8½ di Federico Fellini: A Portrait of an Artist as a “Jung” Man
Definisco sincronicità la coincidenza nel tempo di due o più eventi casualmente non correlati che hanno lo stesso o simile significato. Le coincidenze significative sono impensabili per puro e semplice caso….
Carl Gustav Jung
È ancora possibile parlare di 8½ [1963] dopo più di cinquant’anni dalla sua uscita? È difficile per un autore essere spietato con se stesso e contemporaneamente catturare l’essenza di un inconscio collettivo rappresentando la decadenza della società contemporanea. Era il 1963 e Fellini, tra le righe, tra un sogno e una sarabanda, poneva inconsapevolmente quesiti esistenziali alti, influenzato dalle teorie junghiane e dall’approccio intellettuale dei giovani turchi della Nouvelle Vague. 8½ è uno di quei rari film dove sin dalle prime inquadrature si stabilisce un perfetto equilibrio tra autoanalisi prettamente autobiografica e trasposizione del senso di confusione e noia che dopo un certo percorso attanaglia le nostre esistenze. Fellini concepisce 8½ a 43 anni, tre anni dopo il successo mondiale de La dolce vita [1960], in un bianco e nero abbagliante che rispecchia fedelmente la dimensione straniante del sogno. Se ricordate, ci eravamo lasciati sul viso angelico di Paolina che cercava di comunicare a gesti con Marcello mentre il vento e il rumore del mare disturbavano e disperdevano segni e parole. Quel saluto finale era un addio alla giovinezza, alla spensieratezza, alla purezza. Quello scrollare di spalle del vitellone in pieno boom economico era il gesto immaturo di chi, avendo toccato il fondo, non ha più nulla da perdere, e quel raggio di luce comparso proprio nel buio pesto del tunnel sembrava prolungarsi in un sorriso bonario di pietas.
Subject in progress
8½ nasce sulla tabula rasa di sentimenti e di punti di riferimento lasciata da La dolce vita, ma anche da una crisi ispirativa ben documentata da Tullio Kezich nel suo saggio biografico Federico1: «Fellini è esaurito e non ha più idee, l’episodio di Boccaccio ’70 è solo un espediente per confessare la sopravvenuta impotenza creativa. Questo retroscena, impalpabile come tutti i fatti umorali, costituisce la premessa di 8½.»1
Abbiamo perduto i genitori, gli dei, i miti, gli amici, gli amori. Siamo soli a continuare questa assurda traversata. La confusione interiore è direttamente proporzionale ad un processo incessante di elaborazione del pensiero. Tutto sembra inutile, tutto sembra com’è. Schiacciati dalle responsabilità, incastrati in un incubo che è un ingorgo esistenziale (quello all’inizio di 8½), con una folla attorno che sembra sadica spettatrice dell’assurdo dimenarsi dentro una scatola di metallo. Tutte le figure istituzionali sembrano volere riportare alla terra il sognatore-poeta. L’avvocato che accalappia il regista nel sogno, il medico che prescrive assurdità (acqua santa, acqua madre), i genitori che compaiono dall’oltretomba («abbiamo parlato così poco tra noi»), la moglie che rinfaccia la mistificazione della realtà (e la bugia eretta a sistema di sopravvivenza), l’amante che viene nascosta in uno squallido alberghetto e che si accontenta di parentesi di vita («ma almeno mi vuoi bene?»), il cardinale che spegne miseramente ogni velleità mistica («ma chi l’ha detto che bisogna essere felici?»,«la salvezza è nella civitas dei»).
