A seguito di quanto scritto ed evidenziato nella prima parte dell’articolo ci addentriamo ora in un dominio di alterità radicalmente distinto dai precedenti: in esso, libere dal paradigma contro-agentivo, queste immagini accumulano facoltà e conquistano una permanenza propria. Sono immagini di individui.
L’altro, l’individuo: The Elder Scrolls IV: Oblivion
Se il problema riguarda le possibilità dell’utente nei confronti del mondo di gioco, allora un’alterità più profonda non potrà che essere situata al di là dell’opposizione al progresso del fruitore: non si parlerà che di possibili nemici. Ecco quindi The Elder Scrolls IV: Oblivion (Bethesda Game Studios, 2006), uno dei più celebri esempi di mondo aperto in cui ogni personaggio secondario ha un preciso contesto sociale, familiare e narrativo all’interno del quale si muove per tutto l’arco della sua giornata, ripetendo un ciclo più o meno variabile di azioni coerenti col suo ruolo.1 Il negoziante, il locandiere, il cittadino: seguendo ciascuno di questi individui l’utente può farsi un’idea della sua storia, delle sue abitudini, delle sue caratteristiche. La sintesi diviene nient’altro che un orizzonte entro il quale si definiscono la semantica visuale e dialogica: lo spettro di possibilità che coinvolgono l’utente e questo altro non si riduce all’uccidere o essere ucciso,2 si estende anzi ben oltre il conoscere o comprendere e arriva ad aprirsi completamente – qualora colpissimo uno di questi personaggi ce lo inimicheremmo, qualora invece lo ignorassimo non sapremmo niente di lui né probabilmente avremmo mai niente a che vedere col suo ruolo, col suo mestiere, con gli spazi che abita; se invece decidessimo di conoscerlo potrebbe anche raccontarci la sua storia e spiegarci qualche suo bisogno, al che potremmo decidere se aiutarlo o meno. I personaggi di Oblivion sono dei nemici solo in potenza: esistono indipendentemente da noi (o per lo meno rendono l’impressione di farlo). Sono entità-nel-mondo che, per quanto semplificate, mantengono un certo grado di indipendenza (importante: non “autonomia”) all’interno del proprio contesto – la loro transitorietà e la loro contro-agentività sono virtuali, possibili ma non in atto, leggibili ma non necessariamente lette.
Questi personaggi non sono più dei meri ostacoli, tuttavia sono ancora il mezzo (sufficiente) per raggiungere uno scopo preciso: aiutarli, così come sconfiggerli, porta a un progresso nelle abilità del nostro avatar, mentre le restanti attività li piegano alla rappresentazione del mondo che li circonda. Conoscere una delle tante sagome di Oblivion, esaurire cioè le sue linee di dialogo e apprendere le sue abitudini, i suoi ambienti e le sue “frequentazioni” non ci avvicina a lei: ci mette piuttosto dinnanzi a un mondo di gioco più complesso e sfaccettato proprio grazie al contributo di questa singola figura. La moltitudine di cittadini che affolla le città principali del gioco non è il fine dell’esperienza virtuale, è il mezzo di una narrativa che fa del contesto e dell’ambiente i propri cardini strutturali: risolvere il problema di un negoziante è utile alla nostra progressione, conoscere la sua storia dà un contributo alla nostra comprensione dell’immagine del mondo cui appartiene. È ancora lo spazio di gioco a definire e approfondire queste alterità. Lo sottolinea Henry Jenkins, il quale parlando di “storie spaziali” e di “narrazioni ambientali” nota come la caratterizzazione dei personaggi all’interno di mondi simili sia ridotta allo stretto indispensabile, passi in secondo piano rispetto alla descrizione o alla presentazione di un cosmo elaborato e complesso nella sua totalità. Se in una certa dimensione ogni videogioco è frutto di un’architettura narrativa, quindi in prima istanza funzione di ambienti e spazi e soltanto dopo di personaggi e sagome,3 in Oblivion questo si traduce in una gemmazione di fantasmi coerenti, riconoscibili e tuttavia costretti ad