dell’essere rivela la sua natura di incantamento perché appare sotto forma di sofferenza e invita all’evasione. Così l’evasione è il bisogno di uscire da se stessi»4.
Spaziando fra le diverse rappresentazioni possibili di tale evasione dall’essere, il filosofo francese propone una disamina circostanziata delle esperienze della nausea e della vergogna. L’accostamento dei due fenomeni non è casuale e legittima il riconoscimento di una dinamica avente esito comune nell’«inadeguazione della soddisfazione al bisogno»5, un risultato sempre uguale per ogni sistema che venga adottato come lenimento temporaneo alla formazione di un effetto indesiderato, all’insorgere di una crisi che coglie senza motivo, con la totale gratuità del suo scaturire; provocando scombussolamento per un nulla, un accesso esperienziale pervasivo e del tutto inspiegabile. Questo, dunque, il motore dell’evasione: la promessa di sollievo a un accumulo votato al rincrudimento. In modo specifico, la vergogna viene studiata nei termini di una particolare forma sentimentale in cui l’essere si rivela all’essente quale sua parte più intima e presenza inalienabile. Secondo Lévinas essa «dipende […] dallo stesso essere del nostro essere, dalla sua incapacità di rompere con se stesso», «si fonda sulla solidarietà del nostro essere, che ci obbliga a rivendicare la responsabilità di noi stessi», «appare ogni volta che non riusciamo a far dimenticare la nostra nudità» ed «è in rapporto con tutto ciò che si vorrebbe nascondere e a cui non si può sfuggire»6. Ma se la vergogna coincide con «il fatto di essere incatenati a sé», con «l’impossibilità radicale di fuggire da se stessi per nascondersi a sé»7, questa stessa, come reazione sintomatica dell’essere, non può palesarsi che a scapito di un corpo inibito, piuttosto che a danno di un corpo semplicemente nudo. Su questo punto Lévinas tiene a puntualizzare che: «la nudità della ballerina di music-hall che si esibisce […] non è necessariamente il segno di un essere spudorato, perché il suo corpo può apparirle con quella esteriorità a sé che è proprio ciò che lo copre»8.
La vergogna, quindi, si misura in base al grado di appartenenza a un corpo colmo di esistenza, sopraffatto dall’esuberanza dell’essere, esperito come sua fonte inesauribile. Una tendenza alla disinibizione, il suo contrario, sottrae invece l’uomo al vincolo di tale perdurante richiamo, alla cattività nell’incontro con la realtà contingente della presenza annunciata dai preludi sentimentali sopraccitati.
Quest’ultima via dischiude l’evasione ricercata, con fare programmatico, dall’eroe del film di Schrader. Julian, non per nulla, è un narcisista, un uomo attento alla forma, un perfezionista sempre impegnato a riservare le massime cure al proprio aspetto fisico, celando timori e insicurezze che affondano le loro radici nell’intimo della persona, nelle profondità del sé9. Al ruffiano Leon, intenzionato a persuaderlo della possibilità di lavorare soltanto per lui, egli rivolge un laconico ma eloquente «I can’t be possessed», attestazione che rimanda immediatamente alla riluttanza dimostrata ad abitare il proprio corpo nudo, a prenderne possesso smettendo perciò di travestirlo nella semplice performatività della sua routine10.
Come indagato da Alberto Libera nella sua analisi sulla “somatografia” al lavoro nel cinema schraderiano, il protagonista sembra «perdere massa e subire un processo di dematerializzazione»11, persevera cioè nel sottoporre se stesso a una «vera e propria strategia di assenza del corpo» risultante in una «leggerezza» che assurge ad «elemento fondante del suo esserci». Tuttavia la sua è una fuga che si protrae sempre ad oltranza, poiché, come è stato possibile osservare, essa produce una soddisfazione destinata a cessare a fronte del riacutizzarsi immediato del bisogno di affrancamento dall’essere.
