Sulla scorta dell’ Abécédaire di Gilles Deleuze, abbiamo sottoposto ai registi in concorso al Laterale Film Festival 2019 (7-9 giugno a Cosenza) alcune parole attraverso cui spiegare il proprio modo di concepire il cinema e di vedere il mondo.
Efeso – Alberto Baroni
LINGUAGGIO
Mi sono inventato una lingua per due ragioni fondamentali: da un lato, sentivo la necessità di convertire il parlato in suono puro, di trasformarlo sostanzialmente in colonna sonora o in tono dominante; dall’altro, ero interessato a muovere l’attore all’interno di un contesto scomodo, a inserirlo in una situazione nella quale l’intenzione espressiva e interpretativa si azzerasse. Gli interpreti di “Efeso” non sanno quel che dicono, leggono o memorizzano il testo e lo restituiscono come puro agglomerato di fonemi: in questo modo, il corpo dell’attore diventa un elemento tra i tanti, una presenza in armonia con lo spazio scenico e, talvolta, addirittura subordinato a esso. Raggiungere un equilibrio efficace è molto complicato, perché le tre dimensioni in atto (testo, suono, immagine) descrivono traiettorie indipendenti, e solo in un punto preciso del film si toccano (il dettaglio sulla bocca dell’Emissario), per poi separarsi di nuovo. Mi piacerebbe che lo spettatore entrasse in uno stato contemplativo e meditativo, che si rendesse conto del fatto che il film si muove su un piano multi-dimensionale e che la soglia di attenzione richiesta è molto alta. Anche lui, come gli attori, si trova in una posizione scomoda!
MITO
Quando ho scritto “Efeso”, avevo in mente Eraclito: il grande filosofo era seguace e amico di Ermodoro di Efeso, il sovrano che rifiutò la sottomissione ai persiani del re Dario e che introdusse nella sua città un sistema di governo di tipo isonomico, e cioè un ordine basato sul concetto di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Quando i concittadini di Eraclito voltarono le spalle alla costituzione democratico-isonomica istituita da Ermodoro, il filosofo si ritirò sdegnato sull’acropoli e non volle più vedere nessuno. In qualche maniera, la vicenda di Eraclito richiama il presente, teatro della rottura di ogni equilibrio egualitario e dell’apologia degli egoismi contrapposti. Ho spostato la vicenda di “Efeso” in un futuro imprecisato, in un mondo che sta per essere ricostruito da governanti che rischiano di commettere quegli stessi errori che hanno provocato il disastro globale. Efeso si allontana dal centro del potere, convinto che l’immersione in una ricerca spirituale individuale costituisca il compimento del proprio destino, e allo stesso tempo soffre per un conflitto non risolto con il padre, il sovrano Creso, che in qualche modo rappresenta la dimensione sociale, le radici, l’attaccamento, il senso di appartenenza. Storia, Mito e linguaggio archetipale s’intrecciano: lo spirito stesso del film, in fondo, oscilla continuamente tra queste differenti dimensioni della nostra esistenza.
SPERIMENTAZIONE
La mia sfida è stata quella di evocare il concetto di eternità in una dimensione di temporalità: il tempo è tiranno con Efeso che, alla fine della sua vita, è pieno di rimpianti; il cinema è una modulazione di tempi e durate, rinchiuse in un segmento. L’eternità si dipana nello spazio attraversato dalla bambina, che raccoglie il testimone di Efeso per portarlo oltre la sua esistenza materiale. Questa figura animica è l’essenza stessa di Efeso, non ha nascita né morirà mai (come suggerisce l’Emissario, mentre recita lo scritto dell’eremita). La moderna fisica ci insegna che il tempo non esiste: il cinema, nel suo tentativo di inventare e modulare le durate, in qualche maniera si avvicina a questo concetto.
Luminous variations in the city skies – Giuseppe Spina
ARCHETIPO
la lastra fotografica porta con sé l’opacità del silenzio e della trasparenza. il frammento è l’inizio, è cenere, e la macchia ne è il segno, l’impronta. Nella radice della roccia sta radicato il buio, un punto bianco al nostro occhio (in) negativo. Ma “la notte è anche un sole” e la macchina vede e apre a possibilità infinite, sovrumane.
***
ESPERIMENTO
Ogni film è un solo istante, il presente. In questo film l’intensità spazio-tempo è data per sovrapposizione e annientamento, non per contiguità.
Ho incontrato queste lastre fotografiche nella piccola stanza di un sotterraneo della Torre della Specola di Bologna. Stavo girando un altro film, Impressio in-urbe (che con LV creano un dittico sulla città), e ho aperto una delle casse di legno ricoperte di terra e polvere. Le lastre stavano chiuse lì dagli anni ’50, quando Guido Horn le scattò per mettere alla prova il suo sistema di visione ottico, lo “specchio a tasselli” che oggi viene chiamato “multimirror”. Si può dire che Horn abbia creato un enorme obiettivo fotografico, con strumenti nuovi e replicabili. Ho fotografato e ripreso circa 3 mila lastre, mettendole in relazione tra loro, cioè riconoscendo questi piccoli punti neri (le lastre sono in negativo), un lavoro minuzioso di parecchi mesi. E mentre lavoravo a questi materiali il film veniva fuori, tanto nei tagli interni ai quadri quanto nel movimento e nella musica che, silenziosa, si genera all’occhio.
Il ritmo stesso del film è “squadrato”, non ci sono panoramiche, non ci sono lunghe pause, non è un ritmo umano, c’è qualcosa di scientifico dietro che domina l’umano, qualcosa di stranamente scientifico ma non oggettivo, che segue la forma e il rumore del materiale e delle atmosfere in cui è stato creato.
Credo che l’esperimento, per esser tale, non debba essere legato al nuovo o al vecchio, non debba pagare alcun prezzo a nulla e a nessuno. La storia non esiste. La memoria è solo un piccolo frammento dell’essere. Il denaro e l’industria manifestazioni del ridicolo. La natura lo sa, ed è per questo che ci surclassa e seppellisce tutti. Credo che ogni esperimento debba essere prima di tutto un atto di ricerca soggettivo, potrà essere accettato da pochi o da tanti o restare la prova di un individuo solitario, non ha alcuna importanza.
***
OCCHIO
L’occhio è l’essenza stessa del limite e il confine. Sono interessato a questo confine e a ogni genere di sconfinamento. Empedocle vide il fuoco dentro l’occhio, così come è all’interno della Terra, fuoco e acqua.
***
Viaggio – Alex Morelli
NEOREALISMO
Il neorealismo italiano si è spesso impegnato a ritrarre le rivolte dei lavoratori durante o dopo uno sconvolgimento politico. Sono stato immediatamente attratto da quest’etica la prima volta che ho visto i film di Rossellini e di De Sica durante il college. Ma penso che ciò che ha avuto maggior risonanza per me sia stato il modo in cui in questi film recitavano attori non professionisti in reali ambientazioni, dove il confine tra finzione e documentario diventava molto sottile.