agglomerarsi in una massa indistinta che è funzione del mondo di gioco in cui appare e si anima. Siamo quindi al di fuori della sintesi dell’altro nemico, ma sempre all’interno di un’alterità funzionale: il soggetto altro è medio tra l’azione trascendente del giocatore e l’ambiente in cui si manifesta, è un mezzo.4 Esso si genera nella prospettiva di una caratterizzazione in prima istanza ambientale, è parte di un mondo che si approfondisce e si popola, che vive anche attraverso le monadi che lo costellano. È una creatura individuale, in una certa dimensione indipendente, piegata però alla rappresentazione di uno spazio virtuale. Chiedendoci quali siano le mancanze di queste immagini, quale siano i loro desideri, ci troveremmo dinnanzi a dei risvolti propriamente etici: mancano loro la capacità di emanciparsi dalla propria funzionalità, la possibilità di scegliere esse stesse (attivamente) che cosa fare nei nostri confronti, una centralità che le renda soggetti virtuali, e non pseudo-soggetti disseminati in un mondo virtuale – che le renda il fulcro ultimo dell’esperienza, a prescindere dalla caratterizzazione e formulazione dello spazio in cui essa si compie.
L’altro, il fine: Undertale
Undertale (Toby Fox, 2015) racconta di un bambino che cade in una grotta segreta, ritrovandosi in un mondo sotterraneo popolato da mostri. Nel tentativo di raggiungere la superficie il piccolo (interpretato dal giocatore)5 si fa strada tra innumerevoli personaggi buffi, bislacchi, a volte spaventosi: sono la solidificazione di una cultura immaginale che dalla rete ai giochi di ruolo più classici si capovolge in un calderone eterogeneo e schizofrenico di spettri e macchiette – ammassi di pixel spesso informi, duplici, bambineschi, tanto semplici e riconoscibili quanto destabilizzanti. Delle immagini sintetiche, dal punto di vista iconografico quanto interattivo: che incarnano cioè la figura canonica del mostro (di nuovo, del nemico), un avversario che appare all’improvviso e che trasporta l’utente in uno spazio altro (la sintesi di un’arena) in cui cercherà di ostacolarlo e dovrà essere annientato.
Una rana nel mondo dei mostri è un Froggit: una creatura che sembra avere due facce, una posta sul busto e l’altra invece tra le zampe. Se da una parte il suo aspetto, tremendamente grezzo, è senz’altro uno specchio della sua psicologia (come vedremo in seguito) dall’altra esso è consapevolmente sintetico: un residuo simbolico in cui la sembianza viene ridotta a iconema, che fa animare una fantasia infantile e indefinita grazie a un ammasso di pixel incolori.
Immagini che, il fruitore lo scopre man mano che avanza nel corso dell’avventura,6 sono tutt’altro che piatte o stereotipate (o archetipiche) come sembrano. Tutto Undertale è infatti teso alla sistematica e costante disintegrazione della propria apparente sinteticità, e nello specifico dell’apparente sinteticità dei propri personaggi, fulcro vivo dell’esperienza di gioco. Essi non sono semplici nemici: ognuno è in possesso di caratteristiche uniche, non solo estetiche e offensive ma anche e soprattutto emotive – lo “scontro” non è altro che un’interazione tra il protagonista e le creature, i cui tentativi di comunicazione sono simbolicamente stilizzati dagli attacchi che ci vengono lanciati a schermo (la “magia” dei mostri). All’interno dello “scontro” si dà quindi non solo la possibilità di agire nel tentativo di sopraffare l’avversario, ma anche di provare a istaurare un dialogo di qualsiasi tipo7 – toccare l’altro, consolarlo, spaventarlo, osservarlo, reagire ai suoi stimoli o stimolarlo a nostra volta. La battaglia è solo una tra le vie che ci vengono fornite: in particolare assume i caratteri propri di un’interpretazione – gli “attacchi” dei nemici non sono altro che il loro tentativo di comunicare con noi, ma di questo possiamo essere consapevoli o meno, e in base a questo possiamo scegliere di rispondere con la violenza oppure no.