In un’intervista comparsa sulla rivista Film Comment nell’autunno del 1977, Robert Bresson, in risposta a una domanda rivolta dallo stesso Schrader circa le possibilità date allo spettatore di comprendere l’esperienza della trascendenza che il medium raffigura — possibilità che inevitabilmente non attengono alla logica —, tiene a puntualizzare quanto sia sempre indispensabile per il regista «mostrare una successione di fatti come essi si verificano nella vita»12. Ed è precisamente questa, in ultima istanza, la prerogativa della quotidianità (cominciamento del cammino dell’uomo verso la redenzione): denotare, attraverso un montaggio di «immagini insignificanti (non significanti)»13, il complesso delle manovre riservate dal soggetto al compimento di un rituale innescato dal circolo vizioso del bisogno di evasione.
Quotidianità in Bresson (Journal d’un curé de campagne e Un condannato a morte è fuggito [Un condamné à mort s’est échappé, 1956] e in Schrader (American Gigolo). Nel film francese del 1951, il protagonista, un giovane prete fresco di ordinazione, esplicita già una tendenza all’estroversione scrivendo nel suo diario “Ho voluto sopprimere carne e legumi. E mangio solo pane bagnato nel vino, appena un poco, ogni volta che mi sento mancare. Al vino aggiungo zucchero, molto. E lascio da parte il pane per qualche giorno finché non è duro. Grazie a questo regime ho la testa sgombra”.
«Estrarre le cose dall’abitudine, scloroformizzarle»
Nella scissione, il movimento che sancisce per l’io l’instaurazione di un rapporto nuovamente identitario con il proprio essere si articola gradatamente, tramite un processo di lenta riabilitazione di corpo e sguardo che, sottratti al vuoto dominio autoreferenziale della quotidianità, con l’approssimarsi dell’evento decisivo arrivano finalmente a veicolare una pienezza di significato. Lo stadio di effettiva separazione in cui il personaggio appare sempre più nettamente distolto da questa sorta di immedesimazione con la forma esteriore dell’io — cioè di un io gigolò —, sempre più sospinto — perché condizionato dagli eventi che ne scoperchiano la vera fisionomia di uomo — verso la presa di distanza dalla superficie della sua corporeità, si esplica con la concreta rinuncia ad ogni oggetto e valore materiale posseduti, «progressiva riduzione del superfluo che conduce allo spoglio assoluto»14. Tale rivolgimento trova allora pronto riscontro scenico e formale nella scelta di configurare, nell’ultimo quarto del film, il deterioramento fisico di Julian e dei suoi averi, disfacimento che si accompagna a un’accentuazione del senso di inibizione vissuto rispetto a una condizione di rivelata povertà.
Lo sguardo riceve a poco a poco l’educazione necessaria alla correzione di una visuale monoculare limitata da una scarsa capacità di messa a fuoco; esso soltanto in questo modo può abdicare alla sua funzione esclusiva di mezzo della seduzione per rivolgersi oltre lo strato epidermico delle cose precedentemente ignorato.
Spesso nel cinema dell’autore il momento della scissione è annunciato da un’autentica epifania rappresentata dall’incontro con una donna15: Betsy in Taxi Driver, Irena ne Il bacio della pantera [Cat People, 1982] ed Ella in Forever Mine, rappresentano tutte incarnazioni diverse di una medesima figura antesignana, quella stilnovistica della donna-angelo. Non è da meno Michelle, il cui personaggio nel film del 1980 è pensato dal calvinista Schrader per fare capolino nel mondo di Julian al fine di guastarne la quotidiana monotonia.
Soggettive in Taxi Driver, American Gigolo, Cat People e Forever Mine, film in cui il personaggio femminile fa la sua entrata in scena indossando un vestito di colore bianco, quest’ultimo un attributo iconografico di matrice tipicamente stilnovistica.