Ho visto Paisà e Viaggio in Italia solo nelle settimane precedenti al mio viaggio d’oltreoceano. La mia ragazza di quel momento stava studiando all’estero in Europa e abbiamo deciso all’ultimo minuto di ritrovarci in Italia per il Ringraziamento. Sapevo che era necessario documentare questo viaggio con la mia Bolex, perché credevo che sarebbe stato un momento determinante per la nostra relazione – come lo era stato per Katherine (Ingrid Bergman) e Alex (George Sanders). E così ero ossessionato anche dal creare un contatto con Rossellini e i momenti finali e rivelatori di questi personaggi, insieme sullo schermo. Ho imparato che Maiori, un paese della costiera amalfitana dove si svolge la tradizionale processione religiosa, era una location frequentemente ripresa da Rossellini. Appare anche in Paisà, Il Miracolo e La macchina ammazzacattivi, come uno sfondo che inizia a creare ognuno dei suoi personaggi. Abbiamo fatto il viaggio a Maiori un freddo giorno di Novembre. Le strade erano silenziose e molti negozi e ristoranti erano chiusi per la bassa stagione. Ho cercato disperatamente la strada per la quale Katherine ed Alex giravano mentre discutevano sul futuro della loro relazione, ma ogni cosa sembrava un po’ diversa. Il tempo era passato. Ci eravamo seduti in piazza e guardavamo quelle poche persone che vivevano la loro vita quotidiana, chiedendomi se qualcuno di loro ricordava il film di Rossellini girato mezzo secolo prima. Al di là di una manciata di canne da pesca rivolte verso il mare, Torre Normanna appariva in lontananza, un rimando ad un’altra tragica coppia di Rossellini, Joe e Carmela. Si riparavano nella torre nella scena iniziale di Paisà, lottando per superare le loro barriere linguistiche. Maiori sembra un luogo dove la comunicazione minaccia costantemente di indebolirsi.
Sotto molti punti di vista, Viaggio in Italia di Rossellini è un’anomalia neorealistica, poiché concentra l’attenzione su una benestante coppia straniera invece che su una classe di lavoratori italiani (sebbene i pescatori siano sempre presenti nella colonna sonora, sin dal primo sguardo del Vesuvio e del Golfo di Napoli). E allo stesso modo il mio film, Viaggio, è lontano dal viaggio tradizionale, dal momento che la narrazione è stata registrata molti anni dopo il mio viaggio e giustappone una rottura avvenuta in circostanze diverse. Entrambi, forse, sono una sorta di home movies – pare che, al momento della produzione, il rapporto tra Rossellini e la Bergman stesse agli sgoccioli. Leggila in questo modo, essi diventano documenti non solo del luogo e del tempo, ma anche del regista. Le sfumature politiche del neorealismo, invece, diventano personali.
NEOREALISM
Italian neorealism is often associated with a commitment to portraying the struggles of working class people during or after political upheaval. I was immediately drawn to this ethic when I first saw films by Rossellini and De Sica during college. But I think what resonated with me the most was the way these films often collaborated with non-professional actors in real locations, where the boundary between fiction and documentary becomes most thin.
I watched Paisan and Journey to Italy only weeks before my own trip overseas. My girlfriend at the time was studying abroad in Europe, and we decided last minute to reunite in Italy over Thanksgiving. I knew I needed to document this trip with my Bolex, believing this would be some formative moment in our relationship — as it was for Katherine (Ingrid Bergman) and Alex (George Sanders). And so I was also obsessed with making contact with Rossellini and these characters’ final, revelatory moments together on screen. I soon learned that Maiori, the Amalfi village where the climatic religious procession unfolds, was a frequent shooting location for Rossellini. It also appears in Paisan, Il Miracolo, and La macchina ammazzacattivi as a backdrop that begins to take on its own character. We took a trip down to Maiori on a cold November day. The streets were quiet and most shops and restaurants were closed for the offseason. I searched desperately for the road that Katherine and Alex turn onto while arguing over the future of their relationship, but everything looked a little different. Time had marched on. We sat in a plaza and watched the few people going about their day, wondering if anyone remembered Rossellini’s movie shoots from half a century earlier. Beyond a handful of fishing poles pointed out to sea, the Torre Normanna loomed in the distance, a reminder of another tragic Rossellini couple—Joe and Carmela. They shelter in the tower during the opening scene of Paisa, struggling to bridge their language barrier. Maiori, it seems, is a place where communication constantly threatens to break down.
In many ways, Rossellini’s Journey to Italy is a neorealist anomaly, given its focus on a wealthy foreign couple instead of working class Italians (though fishermen are ever present in the soundtrack, from the very first glimpse of Vesuvius and the Bay of Naples). And likewise my film, Viaggio, is far from a traditional travelogue, since the narration was recorded many years after my trip and juxtaposes a breakup that took place under different circumstances. Both, perhaps, are sorts of home movies — Rossellini was, apparently, on the rocks with Bergman at the time of production. Read this way, they become documents not only of place and time, but also of the filmmaker. Neorealism’s political undertones instead become personal.
Two – Vasilios Papaioannu
PREFAZIONE:
Creo dei collages visuali attraverso la sperimentazione di un equilibrio tra forma e contenuto, estraendo le numerose possibilità che il suono e l’immagine hanno da offrire. Quando la forma trascende il contenuto, il mio lavoro flirta con l’astrazione. Quando il contenuto prevale, navigo dentro regni narrativi. Vivo con questo equilibrio sensibile, dividendomi tra opere narrative o sperimental-narrative e avanguardia o video-arte. Dal punto di vista visivo, combino fotografia (da 35mm a 120mm), diversi format digitali (principalmente DV e 4K), film (16mm e super8 e materiali d’archivio – tutto ciò che si sviluppa all’interno di una struttura temporale utilizzando differenti livelli di sovrimpressione. Utilizzo la sovrimpressione per espandere, nascondere e distorcere lo spazio che mi circonda, trasformando l’ordinario in straordinario. In questo collage di forma e contenuto, il suono assume un ruolo preponderante: le possibilità inerenti al suono non sincronizzato e al silenzio sono uguali a quelle del suono sincronizzato. I miei paesaggi sonori funzionano di conseguenza. Li costruisco consecutivamente per presentare diversi strati e fondere suoni ambientali, dialoghi, narrazione, materiali archivistici e musica, usando rumori e distorsioni. Per me, la bellezza dell’imperfezione nel granello di un’immagine equivale al rumore registrato in una registrazione. È la traccia di unicità creata dalla storia. In sintesi, uso l’imperfezione come strumento narrativo per comunicare trasversalmente al di là di una sequenzialità causa-effetto dell’immagine in movimento.
{Per favore, leggi velocemente. Grazie.}
TRASMEDIA
Forme, forme, forme. Diverse forme. Forme rumorose. Forme astratte. (Rumore). Digitale. Film. 0 e 1. 1 e 0. Tutte le combinazioni possibili. Forme insieme in una unità. Fuse in un intero. Perché l’intero è molto più importante delle sue parti (Gestalt ♥). Tutto dovrebbe avere un senso alla fine. Coerenza (l’obbiettivo!). Ma il tempo è importante. Anche nella sua immobilità il movimento del tempo esiste. Muovendosi sempre in avanti. Non fermandosi mai. Tempo basato sulla fusione. Video e film e fotografia e filmati d’archivio e audio. In differenti dosi, in differenti successioni. Tutti insieme. Uno.
ARCHIVIO
Lunghe passeggiate nel bosco dell’Oregon, registrando la voce della natura per un progetto futuro immaginario. Paesaggi sonori della realtà. Pioggia. Acqua. Echi. Un gatto morto. (Patsy mi manchi 🙁 ). Un progetto futuro immaginario. Forse. O anche tesori nascosti in un negozio dell’usato, da qualche parte a New York. Vecchi rulli super 8 impolverati; momenti familiari ormai andati. Sogni dal passato. Audio. O immagine. Non importa, davvero. Può essere un inizio. Una metà. Una fine. Una possibilità.
SPERIMENTAZIONE
Combinare le immagini in ogni modo possibile. 16mm, super 8, iphone, go pro, mini DV, 4K, fotografia in 35mm. In o g n i modo possibile. È quasi un atto disperato, non lasciando che niente di meraviglioso passi senza essere catturato. Bellezza. Accumulandola per coincidenza, uscendo dalla tua casa o entrando nella tua macchina per trovare te stesso altrove. Alberi, una strada, il posteggio di un motel. Catturando immagini. Registrando suoni. Pensando. Immaginando. Suono e immagine trovandosi e perdendosi l’un l’altra. Verticalità (suono & immagine). Sequenzialità tra immagini. Una timeline di emozioni. Grani e pixels. O ancor più distorsione. Sovrimpressioni per esempio. Ogni cosa dovrebbe aver senso. Coerenza. Coerenza ANCORA! E alla fine un titolo…due parole, più spesso una per comprendere un significato. Qualche significato. Un progetto (nato). Un proiettore (è necessario). (poi) Tu.