E poi tutto il baraccone che sta fuori e dentro la macchina cinema: l’intellettuale francese che lo accusa di didascalia e infantilismo («questo film è una suite di episodi slegati fra loro…»), il produttore che continua a fare conti ma centra, con una frase distratta e innocente, il significato del film («io lo so cosa vuoi dire, tu vuoi raccontare la confusione che un uomo ha dentro di sé»), le attrici che scalpitano e fanno a gara per farsi notare («Dite che sono bellissima, ma lo dite come fosse un insulto»), le ochette starnazzanti che si agitano attorno al produttore subito messe a tacere con cambiamento brusco del tono di voce («stai zitta, stai bonina, non parlare»), il tecnico di produzione che approfitta della fase di stallo per conoscere biblicamente due aspiranti attricette («Viva l’Italia!»), Conocchia che sbatte in faccia all’amico la sua verità («Tu non sei più quello di prima…stai attento….»). Il regista prende tempo, rimanda, ma è in grande difficoltà. Avverte adesso netta e paralizzante la sensazione di solitudine intellettuale: si sente incompreso ma sembra che si diverta ad isolarsi dagli altri. La moglie Luisa (Anouk Aimeè davvero in parte) è la prima ad avvertire questa assurda e perenne contraddizione: quando sono lontani viene desiderata e coccolata, quando finalmente ci si riunisce, scattano l’insoddisfazione e la insofferenza. La serie infinita di bugie che Guido continua a proporre a Luisa, fino alla sfacciataggine di negare l’evidenza, sono un ultimo patetico baluardo di difesa verso il mondo. Non si sa dove finisca la paura di ferire il prossimo e inizi una masochistica determinazione ad isolarsi nell’errore, sorridendo in maniera beffarda dietro la maschera di occhiali scuri, godendo di questo feroce autolesionismo. In fase di stallo ispirativo, impotente, apatico, svuotato di ogni energia vitale, Guido si avvita su se stesso allontanandosi da tutti, amici e nemici. Non riesce più a fermare questa sua caduta libera, non riesce più ad adattare la propria anima alla vita. Julia Kristeva2 azzarda, a tal proposito, un’interpretazione del personaggio di Guido, definendolo subject in process, in riferimento a quella pluralità di voci che rende il protagonista stesso vittima di una soggettività disgiunta e disarticolata, che si manifesta in «frammenti di personaggi, frammenti di ideologia, frammenti di rappresentazione». Per la Kristeva, al fine di una ricostruzione sotto forma di «nuova, plurale, identità», Fellini/Guido deve passare in 8½ dalla «sfida alla sua stessa identità, persino con il suo annullamento totale, con un momento di crisi e di vuoto». Compare infatti l’ombra della morte, rappresentata claustrofobicamente da una tomba in una stanza dal soffitto troppo basso.
L’intento del regista con 8½ era quello di fare un film dove tutti si potessero riconoscere, un film che esorcizzasse il mostro comparso dalle acque nel finale de La dolce vita, un film che permettesse di seppellire quanto di morto ci eravamo portati dentro, un film come una astronave puntata verso il cielo per future conquiste spaziali (in quel periodo la guerra fredda USA-URSS passava attraverso il lancio di satelliti e missioni in cui per la prima volta un essere umano varcava l’orbita terrestre). L’intento è altissimo, ma al momento di tradurre in immagini e sequenze quello che sta nella testa del regista, tutto perde di magia e di incanto. Il mostro Moby Dick rischia di affogare per sempre il capitano Achab, l’astronave sembra naufragare al primo lancio. Un film di fantascienza? Boh! Quello scheletro in costruzione che sembra volere sfidare con la sua imponenza gli Dei è un astronave puntata dritta verso il niente. La crisi di ispirazione ha abortito anche questa costruzione. Un film sulla morte ? Un film che parla di se stesso, della sua difficile gestazione, che si riflette allo specchio? E se veramente questo fosse il crollo finale di un«bugiardo senza né estro né talento»? Uno che«non ha più niente da dire ma lo deve dire lo stesso»? Sembra davvero non esserci via d’uscita. Sembra essere davvero arrivato il momento della pagina bianca di Mallarmè, dell’immagine fissa, dell’azzeramento narrativo. Una formuletta magica Ana Nisi Masa (l’anima? Il senso misterioso dentro le cose? L’inconscio collettivo?), ci riporta, alla velocità della luce, all’archetipo della nostra infanzia, i suoi segreti, i suoi turbamenti. Questa formula magica sembra suggerire una possibile soluzione non nella spiegazione razionale di ogni singolo evento visibile, ma nella serena accettazione del mistero e della magia che stanno alla base dell’intuizione artistica, del genio che conosce già prima di sperimentare, delle coincidenze che non sono solo coincidenze.