Quando Julian vede Michelle per la prima volta si trova nel locale che frequenta abitualmente e, pensandola lì per lasciarsi abbordare, scambia con lei qualche parola in francese. A questo punto, i due cominciano a dialogare ma sembrano fraintendere i ruoli l’uno dell’altra. “I know what I see” la informa lui, escludendo così la possibilità della spontaneità per il suo approccio; “I know what I see too” gli risponde la donna, confondendolo con una una replica sibillina, in realtà allusione alla missione redentiva che la impegnerà, per il resto del film, nel discernimento di un’anima da salvare.
Vediamo quindi il tema della donna-angelo fare il paio con un altro motivo di pertinenza religiosa: quello ispirato alla parabola biblica in cui viene raccontata la guarigione da parte di Cristo dell’uomo nato cieco. Tale metafora della vista rischiarata mediante intervento divino, in American Gigolo riflessa dall’azione salvifica con cui Michelle conduce il protagonista lungo il cammino verso la redenzione, costituisce per tutta la prima metà della filmografia schraderiana una sorta di basso continuo, una cifra del narrare che sollecita al riconoscimento di un’eredità importante per la sistematica frequentazione di questo topos da parte del regista, ovvero gli anni della formazione giovanile trascorsi nel proprio Stato, il Michigan, presso il Calvin College16.L’adesione ai principi della Chiesa riformata risalente al periodo dell’indottrinamento — evidentemente qualcosa di inconciliabile con l’esercizio della professione di cineasta a Hollywood — viene presto disattesa e Schrader, lungi dal vivere con acquiescenza la fede calvinista, attinge molti presupposti della propria riflessione tout court da un orizzonte di tradizioni culturali anche molto distanti fra loro, emancipandosi così parzialmente da quello compatto e dogmatico dell’impostazione teologica ricevuta. Non è un caso allora che, malgrado la distanza che lo allontana dalla concezione confessionale sulla dottrina della Trinità, il pensiero dell’unitariano Ralph Waldo Emerson fornisca al regista uno degli indirizzi da seguire per il proprio studio sul trascendente. Generalmente riconosciuto tra i primi fautori della corrente d’ispirazione romantica diffusasi oltreoceano agli albori del XIX secolo con il nome di trascendentalismo, Emerson espone gli assunti della sua teodicea nel saggio intitolato Nature, dove l’estrinsecazione di una morale per l’uomo trova come unica possibilità di sostenimento l’adozione di un punto di vista trascendente e olistico sul mondo della realtà naturale. Nell’opera del 1836 la trattazione di tematiche ricorrenti, quali la celebrazione del quotidiano17 o l’invito a cogliere nell’insieme delle manifestazioni sensibili l’attestazione di una potenza invisibile, si dimostra sottesa a uno stile di scrittura che insiste sull’evocazione di immagini quasi sempre messe al servizio dell’espressione di significati universali. Fra queste, ad emergere con maggiore nitidezza nel testo del filosofo americano sembra essere proprio quella di futura appropriazione schraderiana, costruita ricorrendo alla metafora della visione incrostata cui abitua l’indifferenza di uno sguardo cieco sulle cose. «Appena conformerai la tua vita alla pura idea nella tua mente, ti si riveleranno le sue grandi proporzioni. Una corrispondente rivoluzione nelle cose accompagnerà l’influsso dello spirito. In questo modo svaniranno rapidamente le sgradevoli apparenze, maiali, ragni, serpenti, insetti, manicomi, prigioni, nemici; essi sono temporanei e spariranno. Il sole asciugherà e il vento disperderà lo sporco e il sudiciume della natura. Come quando l’estate viene dal sud e i banchi di neve si sciolgono e il volto della terra diventa verde davanti a essa, così