PREFACE:
I create visual collages experimenting with the balance between form and content, mining the many possibilities that sound and image have to offer. When the form transcends the content, my work flirts with abstraction. When the content prevails, I navigate into narrative realms. I live with this sensitive balance, dividing myself between narrative or experimental narrative works and avant-garde or video art. Visually I combine photography (35 mm to 120mm), different digital formats (primarily DV and 4K), film (16mm and super 8) and archival material—all which unfold in a time-based structure using different levels of superimposition. I use superimposition to expand, conceal and distort the space that surrounds me, transforming the ordinary into the extraordinary. In this collage system of form and content, sound takes a preeminent place: the possibilities inherent in non-sync sound and silence are equal to those of sync sound. My soundscapes function accordingly. I construct them sequentially to present different layers and to merge environmental sounds, dialogue, narration, archival material and music, using noise and distortion. For me, the beauty of imperfection in the grain of an image is the equivalent of the noise registered in a recording. It’s a trace of uniqueness created by history. In sum, I use imperfection as a narrative tool to communicate transversely beyond the cause-and-effect sequentiality of the moving images.
{to read fast please.thank you.}
TRANSMEDIA
Forms, forms, forms. Different forms. Noisy forms. Abstract forms. (Noise). Digital. Film. 0 and 1. 1 and 0. All the possible combinations. Forms together in a unit. Merged into a whole. Because the whole is more important than its parts (Gestalt ️️♥). Everything should make sense in the end. Coherency (the goal!). But time is important. Even in its stillness the movement of time exists. Moving always forward. Never stopping. Time based merging. Video and film and photography and archival footage and audio. In different doses, in different successions. All together. One.
ARCHIVE
Long walks into the woods of Oregon, recording nature’s voice for an imaginary future project. Soundscapes of reality. Some rain. Water. Echoes. A dead cat. (Patsy I miss you 🙁 ). An imaginary future project. Maybe. Or even hidden treasures in a thrift store, somewhere in New York. Dusty old super 8 rolls; family moments that are long gone. Dreams from the past. Audio. Or image. Doesn’t matter, really. It can be a start. A middle. An end. A possibility.
EXPERIMENTATION
Gathering images in every possible way. 16mm, Super 8, iphone, go pro, miniDV, 4K, 35mm photography. In e v e r y possible way. It is almost a desperate act, not leaving anything beautiful pass by without capturing it. Beauty. Gathering by coincidence, exiting your house or entering your car to find yourself elsewhere. Trees, a road, the parking lot of a motel. Capturing images. Recording sound. Thinking. Imagining. Sound and image finding and losing each other. Verticality (sound & image). Sequentiality between images. A timeline of emotions. Grain and pixels. Or even more distortion. Superimpositions for example. Everything should make sense. Coherency. Coherency AGAIN! And in the end a title…a couple of words, more often one to encompass a meaning. Some meaning. A project (born). A projector (is needed). (then) You.
Monte Amiata – Tommaso Donati
SPERIMENTAZIONE
VUOTO
ALIENAZIONE
Monte Amiata è nato dalla volontà di continuare un lavoro sulla solitudine e sull’emarginazione sociale, ma soprattutto dalla fascinazione di un luogo e di come i corpi che lo popolano si relazionano ad esso.
Nel film ho voluto sperimentare attraverso un linguaggio silenzioso, composto da gesti e posture misteriose della protagonista che ogni giorno viene inghiottita dall’architettura austera che la circonda e la continua presenza della tecnologia che rappresenta la sua memoria.
Monte Amiata è un film sul passato e sul futuro:
Katia, la protagonista, ha perso le tracce di Cumar partito per la Somalia, lasciando un vuoto nel suo quotidiano e l’unica speranza di contatto per lei rimane il telefono, mezzo nel quale si rifugia dalla società attuale.
La mia riflessione si focalizza principalmente su cosa significhi abitare in un posto che non lascia respiro e sulla possibilità di essere in un luogo ma senza aver un reale contatto con la realtà. La protagonista si allontana sempre di più dalla sua vera identità fino a diventare un individuo straniero del suo stesso essere abbandonando in modo graduale il concetto di “casa”.
Lei e Cumar, nei precedenti film, sono inghiottiti dal vuoto che li circonda e sono alle prese con una misteriosa ricerca che interroga in modo costante lo spettatore.
In tale situazione la tecnologia diventa per loro l’unica memoria e l’unica speranza di relazione con l’altro.
L’alienazione che si può trovare facilmente in strutture residenziali simili quella di Monte Amiata, permette di creare quasi una società secondaria e un microcosmo fantasma, permettendo ad una persona di perdere facilmente il contatto con la società esterna. Così come è successo alla protagonista che diventa un corpo disincarnato che vaga in spazi indefiniti e remoti fino a raggiungere l’apice della solitudine dei boschi dove Katia si rifugia.
From Day to Night – Robert Orlowski
PERCEZIONE
MEMORIA
TEMPO
Dal momento che il mio approccio al cinema è davvero personale, lascio a te la risposta.
Percezione, memoria e tempo sono le parole scelte per me a cui rispondere relativamente al mio film From Day to Night. Sulla strada del ritorno a casa da lavoro ho provato a pensare intensamente al modo in cui avrei potuto rispondere a queste tre parole nello stile dell’Abecedario di Deleuze. Ma come sospettavo, è diventato difficile rispondere ad ognuna individualmente poiché esse sono tutte impigliate nella nostra esperienza del mondo che ci circonda. Come potrei scrivere una frase sulla percezione, senza includere: tempo, memoria e viceversa.
Quando ho iniziato a fare “film sperimentali”, ciò che mi ha impegnato sono stati i film categorizzati come “diario filmato”, specialmente i film di Jonas Mekas. Ricordo che rimanevo sveglio tutta la notte fino al mattino presto a guardare Walden (Diaries, Notes, and Sketches), rimanendo stupito del fatto che una persona potesse semplicemente portare in giro una macchina fotografica, filmando ciò che gli sta intorno e fare un film che trasporta cinematograficamente lo spettatore.
Dopo essere stato in una scuola di “narrative filming”, specificamente di cinematografia, quest’idea era straordinariamente liberatoria. Ma l’aspetto del film che veramente mi aveva stimolato, era lo stile intimo in cui era stato girato. Quando dico “intimo” non mi riferisco al fatto che Mekas lo ha girato per una cerchia ristretta di amici, ma che ha girato e successivamente “montato” il film come se tu stessi letteralmente guardando attraverso i suoi occhi. Per questo era come se ti trasportasse verso quei momenti che lui ha registrato, concedendoti un prezioso senso di energia fisica e visiva che non ho mai sperimentato prima nel cinema (né sul mio divano)! È stata questa esperienza che ha suscitato i miei pensieri sulla percezione, la memoria e il tempo.
Semplici passeggiate nel parco ora diventavano un campo di esplorazione cinematografica. I momenti quotidiani più importanti sono:
qualcuno che siede su una panchina
i tuoi sguardi a
la terra di fronte a te
alberi che soffiano in lontananza
Tutte queste visioni diventavano momenti per attivarsi. E non era solo il fatto che questi stessi momenti si attivavano, ma anche per il modo in cui essi si dispiegavano l’uno nell’altro, l’uno sull’altro, l’uno con l’altro, e l’uno contro l’altro. Improvvisamente, cominciai a capire le meravigliose energie che hanno da offrire anche gli eventi più insignificanti. Un ritmo creato non solo dal tuo soggettivo punto di vista (che stabilisce il tuo campo visivo), ma anche dalla relazione tra il movimento del tuo corpo attraverso lo spazio e la prossimità/presenza agli oggetti che ti circondano.