Fight, Act, Item, Mercy: le scelte operabili durante l’interazione con l’avversario variano dalle più canoniche (fight – attaccare il nemico, item – utilizzare un oggetto curativo) alle varianti più significative proposte dal titolo. Act in particolare consente di ispezionare il nemico o di compiere alcune singolari azioni che lo coinvolgano, dal tentativo di abbracciarlo allo sbeffeggiamento, dall’assunzione di un comportamento consolatorio al raccontare una barzelletta; Mercy porta invece alla possibilità di ritirarsi e fuggire o di avere pietà della creatura avversaria, risparmiandola e lasciando che si allontani.
Sprofondare nel dominio delle immagini (il dominio dei mostri)8 non significa più addentrarsi in un cosmo che si oppone all’azione del giocatore, che lo attornia e cinge d’assedio, piuttosto inizia a definirsi come un incontro tra il dominio dell’utente e il mondo finzionale (contestualizzato col pretesto del reame proibito). Incontro che si rende consapevolmente diegetico, che appartiene alla dimensione del testo più che alle sue caratteristiche, che riformula l’immagine dell’altro a partire dai presupposti che abbiamo analizzato finora donandole però una profondità nuova, emotiva e psicologica quanto epistemologica. Queste alterità sono ognuna caratterizzata da propri bisogni e proprie paure, ognuna paralizzata dai propri limiti: conoscerle implica uno sforzo costante, interpretativo ed empatico oltre che simbolico – ci è richiesto non solo di andare incontro ai bisogni dell’altro, ma anche di decifrare i suoi desideri al di là della semplificazione e sintesi entro cui vengono formulati. Stare al gioco,9 in questo senso, vuol dire accettare il fatto che malgrado tutte queste semplificazioni e stupidità queste immagini possano nascondere ben più che un abisso, possano fare ben altro che lacerare gli ordini di sintesi in cui compaiono – possano, in poche parole, pretendere di essere reali e di venir percepite come tali. In questo senso Undertale procede per svelamenti progressivi. Da questo punto di vista la prima “boss fight” del titolo è fondamentale per comprenderne alcune dinamiche.
Nel corso di un’ideale prima partita il giocatore si trova dinnanzi Toriel, amorevole madre adottiva, che gli impedisce di proseguire nel suo cammino verso la superficie. La creatura dice di star agendo per il bene del protagonista, ma questo non può essere certo: di fatto lo sta “attaccando”, impedendogli di oltrepassare la soglia della prima ambientazione del gioco. Se la salute dell’avatar scende oltre un certo valore, Toriel si rifiuta benevolmente di attaccarlo: i suoi colpi evitano lo sprite del cuore che l’utente utilizza per schivare i proiettili magici che gli vengono riversati contro, così da impedirgli di morire – una dinamica di gameplay che rigetta l’agonismo ancor più drasticamente di quanto non si è visto per lo scontro con Sif nel primo Dark Souls. A questo punto, impossibilitati a venir sconfitti (e consci o meno di ciò) i fruitori potranno scegliere se combattere Toriel oppure parlare, oppure ancora rifiutarsi di fare entrambe le cose. Lo svelamento più drastico è quello che avviene nel caso in cui si scelga, in piena osservanza della tradizione videoludica, di trattare Toriel come un nemico – ossia di attaccarla finché non viene sconfitta. È importante sottolineare che ciò avvenga non solo nella circostanza in cui l’utente scelga di essere cattivo, decidendo quindi consapevolmente di uccidere l’amorevole mostriciattolo, bensì soprattutto nel caso in cui si agisca per comodità, oppure per abitudine: presupponendo quindi di avere a che fare con un’immagine, e più nello specifico con un’immagine videoludica, incastonata in una griglia di archetipi e regole ben precise. A questo punto, a sorpresa, la creatura non viene solo sconfitta ma muore: la divertita e dinamica musica dello “scontro” si ferma di colpo e al suo posto incombe il silenzio. Il ritmo si spezza e Toriel si rivolge al protagonista con le sue ultime e drammatiche