Stream of consciuousness
In 8½ la ricerca dell’essenza nascosta nelle cose è sapientemente bilanciata da una ironia soffusa, da un sorriso sardonico che trova il suo puntuale completamento nei commenti musicali: la cavalcata wagneriana che accompagna la estasi dei pellegrini alla sorgente termale e i frenetici crescendo rossiniani (Il barbiere di Siviglia) imitati dall’andatura disarticolata di Guido mostrano il lato grottesco di una esistenza che sembra procedere verso il nulla («Non so dove stiamo andando, guidi tu?»). Sono state citate decine di fonti letterarie cui 8½ avrebbe attinto a piene mani: si va dall’Ulisse alla ricerca del proprio mondo interiore (James Joyce), alle terre desolate (Thomas Stearn Eliot), alla ricerca proustiana di un passato apparentemente sepolto, ai labirinti kafkiani e alle senilità sveviane. Ma dai brevi documentari di Gideon Bachmann3 si comprende bene come queste citazioni siano utili ma quasi degli«in più». «Fellini rispondeva in italiano e in inglese alle domande che assiduamente gli rivolgeva Gideon Bachmann, ed erano risposte solo apparentemente evasive. Fellini descriveva con disincanto e umorismo la sua poetica, con frasi dirette, senza fronzoli, ad effetto:«Non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so un cazzo di niente». Ma la vita era ormai condizionata da quelle opere – continuava – anche se non si erano lette. Ecco che l’ignoranza esibita e dichiarata veniva riassorbita da un’assimilazione spontanea, quasi avesse respirato nell’aria le opere, i libri e i quadri, del museo e della biblioteca del Novecento. Forse che le grandi idee o le grandi visioni, per dirla con Tonino Guerra, viaggiano meglio sorrette dall’ignoranza?» 3
Dietro la figura dell’intellettuale Carini (Jean Rougeul) si cela un chiaro attacco di Fellini alla critica miope del tempo che non riusciva a separare la matrice biografica del testo dal potere eversivo dell’immagine. Alla ricerca di una costruzione narrativa e formale che potesse esprimere il travaglio mentale dell’alter ego Guido, Fellini costruisce il suo racconto en abime con una serie di raddoppiamenti autobiografici che agiscono come specchi contrapposti.4 Per esaltare la dimensione onirica Fellini usa tutti gli elementi espressivi del linguaggio cinematografico: simbologie scenografiche (i confessionali del collegio e i vestiti delle suore sembrano ali di uccello), deformazioni cromatiche (i già citati contrasti del bianco e nero), dissolvenze in nero a indicare lo stato di depressione o in bianco a evocare la purezza (la scena di Claudia-infermiera che distribuisce l’acqua), solarizzazioni che impediscono di vedere nitidamente (la scena del colloquio col cardinale nella sauna), luci di taglio che trasformano ogni spazio in un palcoscenico, obiettivi grandangolari che permettono di avere più centri di attenzione nella stessa inquadratura (primo piano e sfondo), costruzioni sintattiche anomale o poco frequenti nel cinema (il sintagma a graffe usato per descrivere il mondo della cittadina termale che mette insieme immagini di una fiera con quelle di gente che passeggia o è intenta alle cure).5 Raymond Durgnat in una analisi molto approfondita del film, affermerà che 8½ riesce a conciliare Pirandello (una psicologia del vuoto), Busby Berkeley (il dinamismo della parata), il neorealismo (l’osservazione commiserante totalmente diversa dal voyeurismo), Joyce (la messa in scena dello stream of consciousness) e la sensazione proustiana che le immagini mentali si sposino con la ricchezza del mondo esterno. 6
Lei ha fatto benissimo, mi creda, oggi è una buona giornata per lei. Sono delle decisioni che costano, lo so, ma noi intellettuali, dico noi perché la considero tale, abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine. Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine. In fondo perdere dei soldi fa parte del mestiere di produttore. I miei rallegramenti, non c’era altro da fare, e lui ha ciò che si merita, per essersi imbarcato con tanta leggerezza in un’avventura così poco seria. No, mi creda, non abbia né nostalgia né rimorsi, distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie. E poi, c’è qualcosa di così chiaro e giusto al mondo che abbia il diritto di vivere? Un film sbagliato per lui non è che un fatto economico, ma per lei, al punto in cui è arrivato, poteva essere la fine. Meglio lasciar andare giù tutto e far spargere sale come facevano gli antichi per purificare i campi di battaglia. In fondo avremmo solo bisogno di un po’ di igiene, di pulizia, di disinfettare. Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un’artista, veramente degno di questo nome, non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio.