Come puoi immaginare, le mie stancanti passeggiate mattutine per andare a lavoro sono state molto più eccitanti! Comunque, più prestavo attenzione alle mie passeggiate, più capivo che per una parte di esse non mi rendevo conto degli stimoli visivi che mi si presentavano. Qualche volta la mia consapevolezza spaziale era stata influenzata dal potere di un pensiero casuale o di una meditazione, altre volte la mia mente poteva essere svuotata dalla fatica. Durante questi momenti, spesso mi trovavo a fissare il terreno, senza prestare attenzione a ciò che mi stava di fronte, né a ricordare ciò che avevo precedentemente visto. Anche se devo ammettere di essere paranoico circa la mia abilità di dimenticare così facilmente semplici dettagli, questo aspetto delle mie passeggiate di ritorno da lavoro mi ha fatto mettere in discussione le immagini che incontriamo e il quando e il come le percepiamo al momento dell’incontro.
Forse il momento più memorabile delle mie passeggiate era quando vedevo qualcuno giocare col suo cane. E dopo questa immagine, probabilmente un luccicante pezzo del vestito di qualcuno. Ma cosa accadeva tra questi momenti se non si incontravano fisicamente l’uno dopo l’altro? Cosa accadeva alla nostra percezione del tempo, se i momenti tra gli stimoli visivi erano perduti? E se queste immagini disparate ora risiedono l’una vicina all’altra nel ricordo della nostra esperienza, in che tempo esistono, se esistono? Possono poche immagini definire la nostra esperienza di semplici eventi? E che dire di queste immagini che hanno affascinato la mia visione? Questa è la domanda che mi ha spinto a portare in giro la mia macchina fotografica, e provare, al meglio delle mie possibilità, a filmare le mie esperienze quotidiane.
Come qualcuno che scrive le sue esperienze in un diario, riflettendo sulle sue giornate, così la pellicola mi dà la capacità di riflettere su ciò che ho visto: un montaggio composto da scatti e tagli decisi da visioni che mi hanno spinto a registrare o interrompere la registrazione. Di fronte a me c’era il mio ricordo di queste immagini senza momenti vuoti (quelli di cui ho parlato prima) nel mezzo. Perciò, la maggior parte delle sequenze del film (a parte l’inizio e la fine) sono lasciate in gran parte inedite e inserite direttamente nel film dalla modifica in-camera. Quando scrivi un diario, non dovrai mai riordinare i dettagli di un particolare evento, quindi perché dovrebbe esserci la necessità di trattare il film in modo diverso?
Più raccoglievo materiale, più mettevo in discussione i ricordi della mia esperienza contro ciò che avevo realmente filmato. È possibile che questa striscia di immagini, quando sono in movimento, sia una riflessione sulla fisicità della mia esperienza visiva e rifletta le immagini che sono vagamente impresse nella mia psiche? O la pellicola è un’entità separata, estranea al corpo che l’ha prodotta? Tutte queste sono domande a cui non ho dato una risposta, e a cui non sono sicuro di voler mai dare completamente una risposta. From Day to Night è una celebrazione della vita e l’essenza dell’esperienza visiva umana. Quindi, detto questo, deve esserci un posto per il mistero.
EXPERIMENTATION
TIME
PERCEPTION
As my approach to filmmaking is very personal, so shall the response to your task.
Perception, memory, and time were the words you chose for me to respond to in context of my film, From Day to Night. On the walk home from work I tried very hard to think about how I could respond in the Deleuze’s Abecedario style to these three words. But as I suspected, it became difficult to respond to each individually as they are all entangled in our experience of the world around us. How could I possibly write a sentence about perception, without including: time, memory and vice versa.
When I first started to attempt to make “experimental films”, what engaged me were the films categorized under “diary filmmaking”, especially the films of Jonas Mekas. I remember staying up all night into the early morning watching Walden (diaries, notes, and sketches), being amazed that a person could simply carry around a camera, film what was around them, and make a film that really carries the viewer cinematically.
After being in school for narrative filmmaking, specifically cinematography, this was idea was extraordinarily liberating. But the aspect of the film that truly provoked me, was the intimate style in, which it was shot. When I say “intimate” I am not referencing the fact that Mekas shot his close friends, but more so that he shot and consequently “edited” the film as if you were literally seeing through his eyes. Because of this it was as if he was transporting you to those very moments that he recorded, granting you a precious sense of bodily and visual energy, such that I have never quite experienced before in the cinema (nor my couch)! It was this experience, which provoked my thoughts about perception, memory, and time.
Simple walks through the park now became a field for cinematic exploration. The most quotidian of moments:
someone sitting on a bench your glance to the ground in-front of you trees blowing in the distance
All of these visions became moments of activation. And it wasn’t just that these moments themselves were activating, but also in the way that they unfolded into each other, and onto each other, with each other, and against each other. Suddenly, I began to realize the marvelous energies that even the most insignificant events had to offer. A rhythm created not only by your subjective point of view (which dictates your field of sight), but also the relationship between your body’s movement through space and the proximity/presence to the objects around you.
As you could imagine this made my tiring walks to work in the early morning much more exciting ha! However, the more and more I started to pay attention to my walks, the more I realized that for a portion of them, I wasn’t cognizant of the visual stimuli presented to me. Sometimes my spacial awareness had been swayed by the power of a random thought or meditation, other times my mind could be blank from fatigue. During these moments, I would often times find myself staring at the ground, not really paying attention to what was in-front of me nor being able to remember what I had previously seen. Even though I was admittedly paranoid about my ability to easily forget simple details, this aspect of my walks to work made me question the images that we encounter and when/how we perceive encountering them.
Maybe the most memorable image of my walk was when I saw someone playing with their dog. And then after that image, perhaps a bright piece of someone’s clothing. But what happened in between those moments if they were not physically encountered one after another? What happens to our perception of time, if the moments in between visual stimuli are lost? And if these disparate images now sit next to each other in our remembrance of our experience, what time, if any do these exist in? Can only a few images define our experience of simple events? And what about these images fascinated my vision? It is these questions, which prompted me to carry around my camera, and try, in the best of my ability, to film my quotidian experiences. Similarly to someone writing about their experience in a diary, reflecting on their day, the film strip provided me with the ability to reflect on what I had seen: a montage made up of shots and cuts decided by visions which had prompted me to either record or stop recording. In front of me was my recollection of these images without the blank moments (which I spoke before about) in between. Because of this, a majority of the sequences in the film (aside from the beginning and ending) are left largely unedited, and placed directly into the film from the in-camera edit. When you write a diary entry, you would never re-order the details of a particular event, so why should there be a need to treat the film any differently?
The more that I collected footage, the more that I questioned the memory of my experience vs. what it was I had actually filmed. Is it possible that this strip of images, when set in motion, is a reflection upon the physicality of my visual experience and reflects the images that are vaguely imprinted in my psyche? Or is the film strip a separate entity unrelated to the body that produced it? All of these questions I do not have the answer to, and I am unsure if I ever want them completely answered. From Day to Night is a celebration of life and the essence of the visual human experience. So with that being said, there must be some place for mystery.
Fortuna – Miguel Tavares
Abc Fortuna
SPERIMENTAZIONE
Cosa succede se metto un po’ di polvere di cacao nel mio latte? Credo che tutti noi conosciamo la risposta. Il latte diventa più scuro e anche più aromatizzato al cioccolato. Ma ci sono quegli esperimenti su cui hai meno controllo. E il cinema ne ha una gran quantità. Suppongo che questo sia il nostro istinto naturale, sin da quando siamo bambini, di mettere non solo la polvere di cioccolato nel latte, ma anche un po’ di sale, pepe, una banana e un orecchino di nostra madre. Qualche volta fai un bel film.