parole. La più comune reazione è quella dello sgomento: probabilmente non ci si sarebbe aspettati che morisse sotto i colpi infertigli. Sempre in riferimento a cliché e strutture archetipiche, avremmo data per scontata una ritirata dell’ultimo secondo, una sequenza animata in cui la povera sventurata si sarebbe detta consapevole della sua inferiorità e avrebbe lasciato proseguire nel suo viaggio il figlio adottivo. Undertale pone prepotentemente sul giocatore il peso delle proprie azioni: il disvelamento così, più che abissale e più che vertiginoso, si risolve in un senso di colpa che è tale proprio perché possibile. L’utente capisce che avrebbe potuto risparmiare Toriel e realizza invece di averla crudelmente uccisa, proprio mentre questa non cercava di far altro che proteggerlo. Il suo è stato un errore: ha scelto di fare una cosa e invece avrebbe potuto farne un’altra. Tutta la responsabilità si sostanzia in un gesto decisivo, emergenza e manifestazione di una visione del mondo ben chiara. L’eliminazione dell’altro diventa un momento significazionale, si libera della propria funzione sintetica e non coincide più con una generica agentività sostanziata nel dominio virtuale: assume un senso, viene abitato, conquista il proprio peso.
«Il gesto va abitato come fosse parte integrante del nostro ‘essere-nel-mondo’: (…) nel gesto è depositata la forma-di-vita di un linguaggio»10 – in Undertale il gesto non è più una mera agenza su un mondo virtuale, ma un momento di estrema importanza, determinante.
Il transito tra “fai il bravo bambino e torna su” e “dimostrami che sei abbastanza forte per sopravvivere” nelle parole di Toriel prepara il campo al ribaltamento che segue: la creatura si comporta in modo tanto ambiguo da far sorgere dubbi circa la sua sincerità. Quando la sua espressione muta radicalmente durante lo scontro e i suoi attacchi schivano il giocatore, ci si rende conto che qualcosa non va: a questo punto che si decida o meno di risparmiarla non ha importanza – la sua alterità si è già svelata profonda e abissale, radicale.
L’esperienza di gioco, potendosi ripetere e mutando di continuo in base alle scelte del giocatore, lo pone dinnanzi a innumerevoli possibilità – le sagome che lo circondano cambiano, scelgono di comportarsi in modo diverso. Il dominio immaginale dell’Underground (il regno dei mostri) è tanto limitato quanto teso a scartarsi di continuo, a rimodellarsi. I fantasmi di questo mondo non hanno alcuna funzione se non quella di rendere presente all’utente la tangibilità delle proprie azioni: sconfiggerli porta a un beneficio, sì, ma non è grazie a questo beneficio che raggiungiamo più semplicemente la fine della storia (la fuoriuscita dal mondo delle immagini) – raggiungiamo semmai una fine diversa. Ecco che lo spettro di possibilità, aprendosi, cessa di predeterminare il mondo virtuale: la contro-agentività è solo uno dei paradigmi possibili. Questi altri sono il fine dell’esperienza di gioco, non il suo mezzo. Il senso della discesa del nostro avatar nel loro inferno non sta nella sua risalita, nel “completamento” del testo, ma nell’incontro con le sagome disseminate sul suo cammino – nella conquista di un’azione significativa, tanto pesante da stravolgere qualsiasi paradigma di agentività preesistente. L’attuazione di un gesto simile si scaglia contro la struttura spaziale: è dall’uccisione dell’altro (nel caso che abbiamo analizzato) che si genera un significato altrimenti assente, non dallo spazio di gioco e dalla sua narrativa. In Undertale l’utente è chiamato ad abitare un gesto e a comprendere delle sagome, non a conoscere un mondo e le monadi che lo animano. Siamo allora dinnanzi a un annullamento di spazialità: l’ambiente virtuale e quello reale collassano nella trasversalità dell’agire del fruitore: «l’atto di giocare media tra i giochi e il mondo reale»11 producendo significati, ma soprattutto immagini e sagome che emergono da una terra di mezzo inesistente e non topografabile, situata tra spazio reale e mediale.