lo spirito che avanza creerà i propri ornamenti lungo il suo sentiero e porterà con sé la bellezza che lo visita e la canzone che lo incanta; disegnerà splendidi volti, caldi cuori, un saggio discorso, e atti eroici, attorno alla sua via, fino a che il male sparirà. Il regno dell’uomo sulla natura, un regno che viene non osservato, un dominio che oltrepassa il suo stesso sogno di Dio, si instaurerà suscitando nell’uomo una meraviglia non inferiore a quella del cieco cui gradualmente è restituita la vista perfetta»18. Con questa lunga autocitazione, il trascendentalista desidera chiudere il saggio portando così a considerare quanto sia auspicabile per l’uomo ovviare al «problema di restaurare l’originaria ed eterna bellezza del mondo […] attraverso la redenzione dell’anima»19. Allo stesso esito positivo pervengono gli eroi di alcuni titoli schraderiani, ovvero i protagonisti di quei film diretti in totale conformità a quanto teorizzato con Trascendental Style in film20. Fra questi troviamo sicuramente Julian Kay di American Gigolo: il suo è un destino positivo poiché coincide con la scoperta della grazia. Una volta smarcatosi dalla piattezza di un regime quotidiano riservato all’ottundimento di corpo e sguardo, incastrato da Leon, e incarcerato con l’accusa di omicidio, soltanto grazie a «un’esplosione di emozione spirituale totalmente inspiegabile»21 (l’evento decisivo — trapasso dalla scissione alla stasi) egli può finalmente dimostrare di saper assimilare il nesso che lega l’uomo al suo stesso essere, rinunciando così definitivamente al «bisogno […] di spezzare l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto che l’io è se stesso»22.
In American Gigolo la stasi, «quella scena inerte, immobilizzata o ieratica che segue l’evento decisivo»23 , è raggiunta col finale ambientato in prigione, un epilogo “bressoniano” come più volte ammesso dallo stesso Schrader. L’autore si cimenta infatti nell’esecuzione di un repertorio di tecniche impiegate sulla scorta dei procedimenti formali scelti dal regista francese per la scena conclusiva del suo Pickpocket [id., conosciuto anche come Diario di un ladro, 1959], individuando in quest’ultima un vero e proprio paradigma figurativo da riproporre per comunicare l’incontro dell’uomo con il trascendente.
NOTE
1. P. Schrader, Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer, a cura di Gabriele Pedullà, Donzelli Editore, Roma, 2010, p. 33.
2. Il disincanto espresso in American Gigolo circa la realtà della metropoli statunitense ottiene un riscontro autorevole con la diagnosi formulata dal filosofo francese Jean Baudrillard nel suo saggio del 1986: «Il miraggio del corpo è ovunque straordinario. È il solo oggetto sul quale concentrarsi, non già come fonte di piacere, ma come oggetto di smodate attenzioni, nella continua ossessione della decadenza e della cattiva prestazione, segno e anticipazione della morte, alla quale nessuno sa più dare altro senso se non quello della sua perpetua prevenzione. […] Bisogna dunque far dimenticare al corpo il piacere come grazia attuale, fargli dimenticare la sua possibile metamorfosi in altre apparenze, e votarlo alla preservazione di una gioventù utopica e in ogni modo perduta. Perché il corpo che si pone il problema della propria esistenza è già quasi morto, e il culto che attualmente gli si dedica, metà yogico, metà estatico, è una preoccupazione funebre. La cura che ci si prende del corpo vivo prefigura il maquillage delle funeral homes dal sorriso innestato sulla morte. Perché tutto sta lì, nell’innesto. Non si tratta né di essere e neppure di avere un corpo, ma di essere innestato sul proprio corpo. Innestato sul sesso, innestato sul proprio desiderio», J. Baudrillard, America, SE, Milano, 2000, pp. 46-47.