FORTUNA
Per me, la cosa più interessante della fortuna è che lei distribuisce i suoi disegni casualmente. Gira la sua ruota e tu vai… Uno non guadagna nulla adorandola. Voglio davvero credere che non ci siano casi speciali.
SPARIZIONE
!Ahhhhhhhhhhh! – il miglior take scompare quando il filmmaker torna a casa
– !Ohhhhhhhhhhh! Niente più clapboards. Filmare sempre.
EXPERIMENTATION
What happens if I put a bit more chocolate powder in my milk? I think we all know the answer. The milk’s going to be darker, and also more chocolate flavoured. But there are those experiments that you have less control upon. And cinema has a great deal of those. I guess it’s our natural instinct, since we are kids, to put not only the chocolate powder in the milk, but also a bit of salt, pepper, a banana and an earring from our mother. Sometimes you get a nice film.
FORTUNE
To me, the most interesting thing about this goddess is that she distributed her designs randomly. She spins her wheel and there you go… One profits nothing worshiping her. I really want to believe that there are no special cases.
DISAPPEARANCE
!Ahhhhhhhhhhh! – the best take always disappears when the filmmaker get’s home – !Ohhhhhhhhhhh! No more clapboards! Always filming.
The Desert Forgotten – Daniel Murphy
VIDEO-ARTE
In tutti i miei vari progetti c’è una preoccupazione per le strutture delle nostre immagini, e per i contesti che le strutture suggeriscono. I miei lavori utilizzano una combinazione di materiali storici e contemporanei, tecniche da camera oscura e automazione digitale. L’oggetto del film e l’oggetto del video m’interessano in egual misura, e i loro punti di collisione mi interessano doppiamente. The Desert Forgotten contiene tre secoli di indirizzi tecnologici ripiegati all’interno l’uno sull’altro: un testo da un memorial del 19th secolo, una pellicola 16mm lavorata a mano e immagini satellitari. Come un artista di immagini in movimento che lavora in questo momento storico, sono costretto ad impegnarmi attualmente con le sofisticate tecnologie digitali e analogiche che sono subito disponibili.
MEMORIA
I modi in cui l’esperienza umana vissuta influenza la nostra comprensione dello spazio fisico è il principio delle mie indagini. Le nostre memorie, sia condivise che soggettive, sono inscritte nelle nostre mappe. Credo che un’immagine di un paesaggio è un’immagine della storia di quel paesaggio, e quella memoria è un sistema intrinsecamente fallibile. Come tale, tendo a rappresentare lo spazio come incerto, destabilizzato dalle opere della mente umana.
SPERIMENTAZIONE
Sono propenso a immagini che abitano l’area grigia tra l’astratto e il rappresentativo. Sebbene apprezzi la storia dell’animazione astratta nel cinema, sono meno interessato ad evocare immagini da zero. Invece, mi muovo per trovare le prospettive da cui la rappresentazione diventa instabile, trovando le strane parti frattali che comprendono l’intero quotidiano moderno. La sperimentazione è centrale per il mio processo creativo, poiché le mie immagini cominciano davvero ad essere mie quando si comportano in modo inaspettato e mi sorprendono. Sia durante la fotografia principale, in camera oscura, o in fase di montaggio, introduco variabili nella speranza di indurre l’imprevisto.
VIDEO ART
Throughout my various projects lies a preoccupation with the textures of our images, and the contexts that the textures suggest. My works utilize a combination of historical and contemporary materials, darkroom techniques and digital automation. The film object and the video object interest me in equal measure, and their points of collision doubly so. The Desert Forgotten contains three centuries of technological address folding inward onto one other: text from a 19th century memoir, hand-processed 16mm film, and satellite imagery. As a moving image artist working at this point in history, I am compelled to engage concurrently with the sophisticated digital and analog technologies that are readily available.
MEMORY
The ways in which lived human experience influences our understanding of physical space is principle to my investigations. Our memories, both shared and subjective, are inscribed on our maps. I believe that an image of a landscape is an image of the history of that landscape, and that memory is an inherently fallible system. As such, I tend to represent space as uncertain, destabilized by the workings of the human mind.
EXPERIMENTATION
I am inclined towards images that inhabit the grey area between the abstract and the representational. Though I hold an appreciation for the history of abstract animation in the cinema, I harbor little interest in summoning imagery from scratch. Instead, I move to find the perspectives from which representation becomes unstable, finding the strange fractal parts that comprise the whole of the modern everyday. Experimentation is central to my creative process, as my images only really begin to endear themselves to me when they act unexpectedly and catch me by surprise. Whether during principal photography, in the darkroom, or in the editing stage, I introduce variables in the hopes of inducing the unforeseen.
Lumen – Richard Ashrowan
SPERIMENTAZIONE
In Lumen ho lavorato con due performers, Alastair MacLennan e Sandra Johnston, nella tremolante luce estiva che attraversava alcuni alberi nel sole pomeridiano. Questi tre minuti di film sono una registrazione di un piccolo momento di assorbimento durante sette giorni trascorsi insieme, sperimentando ogni giorno con il movimento e la luce nel paesaggio. Questo tipo di sperimentazione era una forma libera, avevamo solo la concezione di una luce come sostanza primaria, che diversamente permetterebbe al peasaggio e alle condizioni climatiche di dettare le azioni. Probabilmente è inusuale, per una performance artistica, che le azioni siano molto spesso in risposta o in relazione a più forme materiali – l’interazione della mente e del corpo, il modo in cui questo abita lo spazio, si relaziona agli oggetti, provoca movimenti. Qui, abbiamo provato ad approcciarci alla luce non come una fonte d’illuminazione ma come una sostanza plasmabile in sè e per sè. È stato un esperimento dal vivo, improvviso, spontaneo, già profondamente sentito sopra e dentro le superfici del corpo.
ALCHIMIA
Nel trovarci ancora una volta insieme per lavorare a Lumen, abbiamo ampliato una porzione di lavoro iniziato nei primi trenta minuti del film Alchemist (2010) [https://ashrowan.com/portfolio/alchemist/]. Questa volta, ero interessato a trarre ispirazione dai diari di un alchimista e matematico inglese John Dee (1527-1609). In particolare, avevamo letto degli estratti dai suoi “diari angelici” che erano essenzialmente dei diari di laboratorio in cui registrava, nei minimi particolari, le sue conversazioni con gli angeli. Queste conversazioni erano realmente delle conversazioni con la luce, dal momento che Dee avrebbe contattato degli angeli concentrando i raggi del sole in una sfera di cristallo o in una specchio di ossidiana. Avrebbe impiegato un veggente, Edward Kelly, che avrebbe guardato in una sfera di cristallo e visto e ascoltato gli angeli, creati da una concentrazione di forze celesti contenute nei raggi di luce. Certamente è una strana forma di alchimia, per niente interessata alla traformazione dei metalli di base in oro. È invece un’alchimia della luce, che utilizza strumenti ottici, e appartiene all’occulta e nascosta tradizione di alchimisti che lavoravano con la luce direttamente nelle loro pratiche speculative, spirituali e materiali. La logica, com’era, si connette all’idea che la luce sia un’emanazione della divinità o il punto d’origine di tutte le cose, con la sua genesi nel fiat lux, o “sia fatta la luce”, così chiara, concentrata, potrebbe fungere da ponte tra l’umano e le intelligenze divine. Forse era la forma più alta di alchimia, quella di un’incarnazione e una trasformazione spirituali. La fase finale nel processo alchemico era sempre nota come proiezione.