Cosa possono volere queste immagini ancora, se non avere un corpo come quelle di cui parla Mitchell? La risposta ci viene sorprendentemente suggerita prima della nostra fuoriuscita dall’Underground. Se scegliamo di uccidere ogni mostro sul nostro cammino (ancora una volta è fondamentale notare che ciò di cui stiamo per parlare è solo uno degli esiti possibili dell’esperienza di gioco) approfondiamo la conoscenza di Flowey, un personaggio piuttosto particolare che sembra in grado, analogamente al nostro avatar e a noi, di trascendere lo spazio-tempo dell’Underground e di aleggiare trasversalmente sulle varie partite, cioè sulle varie versioni della storia che noi siamo in grado di creare in base alle nostre decisioni. Egli ci racconta di come la prima volta abbia scoperto questo suo potere (la rigiocabilità del mondo virtuale viene inserita con estrema coerenza nel tessuto diegetico) e di come in seguito abbia attraversato fasi alterne fino al momento in cui, arrivato all’ennesima “partita”, ogni personaggio non ha iniziato a sembrargli prevedibile. A questo punto, “per vedere cosa sarebbe accaduto” ha deciso di uccidere un mostro. Di lì si è trasformato nello spettro crudele che è adesso, teso a sterminare chiunque trovi sul suo cammino col solo scopo, disperato, di uscire dal sottosuolo (e quindi dal gioco). La sua è una figura fondamentale per la nostra analisi: egli è un utente del mondo virtuale quanto lo siamo noi. Il suo percorso è analogo a quello di un giocatore che manipola lo spazio-tempo del testo fino alla noia, spinto dalla voglia di sperimentare nuove possibilità delle immagini che ha dinnanzi. Siamo alle prese con l’apice dell’alterità virtuale: un’immagine che ci somiglia.
L’altro, il fantasma
Alcuni dei più celebri espedienti meta-testuali della storia dei videogiochi chiariscono come il potere del giocatore sia unico in quanto, come accennato in apertura e a differenza di tutte le sagome dialogiche in cui si imbatte quando accede al mondo virtuale, in grado di situarsi al di là del dominio immaginale in cui agisce. La sua agentività è trascendente. Si pensi allo Psycho Mantis di Metal Gear Solid (Konami, 1998), impareggiabile telepate che può essere eluso disattivando il proprio controller e attaccandolo a un’altra delle porte disponibili sulla console, oppure ancora a The End di Metal Gear Solid 3: Snake Eater (Konami KCEJ, 2004), che muore “di vecchiaia” lasciando la console accesa per otto giorni consecutivi (oppure modificando manualmente l’orologio interno della macchina): povere sagome impotenti, umiliate e sbeffeggiate da un’entità più grande e consapevole di loro e in grado di ricorrere a mezzi esterni dall’ambiente in cui esse vivono per sconfiggerle.
I poteri telepatici di Psycho Mantis gli consentono di partecipare esplicitamente alla sintesi tra reale e finzionale in atto nella virtualità: è in grado, per esempio, di “leggere” le partite salvate dal giocatore nella memory card della sua console. Tuttavia le sue facoltà sono limitate: può prevedere le azioni dell’utente qualora arrivino da una stessa sorgente di input (la porta in cui è inserito il controller) ma non riesce più a farlo nel momento in cui si sceglie di cambiarla.