Ricorda l’elogio di Mallarmé alla pagina bianca? e di Rimbaud? Un poeta mio caro, non un regista cinematografico, lo sa di Rimbaud quando ha finito una poesia, la sua rinuncia a continuare a scrivere, la sua partenza per l’Africa? Se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione. Mi perdoni quest’eccesso di citazioni, ma noi critici facciamo quello che possiamo. La nostra vera missione è spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno, oscenamente, tentano di venire al mondo. E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?” (l’intellettuale Carini in 8½)
Altri critici citano il Bergman de Il posto delle fragole [Smultronstället, 1957] e L’anno scorso a Marienbad [L’année dernière à Marienbad, 1961] di Alain Resnais anche se le distanze tematiche e culturali da queste due opere sono abbastanza evidenti.7 E poi Freud e tutto il pensiero psicoanalitico. In realtà nonostante evidenti rimandi alle teorie freudiane (su tutte il richiamo alla fase orale con quasi tutti i personaggi che portano le dita alla bocca), parlando di 8½, è più opportuno riferirsi alla costola junghiana della psicoanalisi, ed è noto che il regista riminese, proprio in quel periodo, frequentava uno dei più importanti discepoli di Carl Gustav Jung, ossia Ernst Bernhard. In effetti la parte esoterica e misteriosa sembra prendere il sopravvento, discostandosi dalla determinazione freudiana di volere spiegare tutto con la ragione, e cercando non solo nella sessualità ma nella forza vitale psichica (che qui coincide con la intuizione artistica) la possibilità di entrare in contatto con un inconscio collettivo, la possibilità di gettare questo benedetto ponte tra mind e matter, fenomeno e noumeno. Le risposte sono nel Libro dei mutamenti, il mitico I Ching? E se interpello gli spiriti che mi dicono? Gli spiriti rispondono:«Sei libero, ma devi sapere scegliere», ma è proprio dell’assenza di scelte che si nutre l’Harem di Guido. Non è un po’ vigliacco pretendere di vedere moglie e amante colloquiare amabilmente, non è assolutamente irrealizzabile la pretesa di vedere tutte le donne della sua vita riunirsi allo stesso tavolo per ricevere i doni natalizi, in un delirio maschilistico con tanto di frusta e sgabello, che diciassette anni più tardi, riproposto in altre forme ne La città delle donne [1980], avrebbe scatenato le ire delle femministe?
Forse la regressione infantile potrebbe rappresentare una dolce scappatoia a questo presente di morte (e in effetti – come ricordato in precedenza – vediamo spesso Guido ma anche altri personaggi di 8½ portare il dito alla bocca in una sorta di suzione della tetta materna). Eppure coi ricordi dolci e sensuali dell’infanzia riemergono anche antichi conflitti e sensi di colpa, la punizione bigotta per avere visto danzare il diavolo Saraghina in un mambo erotico, folle, grottesco. L’immaginario del piccolo Guido con mantellina e cappellino (Fellini bambino prima in nero e poi, nel finale, in bianco) diventa realtà filmica, il ricordo deformato sostituisce una mediocre verità. La naturale attrazione fisica per una donna viene trasfigurata nella componente del rimorso che il solo pensiero reca in sé. Punizioni corporali (in ginocchio sui ceci), minacce di perdizione eterna e il danno è fatto per sempre. Il processo si conclude con una condanna umiliante: vergogna! Guido non riuscirà a fare coesistere pulsione sessuale e sentimento senza ricadere negli atavici sensi di colpa inculcati dalla Chiesa, tradirà ripetutamente la moglie ma non avrà il coraggio di lasciarla, si nutrirà di donne carnali (la amante Sandra Milo che si atteggia a porca ma in realtà è devota al maritino frustrato) e di donne eteree ed angeliche (una Claudia Cardinale che simboleggia lo Yin, intuito femminile più vicino alla essenza della sincronicità junghiana) senza mai riuscirle veramente a possedere. Anzi proprio il suo angelo che gli offre l’acqua della salvezza, gli suggerirà ironicamente, con uno dei più bei sorrisi della storia del cinema, la terribile verità:«non sai volere bene…». Guido dovrebbe scegliere una cosa sola ed esserle fedele per sempre, ma cambia strada ogni giorno perché non sa scegliere quella giusta. Bugia dopo bugia, Guido non riesce più a credere a niente, non crede che l’amore di una donna possa cambiare un uomo, non crede di potere rappresentare in un opera filmica la bugia di un sentimento inesistente. Non c’è la parte, non c’è il film, non c’è niente di niente da nessuna parte. Ma forse questo nulla, questo niente che sembra proiettato all’esterno non è che il vuoto interiore, il «non saper volere bene» che genera questa enorme confusione, questo caos circolare e perpetuo.