LUCE
E la stessa luce cade, irradia, illumina, si propaga in tutte le direzioni. Se oggi chiediamo cos’è la luce, la risposta è conflittuale come sempre. Da Einstein, la luce può ugualmente essere o un’onda o un quantum. La luce, nella vita laica e non-scientifica, è anche una qualità dell’amore umano, o immaginazione, conoscenza, energia. La luce rimane profondamente incastrata nelle contemporanee tradizioni religiose o mistiche. È un principio percettivo attivo sottostante a tutte le immagini che creiamo e vediamo, e trasforma i cristalli di nitrato d’argento nel cuore dell’emulsione filmica nella pellicola 16mm di Lumen. La luce emana verso l’esterno, stimolando l’immaginazione e rifiutando una definizione limitata. Qui, la luce sembra cadere attraverso gli alberi, e queste mani esitano e si raggiungono, cercando di tenere qualcosa di inafferrabile, cercando di raggiungere qualcosa di intoccabile e informe. Cosa possiamo cercare nell’incontro tra una sostanza così strana come la luce, l’eguale stranezza della stessa carne, e l’esistenza del momento?
EXPERIMENTATION
In Lumen, I worked with two performance artists, Alastair MacLennan and Sandra Johnston, in the flickering summer light coming through some trees in the afternoon sun. These three minutes of film are a record of a small moment of absorption during seven days we spent together, experimenting each day with movement and light in the landscape. This kind of experimentation was free-form, we had only the idea to consider the light as a primary substance, but otherwise would allow the landscape and conditions to dictate the actions. This is perhaps unusual, for in performance art, actions are most often in response and relation to more material forms – the interaction of thought and the body, how it inhabits space, relates to objects, elicits movements. Here, we attempted to engage with light not as a source of illumination, but as a workable substance in and of itself. It was a live experiment, unrehearsed, spontaneous, yet deeply felt on and within the surfaces of the body.
ALCHEMY
In coming together again to make Lumen, we were extending a body of work we first began in a previous 30 minute film Alchemist (2010) [https://ashrowan.com/portfolio/alchemist/]. This time, I was interested to draw inspiration from the diaries of the English alchemist and mathematician, John Dee (1527 – 1609). In particular, we were reading extracts from his ‘angel diaries’, which are essentially lab journals in which he recorded, in painstaking detail, his conversations with angels. These conversations were really conversations with light, for Dee would contact the angels by concentrating the rays of the sun in a crystal ball or obsidian mirror. He would employ a scryer named Edward Kelly, who would look into the ‘crystalline globe’ and see and hear the angels, formed by a concentration of the celestial forces contained within rays of light. This is certainly a strange form of alchemy, not at all concerned with the transmutation of base metals to gold. It is instead an alchemy of light, using optical tools, and it belongs to a hidden occult tradition of alchemists who worked with light directly in their speculative, spiritual and material methods of practice. The rationale, as it was, connects with the idea that light was an emanation of the Godhead or point of origin of all things, with its beginnings in fiat lux, or “let there be light”, so light, concentrated, could act as a bridge between the human and the divine intelligences. It was perhaps the highest form of alchemy, that of spiritual embodiment and transformation. The final stage in the alchemical process was always known as projection.
LIGHT
And light itself, falls, radiates, illuminates, spreads in all directions. If we ask what light is, today, the answer is as conflicting as ever. Since Einstein, light can equally be a wave or a quantum particle. Light in secular and non-scientific life is also a quality of human love, or imagination, knowledge or energy. Light remains deeply embedded in contemporary religious or mystical traditions. It is the active perceptual principal underlying all the images we create and see, and it transforms the silver-nitrate crystals at the heart of the filmic emulsion in Lumen’s 16mm film stock. Light emanates outwards, firing imaginative thought, and refusing limited definition. Here, the light seems to fall through the trees, and these hands are hesitating and reaching, trying to hold something ungraspable, trying to reach for something untouchable and formless. What can we find within an encounter between a substance as strange as light, the equal strangeness of the flesh itself, and this beingness in the moment?
The Houses We Were – Arianna Lodeserto
STORIA E COMUNITÀ
Il 15 novembre 1970 gli sbaraccati del Borghetto Latino occupano Via Cavour, che è come dire Roma-centro. Piazzano le tende tra le cinquecento e la strada, per dar riparo a letti, sdraie, poltrone, tavoli da pranzo e da gioco, radio carte valigie e scope. Un’occupante signorina si sottrae alle videocamere grazie a un Diabolik, un’altra fa l’uncinetto. Un occupante signorino – tutto appuntito – si sistema la giacchetta uscendo fuori dalla casa-tenda. (Forse ha un appuntamento). Di notte gli stessi occupano l’Hotel Londra, da tempo sfitto.
Il 26 agosto 2017 gli sgomberati di Piazza Indipendenza e d’altrove sfilano in corteo dall’Esquilino. Da via Cavour a via dei Fori Imperiali, fino alle Domus Romane. Rimaniamo qui, diciamo, finché la Prefetta non sarà tornata dalle sue belle ferie. Poi piano piano, pare che ce ne andiamo. Ma non ce ne andiamo. “La lotta per la casa non ha confini”, era scritto su uno striscione, né geografici, né storici.
Nel passato romano dagli anni ’40 in poi ma che poteva anche essere prima (chi può sapere chi fu “il primo” ad occupare un’abitazione? Del resto ne avrebbe il diritto, chiunque non abbia un tetto), le contraddizioni esplodevano in bianco e nero poco fulgido: sguardo curvo di un borghese che tira ciottoli al nulla in anonima radura urbana, occhi sfacciati di una bambina sotto le tende di Via Cavour (mani su un volantino), due colti signori del Sud paiono emigrati come individui (non come massa), Gerry vaga imperante tra biodiverse periferie, i vagabondi fluviali sembra vogliano andare, i fabbricastrade di San Basilio vogliono poter restare. Non si dorme in privato. Si vaga vigili in città incomprensibili, planimetrie che nun’ se capiscono – dicono – albe senzatetto che si ripetono.
Le case che eravamo è breve storia di quello che manca, “questa storia della casa” che hai come un chiodo fisso in testa nomade. Un materiale si mette in mostra, tanti anni di storia rappresa che riguardavano tutti.
Ciò non implica, ovviamente, che ciò che si vede sia conforme a ciò che si dice, o che una cosa debba realizzarsi, rendersi visibile nell’altra. Se l’immagine, per essere storica, deve mostrare la sua dialettica, l’archivio dovrà farsi (ancora) disgiuntivo. In esso le forme eterogenee del visibile e dell’enunciabile “s’insinuano l’una nell’altra come in una battaglia”.
Se il cinema è “la mediazione più corta”, non basta, infatti, fidarsi dell’immagine, per quanto invadente e riproducibile essa sia. Se è corta e ancor di più se è cortissima, nella sua brevità vanno inserite le crepe del tempo, lo spessore tanto quanto la quiete delle sue ragioni sonore.
Da tali immagini e suoni abbiamo imparato che la storia del diritto mancato all’abitare non è esattamente cronologica (la sua origine è dispersa tanto quanto la sua fine, o il suo dannato ricominciare), e che essa è continua, non soltanto incompiuta. Abbiamo anche imparato che si grida e si lotta ogni anno in cui si debba, nel ’61 e nel ’74, nel ’72 e nel ’48, nel ’56 e nel ’63, nel 2018. (Non soltanto tra le cornici di quell’immagine-schermo detta Millenovecentosessantotto).
Una famiglia non siamo, una comune vogliamo, abbiamo diritto ad una stanza singola e ad un bagno: optiamo, dunque, per la comunità alloggio. Così affermano le anziane occupanti del Rione Monti del 1976, ritratte da Ugo Gregoretti in Dentro Roma. Si preoccupano allora di “reperire un ambiente adatto”, anche “con l’aiuto dei giovani”, perché certo altrimenti nessuno andrà a offrir loro niente, almeno non spontaneamente.