Flowey in questo fa eccezione: è riuscito, analogamente al giocatore, a elevarsi al di sopra del testo in cui si trova. Ha un proprio file di salvataggio, sopravvive ai vari reset del mondo di gioco, racconta di aver in prima persona giocato più partite. Ecco che l’alterità più radicale delle immagini virtuali è quella del fantasma: di un’immagine tanto sviluppata da somigliare a quella del giocatore e da avere le sue stesse libertà nei confronti del dominio finzionale, un’immagine indipendente dal mondo di gioco per quanto in esso generata e agente. Se non fosse inserita in precise dinamiche narrative, la sagoma di Flowey potrebbe essere quella di un altro giocatore, di un fantasma che similmente a noi agisce entro il bilico che separa la realtà dalla finzione, un’entità trascendente. Esempi di questo tipo, al di là di Undertale, fioccano nei videogiochi dotati di una componente online. Non è difatti errato identificare ogni avatar coinvolto in un rapporto virtuale con alcuni suoi simili come una sintesi visuale trascendente, di nuovo come un fantasma. In un videogioco online ogni giocatore è visto da tutti gli altri come un elemento testuale altro e astratto, come Flowey – agisce nel mondo virtuale ma in base a dinamiche anche reali, scompare e riappare a suo piacimento, sopravvive nonostante il suo personaggio muoia. Stessa cosa si può riscontrare per quanto riguarda l’avatar del giocatore: uno spazio di responsabilità agente e osservabile, permanente, la cui evoluzione è sancita dalle scelte e dalle azioni dell’utente che lo controlla – un soggetto-protesi a sé stante,12 altro quanto le sagome (non controllabili, aliene) che lo circondano, una creatura dell’utente che tiene memoria di ogni sua azione. L’online è l’ultima frontiera dell’alterità virtuale: una risonanza orgiastica di fantasmi che appaiono e scompaiono, che seguono regole ma possono infrangerle,13 che fanno parte di un testo ma possono uscirne in qualsiasi momento. In questo dominio la differenza tra umano e artificiale si smarrisce del tutto: distinguere l’avatar di un altro giocatore dall’avatar di un bot programmato per agire analogamente agli utenti in carne e ossa diventa un problema da non sottovalutare.
Alcuni titoli citano consapevolmente la natura fantasmatica delle interazioni tra giocatori. È il caso della serie Dark Souls (FromSoftware, 2011-2016), in cui l’invito di un altro utente nella propria partita coincide con l’evocazione di uno spettro muto, silenzioso e monocromo. Qua la distanza tra umano e artificiale va a sopprimersi del tutto: evocare un altro utente o uno dei personaggi preconfezionati all’interno del mondo di gioco è identico. Nell’immagine: Dark Souls II (FromSoftware, 2014).
Gli avatar dei giocatori sono delle solidificazioni sintetiche di entità terze, che esulano dal mondo e dalle sagome in esso rappresentate. Sono immagini di cui si fa esperienza, che al tempo stesso sembrano in grado di fare esperienza esse stesse: sono, in poche parole, dotate di un corpo virtuale – agente, percepente, permanente. Al suo massimo grado di profondità, questa alterità configura immagini che possiedono ciò che è sempre stato proibito alla visualità tradizionale. Conquistando la trascendenza questi altri sono definitivamente liberi dal giogo dello spazio, sono delle immagini-mondo e non più delle immagini-nel-mondo o del-mondo, sono a loro volta degli universi all’interno dei quali smarrirsi, eccedenti per definizione l’ambiente virtuale. L’esempio di Dark Souls in questo senso è paradigmatico. Qualora si scelga di giocare online non solo si acquisisce la facoltà di evocare altri giocatori nel proprio mondo in forma di fantasmi (fig.31), ma l’ambiente virtuale tutto inizia a popolarsi di tracce, di sagome evanescenti, di segnali: vediamo altri fruitori che appaiono istantaneamente per venir uccisi da entità a noi invisibili, spettri semitrasparenti che si aggirano per lo spazio di gioco compiendo le azioni più disparate, linee di testo enigmatiche tracciate a terra da chissà quale altro utente. Il nostro mondo si trasforma in una bolgia di piani paralleli in cui si incrociano fortuitamente più esperienze di fruizione: un multiverso fantasmatico e popolato da frammenti di più storie, di differenti trascorsi. Ecco che le sagome con cui abbiamo a che fare, pur appartenendo allo spazio di gioco e asservendosi alle sue regole,14 sono completamente altre rispetto allo stesso – almeno quanto lo siamo noi.