Sarabanda
Fellini interseca piano reale e piano immaginario rimescolando le carte da bravo prestigiatore, da grande illusionista del Cinema; la sua grande originalità è quella di padroneggiare la tecnica della messa in scena e della luce in maniera tale da fare coesistere in maniera armonica (come per una magica assonanza) la confusione del presente, i fantasmi (buoni e cattivi) del passato e le visioni deliranti di un futuro possibile (quasi premonizioni). L’astronave non partirà verso le stelle e gli operai iniziano a smontare la costosa impalcatura, pezzo dopo pezzo, rivelando lo scheletro d’acciaio. Il film non è finito perché non è mai iniziato. Il suicidio del regista sembra l’unica via di uscita e dal punto di vista filosofico potrebbe rappresentare la forma più elevata di affermazione della volontà e atto finale della rappresentazione del Sé proprio nel suo annientamento.
Travolto dalle ombre gigantesche delle responsabilità (che si inseguono dietro un telone sotto il rifugio insicuro del tavolo della conferenza stampa), incapace di reggere la propria immagine allo specchio, abbandonato da amici, mogli, amanti, in balia di una folla che sembra solo divorare e disintegrare i propri idoli (come il Saturno di Goya) e che non mostra alcuna pietà di fronte a un regista senza più ispirazione, Guido decide di abortire il suo film: se non si ha nulla da dire di nuovo, meglio scegliere il silenzio. Meglio farla finita e abbandonare la scena dalla porta di servizio. Se fosse finito così 8½ avrebbe fatto individuare nel suicidio il più alto grado di onestà intellettuale, un rigore morale portato alle conseguenze estreme. In realtà è proprio il mago Polidor ad indicare in extremis la via di uscita da questo borgesiano labirinto. Ricordate Paolina e il suo invito a ballare? Beh è venuto il momento di accettare l’invito, è giunto il tempo del perdono, il perdono e l’accettazione prima di se stesso (e quel saluto finale alla madre è fortemente simbolico) e poi di tutti gli altri, le figure della sua fantasie e le persone reali, tutte insieme in un girotondo anestetizzante e consolatorio, assecondato dalla indimenticabile marcetta di Nino Rota, che diventa trionfo della Creazione artistica sulla Ineluttabilità della Morte. All’improvviso la folgorazione, il momento di lucidità: bisogna accettarsi ed accettare gli altri, conoscere i propri limiti, prendersi per mano in questa assurda sarabanda che è la vita ed andare avanti.
Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo… com’è giusto accettarvi, amarvi… e com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io… io come sono, non come vorrei essere e non mi fa più paura. Dire la verità: quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme. Non so dirti altro Luisa, né a te né agli altri. Accettami così come sono se puoi, è l’unico modo per tentare di trovarci.
(Guido, detto Snaporaz, in 8½)
Nessuno era riuscito a maneggiare una materia così difficile, filtrarla attraverso la propria sensibilità artistica e poi riproporla come messaggio universale di accettazione e tolleranza. Nessuno era riuscito a tracciare così nitidamente questo sincero percorso di individuazione delle proprie facoltà psichiche e intellettuali, senza doppi giochi o maschere di convenienza Arrivano le prime ombre della sera, le luci piano piano si spengono: la malinconia per quel Fellini giovinetto che per ultimo lascia la scena circense è stemperata dalla certezza che con 8½ il regista riminese è entrato irreversibilmente nella Storia del Cinema, la sua Arte lo ha reso immortale. E quell’occhio di bue che illumina il bambino strappandolo per un momento all’oscurità della notte non è che una poetica conferma, la trasformazione definitiva dell’Ombra individuale nella luce dell’Inconscio collettivo.
NOTE
1. T. Kezich, Federico – Fellini, la vita, i film, , Feltrinelli, Milano, 2002.
2. J. Kristeva, Intertextuality and Literary Interpretation, 1996.
3. G. Bachmann Ciao, Federico! 1970 e Fellinikon, 1969.
4. R. G. Provenzano, Invito al cinema di Fellini, Mursia, 1995.
5. C. Metz, La construction en abime dans Huit e Demi de Fellini, «Reveu d’Esthetique» né 1, 1966.
6. R. Durgnat, «Monthly Film Bullettin» n° 672, Vol 57, 1990.
7. M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro Cinema, Milano, 2004.