Tanti esempi e tante tonalità di quel vivere in comune e di quell’auto-organizzazione spesso narrato ed elogiato come parte integrante delle forme di vita di borgata (e in generale dei “quartieri popolari”) sono visibili nei film d’archivio qui sezionati e rimontati. Ma è certo anche vero (come scrivono gli storici), che le borgate romane – prima “laboratori rivoluzionari” – hanno poi lentamente e drammaticamente perduto quel “senso di comunità”, per numerose ragioni evidentemente storiche.
La comunità pareva un tempo coincidere con il quartiere, ma forse quel quartiere che “ti fa giusto” (come dicono i documentari sul Tufello) è stato oggi completamente assorbito dal quartiere-brand per passeggiate neoturistiche, per quanto tra sconfinati murales anticapitalisti? C’è ancora qualcosa in quella “categoria-feticcio” cara agli urbanisti (come scrivono gli storici dell’urbanismo)? È ancora possibile (e auspicabile) un ideale comunitario all’epoca della forma di locazione quasi unica detta Airbnb, in cui il singolo mette a profitto la piccola eredità privata contribuendo sempre col sorriso (quello di aver “aperto la casa agli ospiti” e dell’aver “fatto del suo spazio un’esperienza”) alla gentrification e all’innalzamento del caro-vita di tutto il suo (sempre più suo) quartiere, piuttosto che coordinando la comune auto-riduzione delle bollette e del fitto, o semplicemente non esasperando a più non posso l’andamento di quell’affitto-medio così alto da aver tagliato già fuori (dal centro e dai margini) il cittadino, diciamo così, “comune”?
The Day Before Tomorrow – Andreas Petrakis
CASA E SOLITUDINE
Pensando alla casa e alla solitudine nel mio film, vorrei evocare l’esilio, non nel suo significato letterario, che è una condizione politica, ma in senso metaforico, essere auto-esiliati: la scelta di prendere una distanza, di vivere come un esiliato, per ridefinire la propria identità.
Fin dalla preparazione di questo film ho avuto l’invisibilità di entrambi i personaggi principali, come due satelliti che orbitano attorno a una realtà, che in qualche modo non sono in grado di abitare integralmente. Due estranei si allontanano lentamente l’uno dall’altro e dal mondo in cui vivono.
Per creare questo sentimento di alienazione e distacco, il film adotta contemporaneamente due diversi punti di vista, uno secondario, dato dal suono (la voce del personaggio femminile) e uno onnisciente, dato dall’immagine.
La solitudine dei protagonisti e il fatto che non sappiamo nulla del loro passato, conferisce loro uno stato di esistenza quasi fluttuante che è giustapposto alla sensazione del forte attaccamento della popolazione locale, alle loro tradizioni e ai loro rituali sociali.
Di conseguenza c’è una costante sensazione di vuoto e malinconia nel film, che emerge dall’impossibilità che i personaggi principali appartengano a un altro luogo.
Quindi, se dovessi definire la nozione di casa nel mio film, sarebbe proprio dalla sensazione della sua assenza. L’assenza di un luogo in cui può essere pienamente abitata mentalmente ed emotivamente, piuttosto che in un luogo definito da termini culturali o geografici.
HOME AND SOLITUDE
Thinking about home and solitude in my film, I would like to evoke the exile, not in it’s litterary meaning which is a political condition, but in a metaphorical sense, to be self-exiled: one’s choice to take a distance, to live as an exile, in order to redefine its own identity.
Since the preparation of this film I had invisioned both main characters, like two satellites orbiting a reality, which in someway are unable to inhabit integrally. Two outsiders drifting slowly away from each other and the world they are living in.
To create this feeling of alienation and detachment, the film adopts simultaneously two different points of view, one subjectif, given by the sound (the female character’s voice over) and one omniscient, given by the image.
The solitude of the protagonists and the fact that we know nothing about their past, gives them an almost floating existence status which is juxtaposed with the sensation of the strong attachement of the local people, to their traditions and their social rituals.
As a result there is a constant feeling of emptiness and melancholy in the film emerging from the impossibilty of the main characters to belong somewhere.
So, if i should define the notion of home in my film it would be precisely by the feeling of it’s absence. The absence of a place that it can be fully inhabited mentally and emotionally rather than a place defined by cultural or geographical terms.
The Dream of Lady Hamilton – Olivier Cheval
TEMPO E VIAGGIO
Più avanti nel tempo ricorderò The Dream of Lady Hamilton come un bellissimo viaggio. Il più bello della mia vita, con la mia più cara amica, Charlotte Bayer-Broc. Charlotte è una regista, io monto i suoi film, – in questo film recita, ed è Emma Hamilton, la cortigiana inglese che Goethe ammira in Italia per il suo spettacolo di Attitudes. Ricordo questo viaggio. Intere giornate trascorse nel porto di Napoli, in fuga dalla polizia. Questa follia che ci ha catturati prima delle riprese, per paura di sprecare il piccolo film che avevamo. E questa incredibile salita, entrambi nella notte di Stromboli, soli, persi, preoccupati, e questo miracolo, all’arrivo, quando crediamo che non ci fosse niente da filmare, solo nero e fumo: un’eruzione di lava rossa in un incidente indimenticabile.
Durante il suo viaggio in Italia, Goethe inventa il cinema come una modalità di visione: è questa impressione nel leggere il suo libro che mi ha portato a realizzare questo film. Ha inventato alcuni momenti cinematografici: guardando il Laocoonte al buio, in Vaticano, sbatté le palpebre e agitò una torcia, così pensò di aver visto la scultura prendere vita, i corpi ancora in difficoltà; invitato da Sir Hamilton’s, descrive lo spettacolo di sua moglie come una serie di pose, usando il nero e la luce per impressionare lo spettatore. Ma è tutta la natura che diventa un grande suono e luce, un panorama cinetico, come l’eruzione del Vesuvio che descrive in un grande episodio eroico-comico.
Ma il cinema non è solo il presente di ciò che si muove: è anche la deposizione sul film degli innumerevoli strati di tempo. Così, ho pensato a questo film sul cinema-turismo di Goethe come un feuilleté temporale: c’è il passato storico del suo viaggio e c’è il presente del nostro; ci sono i gesti ancestrali del popolo siciliano e il tempo immemore delle formazioni geologiche. E c’è, lo spero, il ricordo del più grande cineasta della storia, Roberto Rossellini.
Alla fine, prima dell’epilogo di Weimar con Schiller, c’è un colpo su un tramonto sulla Mediterranea, e, a sinistra, sul fianco del vulcano. Il mare è blu, il cielo è rosa, la terra di Stromboli è nera. All’improvviso si sente un ruggito del vulcano, molto leggero, molto profondo, molto antico. Ogni volta che vedo questo film, questo suono mi fa piangere.
TIME AND JOURNEY
Later, I will remember The Dream of Lady Hamilton as a beautiful journey. The most beautiful of my life, with my dearest friend, Charlotte Bayer-Broc. Charlotte is a filmmaker, I edit her films, she plays in mines – in this one, she is Emma Hamilton, the English courtesan that Goethe admires in Italy for her show of Attitudes. I remember this trip. Whole days spent in the port of Napoli, escaping the police. This madness that seized us before filming, for fear of wasting the little film we had. And this incredible climb, both of us in the night of Stromboli, alone, lost, worried, and this miracle, on arrival, when we believe that there was nothing to film, only black and smoke: a red lava eruption in an unforgettable crash.