Chiudiamo la nostra trattazione con un ultimo esempio.
Nel finale di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (Konami KCEJ, 2001) il protagonista, Raiden, scopre di essere stato una pedina coinvolta in un meccanismo ben più grande: ogni azione, relazione o emozione provata durante il corso dell’avventura è stata parte di una simulazione costruita ad hoc. Scopre, in poche parole, di trovarsi sotto il dominio di un’entità che è stata in grado di controllarlo e di fargli vivere ciò che ha vissuto: l’utente appunto. Il personaggio affronta una crisi: non sa più chi sia, che cosa sia stato “reale” oppure no. Un suo compagno lo invita a fare tesoro di quanto accaduto nonostante tutto: di non curarsi della linea che distingue la realtà dalla finzione ma di rendere preziose le emozioni provate, “vere” o artificiali che fossero, in modo da poterle un giorno raccontare a chi prenderà il suo posto. Il protagonista allora si toglie dal collo la piastrina militare che si è ritrovata addosso una volta uscito dal terreno simulativo: c’è inciso sopra il nome dell’utente. Non conoscendo quel nome, Raiden getta via la piastrina. La sua vita sarà svincolata da quella di chi lo ha guidato finora. A questo punto il racconto finisce e scorrono i titoli di coda.
Cosa ne sarà di Raiden dopo il suo “rifiuto” del giocatore? La sua è un’alterità che sopravvive alla nostra scomparsa, eppure il testo si chiude. Se dovessimo immaginare una sua continuazione probabilmente sarebbe cinematografica, non comporterebbe cioè l’intervento attivo del fruitore – il che ci rimanderebbe alle immagini tradizionali, al desiderio di un corpo e al panorama volitivo tratteggiato in apertura come a un susseguirsi di corsi e ricorsi, un eterno ritorno teso tra la pervasività e la sintesi.
È però questa una prospettiva erronea e che allinea due esperienze mediali radicalmente distinte, per quanto prese in un rapporto di continua interdefinizione: di fatto, il testo finisce e non può essere altrimenti. Raiden, svincolato dall’agenza sintetica che lo ha avvicinato al compimento del suo percorso, non può che svanire – apparirà altrove, ma non potrà che essere qualcos’altro. Il desiderio ultimo delle immagini virtuali, diremo allora, è tanto quello di estrarsi dai propri ordini sintetici quanto quello, più fondativo, di cessare di essere immagini. L’ultima frontiera dopo l’acquisizione della trascendenza e del corpo all’interno del dominio visuale, al di là della capacità di formulare e percepire la visione oltre che farne parte, non può risolversi in un ricorso alla natura “tradizionale”. Punta bensì a un altro tipo di esclusione, a un differente rigetto. Nel momento in cui Raiden lancia via le sue piastrine egli accetta la possibilità di costruirsi un proprio avvenire. Tale costruzione avverrà altrove, fuori. Il suo avvenire lo annulla in quanto immagine, lo riafferma in quanto mondo – un mondo che prescinde dall’immagine e che prescinde dal testo, che collassa, un mondo fantasma. Non sorprende allora la scoperta della meta ultima di queste alterità: l’annichilimento. Leggiamo in quest’ottica la scelta della Joi di Blade Runner 2049 [id., Denis Villeneuve, 2017], già menzionata nella prima parte dell’articolo, di correre il rischio dell’obliterazione. Una decisione che si compie nel segno di un’esigenza chiara, trasversale a ogni sagoma della virtualità: quella di uscire dal ciclo eterno delle proprie riproposizioni e dei propri trascorsi, di raggiungere il fuori-testo. Là, in un’irreale terra di nessuno, finalmente potremo incontrarla e fare esperienza di lei a prescindere dal mondo in cui si è generata.