3. E. Lévinas, Dell’evasione, Cronopio, Napoli, 2008, p. 14.
4. Ivi, p. 17.
5. Ivi, p. 25.
6. Ivi, pp. 31-32.
7. Ivi, pp. 32-33.
8. Ivi, p. 33.
9. «Il narcisismo denota un investimento nell’immagine invece che nel sé. I narcisisti amano la propria immagine e non il proprio sé reale. Hanno un senso di sé debole, e non è in base a esso che orientano le proprie azioni. Ciò che fanno è piuttosto diretto a incrementare l’immagine, spesso a scapito del sé», A. Lowen, Il narcisismo. L’identità rinnegata, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 32
10. L’attitudine performativa che esibisce uno dei caratteri precipui dell’agire nel contesto sociale contemporaneo trova una compiuta teorizzazione nel pensiero di Judith Butler, secondo il quale «gli atti, i gesti e il desiderio producono l’effetto di un nucleo o di una sostanza interna, ma lo producono sulla superficie del corpo, attraverso il gioco di assenze significanti che suggeriscono, ma non rivelano mai, il principio organizzatore dell’identità in quanto causa. Questi atti, gesti, realizzazioni, generalmente costruiti, sono performativi nel senso che l’essenza o l’identità che altrimenti intendono esprimere sono montature fabbricate e mantenute attraverso segni del corpo e altri strumenti discorsivi», J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari, 2013 (edizione digitale).
11. A. Libera, Hard/core: di corpi e uomini, spazi e superfici nel cinema di Paul Schrader: https://specchioscuro.it/hardcore-corpi-uomini-spazi-superfici-nel-cinema-paul-schrader/
12. P. Schrader, Robert Bresson, Possibly. Interviewed by Paul Schrader, «Film Comment», September-October 1977, p. 30. [Traduzione del redattore]
13. R. Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia, 2008, p. 19.
14. A. Canadè, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood, Le Mani, Recco, 2004, p. 38.
15. «L’incontro principale nel cinema di Schrader è sempre quello con la donna. Come succede in Bresson (Jeanne in Pickpocket) e ancora prima in Dostoevskij (Sonja in Delitto e castigo) e in Dante (Beatrice nella Vita nova), quest’incontro rappresenta per il protagonista un’occasione di riscatto, una spinta dell’anima verso l’alto, un anelito a una diversa condizione dello spirito. E’ così in American Gigolo. Qui, il protagonista Julian Kay, un uomo incapace di provare alcun sentimento, si salva grazie all’amore dell’adultera Michelle, vera e propria figura cristologica che sacrifica la sua posizione sociale per la salvezza dell’uomo amato», A. Canadé, op. cit., p. 143.
16. «Tutto cominciò quando ero al Calvin College, un seminario nel Michigan. Da quel momento cominciai ad interessarmi ai film perché non erano permessi. Era il periodo de Il settimo sigillo e de La strada, e capii che quei film potevano essere adatti alla struttura religiosa della scuola e procurare un ponte tra l’esercizio della mia religione e il mondo proibito. I film nella nostra chiesa erano proibiti da un decreto sinodico del 1928 che li definiva come “intrattenimento mondano” a fianco del gioco delle carte, del ballo, del bere, del fumare e così via. Me la sono squagliata per vedere il mio primo film, Un professore tra le nuvole», R. Thompson, Screenwriter: Taxi Driver’s Paul Schrader. Interviewed by Richard Thompson, «Film Comment», March-April 1976, p. 6. [Traduzione del redattore]
17. «Il segno invariabile della saggezza consiste nel vedere il miracolo in ciò che è comune. Che cos’è un giorno? Che cos’è un anno? Che cos’è un’estate? Che cos’è una donna? Che cos’è un bambino? Che cos’è il sonno? Alla nostra cecità, queste cose sembrano prive di valore», R.W. Emerson, Teologia e natura, Marietti, Genova-Milano, 2010, p. 62.
18. Ivi, pp. 63-64.
19. Ivi, p. 61
20. Canadé distingue «pellicole come American Gigolo e Lo spacciatore» che «rientrano nella categoria della stasi […] e film invece come Taxi Driver, Affliction e Auto Focus che rientrano nella categoria dell’arte della scissione». Non tutta la produzione schraderiana, dunque, dà esempio di aderire integralmente all’estetica promossa dallo stile trascendentale.
21. P. Schrader, Il trascendente nel cinema, op. cit., p. 37.
22.E. Lévinas, op. cit., p. 17.
23. P. Schrader, Il trascendente nel cinema, op. cit., p. 72.