During his trip to Italy, Goethe invents cinema as a mode of vision: it is this impression on reading his book that led me to make this film. He invented some cinematic moments: watching the Laocoon in the dark, at the Vatican, he blinked and waved a torch, so he thought he saw the sculpture come alive, the bodies still struggling; invited to Sir Hamilton’s, he describes his wife’s show as a series of poses using black and light to impress the viewer. But it is the whole of nature that becomes a great sound and light, a kinetic panorama, like the eruption of Vesuvius that he describes in a great heroic-comic episode.
But the cinema is not only the present of what moves: it is also the deposition on the film of the innumerable layers of time. So, I thought this film about the cinema-tourism of Goethe as a temporal feuilleté: there is the historical past of his journey and there is the present of our; there are the ancestral gestures of the Sicilian people and the immemorial time of the geological formations. And there is, I hope so, the memory of the greatest filmmaker in history, Roberto Rossellini.
In the end, before the epilogue in Weimar with Schiller, there is a shot on a sunset on the Mediterranea, and, on the left, the flank of the volcano. The sea is blue, the sky is pink, the land of Stromboli is black. Suddenly, a roar of the volcano is heard, very light, very deep, very old. Whenever I see this film, this sound makes me cry.
A Picture of the Beast Precedes the Beast– Marta Stysiak
IMMAGINE E FUOCO
Inizierò con il fuoco.
Nella scena in cui la bestia accompagna la donna che brucia un vecchio divano, ho pensato a un vecchio metodo indiano di connessione con gli spiriti. Tra gli altri, il fumo è stato quello che li ha portati alla vita terrena.
E così, il fumo del fuoco portò lo spirito della bestia. La donna divenne lo sciamano, che si connette con il mondo dei fantasmi.
Un’immagine, a partire da quel punto, la scena del fuoco, è costruita in un modo che collega il nostro mondo con quelli di Animali, natura, passato e presente. È statico e il movimento è solo nella cornice per concentrarsi sui dettagli.
IMAGE AND FIRE
I’ll start with fire.
In the scene where the beast accompanies the woman burning an old sofa, I thought about an old Indian method of connecting with the spirits. Among others, smoke was the one that brought them to the earthy living.
And so, the smoke of the fire brought the spirit od the beast. The woman became the shaman, who connects with the world of ghosts.
An image, starting from that point, the fire scene, it is constructed In a way it connects our World with those of Beasts, nature, the past and present. It is static and the movement is only in the frame in order to focus on details.
Level 305 – Adriana Ferrarese
NATURA E LAVORO
L’intento iniziale del film è stato soprattutto quello di sondare la Natura umana.
Quello che mi ha attirato inizialmente è la struttura stessa di questa fabbrica di calce: conoscevo solo l’esterno (che ho poi quasi totalmente escluso dal montaggio) che già in sé è una costruzione totalmente affascinante, una cattedrale futuristica, con un sacco di tubi da dove fuoriescono fumo ed escrescenze strane che la facevano sembrare viva. Quando hanno accettato di portarmi dentro ho constatato che questa «vita» era ancora più marcata perché c’era una sorta di corpo all’interno del corpo, per il fatto appunto che fosse tutto automatizzato, e tutto avesse «vita propria», un corpo dalle sembianze umane, con le sue cavità, le sue profondità, delle sostanze nell’aria, con un cervello che « ragiona », un suo stomaco dove al ritmo del battito di una sorta di cuore centrale, vengono fatti a pezzi quintali di roccia.
E un ambiente tanto autonomo quanto intollerabile. Le condizioni sono cosi ostili che non ci si può fisicamente Lavorare (rumore assordante, pessima qualità dell’aria, buio, freddo, vento, umidità estrema). L’unico operaio presente in non so più quanti chilometri di gallerie e caverne, è quell’uomo che con lo scavatore (perso e quasi annullato nella profondità delle gallerie) porta la roccia nel frantoio.
C’è un pannello all’inizio del film che esplicita questa cosa, esponendo anche il dato sulle dimissioni annuali di questo unico lavoratore. La ragione più ricorrente che viene data a queste dimissioni è la difficoltà a restare soli per più ore nel buio e la noia.
Ho quindi osservato che non solo l’uomo tende a dare a ciò che crea una forma che gli assomiglia, ma anche che questa sua mano riesce a creare cose che gli si possono perfino ritorcere contro, e questo sembra totalmente inevitabile, come se la creazione lo sorpassasse, proprio perché l’uomo lo fa naturalmente, ha queste capacità e le sfrutta come lo farebbe qualsiasi altra creatura naturale.
Il mio forse è un ritorno un po’ crudo alle origini, anche sicuramente dettato da un’impressione mia molto personale sulla creazione, per quanto mi riguarda, artistica (ma che secondo me si può estendere a qualsiasi tipo di creazione umana), come una conseguenza di uno stato d’essere, un atto necessario, fisicamente necessario, e di conseguenza naturale.
Luna in Capricorno – Ilaria Pezone
ATTESA E REALTÀ
Credo che “attesa” sia il termine attorno al quale prende forma il film, e ancora prima del film, la realtà. La mia “realtà”. È molto difficile parlare di realtà perché mi rendo conto che senza il filtro di una soggettività che vive un determinato presente (in relazione a quella specifica soggettività), “realtà” non ha nessun significato, non esiste. È proprio l’ansia della fuggevolezza del presente a creare l’attesa, nel film. Come nella vita, vivere il presente senza proiettarlo né nel passato, né nel futuro, è un’operazione tutt’altro che automatica, proprio perché il presente è tale in quanto è in relazione a passato e a futuro. Come cogliere, dunque, la “realtà” del presente, attraverso il mio essere che ha senso in relazione al mio passato e alle mie proiezioni future, e che non trova forma nella sua presenza “qui ed ora”? La realtà filmica cattura l’attesa di un presente ignoto e privo di senso (se non a posteriori), mentre sta passando.
Esfinge – Elisa Celda Atthalin, Gabriel Ruiz Larrea
ACQUA E FUTURO
La genesi del film è stata l’incontro con uno spazio” naturale “, un estuario nel nord della Spagna. Questo paesaggio quasi senza tempo ci ha provocato uno strano fascino e ha materializzato un’idea in cui ci siamo interessati ultimamente: la relazione tra il naturale e l’artificiale. Lo spazio è infatti un ambiente creato dall’uomo, che è il risultato dell’apertura di un lago artificiale tra il mare e un fiume. Il sale dell’acqua del mare ha ucciso molti alberi e vegetazione, creando una rovina post-romantica nel fiume, un paesaggio che è allo stesso tempo bello e misterioso. In questo senso, abbiamo voluto mostrare un parallelismo tra ciò che è visto come un paesaggio apparentemente naturale e il nostro contesto come qualcosa di dato. Questa è per noi una riflessione interessante sulla contemporaneità, su come affrontiamo i nostri ambienti culturali, sociali o politici come statici ed esterni. Crediamo che attraverso il cinema, attraverso lo stato di sottocoscienza che il film vuole provocare, possiamo re-situare lo spettatore come co-produttore della realtà, invitando a ripensare ciò che diamo per scontato.
Esfinge è un incrocio tra finzione e fatti reali, esplora le origini dei miti e lo spazio vuoto come casa, parla anche della nostra generazione e del suo futuro. La narrativa è costruita con una “voce itinerante”, una sequenza di un dialogo lineare che a volte si distacca dall’immagine, rimanendo sullo sfondo, appartenendo ad altri tempi e collegando il futuro con il passato e il presente. Il segreto dell’immagine non dovrebbe essere ricercato nella sua differenziazione dalla realtà o nel suo valore rappresentativo, ma, al contrario, nell’implosione di entrambi attraverso un nuovo look telescopico. Crediamo che ci sia sempre meno differenziazione tra immagine e realtà, che non lascia più spazio alla rappresentazione in quanto tale