Ricordandoci a proposito di questa irrealtà le parole di Jacques Derrida, «Non c’è niente al di fuori del testo», non possiamo che assistere alla trasformazione di questa fuoriuscita dall’immagine in una brama di morte – ecco che quando Joi viene distrutta, tragicamente, siamo portati a dire che ha ottenuto ciò che voleva.
NOTE
1. Entità come quelle che popolano Oblivion sono ben distinte dai fantocci della serie Grand Theft Auto, che si limitano a percorrere determinati spazi senza però possedere trascorsi, possibilità di interagire o parlare col protagonista o altro. Qualcosa di simile si osserva in titoli come Deadly Premonition (Access Games, 2010), in cui ogni sospetto della cittadina di Greenvale compie una serie di spostamenti e azioni durante tutto l’arco di una giornata di gioco, in base ovviamente al proprio background e alle proprie caratteristiche.
2. In this world it’s kill or be killed sogghigna ironicamente Flowey in Undertale, riferendosi alla testualità videoludica tutta più che ai lineamenti del singolo testo in cui compare.
3. Cfr. Henry Jenkins, “Game Design as Narrative Architecture”, in Noah Wardrip-Fruin, Pat Harrigan (a cura di), First Person. New Media as Story, Performance, and Game, Cambridge, The MIT Press, 2004, pp. 118-130.
4. Ci si volesse attenere all’imperativo kantiano saremmo costretti a opporci radicalmente allo sviluppo testuale del gioco: avere come fine della nostra esperienza virtuale uno dei personaggi di Oblivion equivarrebbe a imporre nel gioco un regolamento arbitrario, personale.
5. Cfr. Ruggero Eugeni, Massimo Locatelli, “Gaming: Profilo di un’Esperienza Mediale tra Ludologia e Filmologia”, Bianco e Nero, Fascicolo 564, Maggio-Agosto 2009, p. 35.
6. O delle avventure, essendo il gioco ampiamente consapevole della propria rigiocabilità. I vari modi che si hanno a disposizione per portare a termine il titolo coesistono in un universo che li vede (e li elabora) come dimensioni spazio-temporali coesistenti e succedenti. Accade quindi che un giocatore si veda rinfacciata un’azione compiuta durante una delle partite precedenti e che questo sia non una mera rottura della quarta parete, ma una scelta narrativa sensata, coerente e contestualizzata nella narrazione.
7. Le meccaniche della serie Shin Megami Tensei, che prevedono la possibilità di un’interazione non violenta con le creature avversarie, vengono qua ampliate e approfondite fino a tramutarsi in un approccio a tutti gli effetti empatico.
8. L’ingresso in una realtà misteriosa e ignota, la discesa in un girone infernale immaginale è topico nella narrativa videoludica: dal già trattato What Remains of Edith Finch al più celebre esempio di Metroid (Nintendo, 1986) e passando, solo tra i titoli già citati, per la serie Dark Souls, per Deadly Premonition, per le distopie di BioShock o per le lande sterminate e proibite di Shadow of the Colossus.
9. Cfr. Bernard Suits, The Grasshopper. Games, Life and Utopia, Toronto, University of Toronto Press, 1978, p. 41.
10.Fulvio Palmieri, Wittgenstein e la grammatica, Milano, Jaca Book SpA, 1997, p. 119.
11. Julian Kücklich, Play and Playability as Key Concepts in New Media Studies, “Playability”, 2004.
12. Cfr. R. Eugeni, M. Locatelli, op. cit., p. 35.
13. O addirittura produrne di nuove: si pensi alle numerose community di giocatori che agiscono sul codice di un titolo per modificarlo o produrre opere a sé stanti e completamente indipendenti dal testo di partenza.
14. In Dark Souls ci si può esprimere soltanto con gesti preimpostati o combinando frasi a partire da slot sintattici preconfezionati.